Islam e marxismo

Di Leila Ghanem, antropologa e dirigente comunista libanese, coordinatrice del Forum Sociale di Beirut, 17 novembre 2023. Fonte: elinsurgente.org. Versione italiana a cura di Fosco Giannini

Questo articolo è incluso nel libro “Marxismi e pensiero critico nel sud del mondo”, coordinato da Néstor Kohan e Nayar López Castellanos e pubblicato nel 2023 dalla casa editrice Akal.

Islam e marxismo: Perché discutiamo di questo argomento?

Perché il problema è attualissimo ed urgente. A metterlo in primo piano sono stati i nostri nemici di classe, che dal 2003 lavorano con tutto il loro arsenale per manipolare le società del Medio Oriente utilizzando la questione religiosa come ariete. Tuttavia, a mio avviso, il concetto islamico come ideologia di lotta contro il potere centrale è sempre stato latente nelle società islamiche, ma è stato collegato al socialismo alla fine degli anni ’70, con l’ascesa del movimento di liberazione nazionale nelle “3A” dell’Asia, dell’America Latina e dell’Africa, e che culminò a Bandung con una predominanza del “discorso socialista”.

Si è verificata una nuova fase che chiamerò (ispirandomi alla grotta di Ali Baba ne Le Mille e una Notte) “Apriti Sesamo!” A quel tempo “l’apertura economica” del mercato aveva minato il settore pubblico, l’industria pesante e la sovranità alimentare, sconfiggendo la riforma agraria… per entrare nel ciclo infernale McNamara del binomio debito-povertà. In questo preciso momento ha avuto inizio il ritorno postmoderno al predominio del “discorso religioso”.

Il fatto che oggi gli Stati Uniti e Israele designino la resistenza libanese, in questo caso Hezbollah, come un nemico strategico da sconfiggere per primo, e che il grosso della loro politica estera sia diretto contro l’asse Siria, Iran e resistenza libanese, dimostra che noi, come marxisti, siamo indietro nell’analisi degli attuali movimenti di resistenza che combattono con le armi in Libano, Palestina, Iraq e Yemen, contro l’imperialismo yankee in primo luogo, contro i suoi lacchè e contro lo stato coloniale israeliano di apartheid e il petrolio monarchie del Golfo. 

Citerò brevemente l’esempio di Hezbollah, che è l’avanguardia di questi movimenti di resistenza. La questione che dobbiamo affrontare noi marxisti è come valutare questi movimenti di resistenza antimperialisti e quale atteggiamento dovremmo adottare in base a questa analisi. Notiamo qui che non si tratta solo di analizzare le teologie della liberazione islamica, ma anche di valutare le esperienze che finora sono rimaste ai margini dei nostri dibattiti, anche all’interno della sinistra araba, che ha atteggiamenti perplessi sull’argomento, che derivano in parte dall’influenza delle idee antireligiose dell’Illuminismo nell’ambito della sinistra intellettuali Il marxismo e la dimensione culturale.

Partiamo dal presupposto che il marxismo non si occupava della dimensione culturale per ragioni che richiederebbero un’analisi separata delle correnti di pensiero dell’epoca e delle dinamiche del movimento sociale. Ma né Marx (contro una lettura dogmatica della sua opera) né i marxisti antidogmatici propongono che le idee, le religioni, le credenze non abbiano alcuna influenza sul corso della Storia.

Questa è una delle tesi fondamentali difese da Maxime Rodinson, che rivendica un’appartenenza marxista all’Islam, riferendosi a Karl Marx che proclamò in un famoso testo che “Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere: al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”. (Prefazione al Contributo per la critica dell’economia politica, Edizioni Social, Parigi, 1947). In altre parole, sono le condizioni materiali in cui gli esseri umani vivono e producono a determinare il modo in cui pensano (e agiscono). Rodinson sottolinea che “coloro che dibattono se l’Islam sia stato favorevole o sfavorevole al capitalismo condividono lo stesso implicito presupposto,  alla stregua degli uomini di un tempo e di una regione del mondo, secondo il quale le società dovrebbero obbedire rigorosamente a una dottrina precedentemente determinatasi e costituitasi al di fuori di esse, seguendone i suoi precetti, permeandone lo spirito, senza una trasformazione essenziale, senza adattarlo alle loro concrete condizioni di vita e alle forme di pensiero che sono da loro implicitamente suggerite. (Maxim Rodinson: Islam and Capitalism; ed.2014 University Press).

 Rodinson analizza in dettaglio non solo il rapporto tra Islam e capitalismo, ma anche tra socialismo e Islam. Il carattere anticoloniale è sufficiente per analizzare l’impatto di certi movimenti di liberazione teologica, compresi i movimenti di resistenza di obbedienza islamica, sulle dinamiche della storia e della lotta di classe, oppure è necessario che quest’ultima abbia un programma socio-economico favorevole alla distribuzione della ricchezza, come sostengono molti partiti comunisti?

 La questione appare oggi cruciale: tenendo conto di quanto sembrino lontane le prospettive di una rivoluzione anticapitalista e che l’islamismo radicale abbia come obiettivo principale i movimenti anticoloniali, porto qui l’esempio della battaglia omicida condotta da Daesh, Al Nusra, i wahhabiti, i musulmani Fratellanza contro Hezbollah che non è ancora scomparsa, dietro la quale c’è il sostegno finanziario e logistico di un’alleanza tripartita: l’Occidente imperialista, Israele e le monarchie petrolifere. In altre parole, la lotta anticoloniale e antimperialista è indipendente dalla questione ideologica inscritta nella lotta di classe? 

Questa è l’essenza del nostro dibattito, qui ed ora. Coloro che hanno indagato su queste questioni, soprattutto gli intellettuali del terzo mondo, hanno ravvisato la necessità di sollevare un’altra questione già formulata nel XIX secolo dal bolscevico tataro Sultan Galiev, sulla quale torneremo più avanti.

La domanda è la seguente: il marxismo era eurocentrico?

Nel 1961, ne “I dannati della terra”, Frantz Fanon scriveva: “Le analisi marxiste dovrebbero sempre leggermente riorientarsi ogni volta che si affronta il problema coloniale”. Lo storico Dipesh Chakrabarty ha parlato di “provincializzazione dell’Europa”. Esiste, da un lato, una concezione secondo la quale provincializzazione è sinonimo di particolarizzazione, e quindi relativizzazione, del “pensiero europeo eurocentrista”, e in particolare del pensiero marxista.

Esiste, invece, una concezione della “provincializzazione come distensione” che sottolinea la necessità di un’estensione e di uno spostamento dei confini della teoria marxista oltre l’Europa come condizione di possibilità di un’autentica universalizzazione. Ciò che resta da chiarire è la questione della nazionalizzazione del marxismo, la cui abituale identificazione con la “semplice” questione di “adattare il marxismo a condizioni singolari” non restituisce la complessità nella misura in cui, come ha mostrato Gramsci, questa “nazionalizzazione” comporta veri e propri processi di adattamento teorico e pratico.

 L’esempio più famoso resta quello della “sinizzazione del marxismo” intrapresa da Mao Zedong. Infatti, come scrive Arif Dirlik – che è anche un instancabile critico degli studi postcoloniali – “uno dei maggiori punti di forza di Mao come leader era la sua capacità di tradurre il marxismo in una lingua cinese”. 

Sultan Galiev o nazional-comunismo

In questo quadro, analizzando la carriera del bolscevico tataro Mirsaid Sultan Galiev, è interessante fare riferimento a un’esperienza poco conosciuta: quella del “comunismo nazionale musulmano” così come si sviluppò nella Russia sovietica, e poi in URSS, dal 1917 al fine degli anni 20.
1 – Come indica il nome, si tratta di un comunismo musulmano che solleva, più che mai, la questione del rapporto tra, da un lato, i movimenti di emancipazione europei o di “origine bianca” e, dall’altro, l’Islam e i gruppi che lo compongono in relazione alle loro rivendicazioni politiche;

2- Siamo di fronte a un movimento di emancipazione antimperialista che si è sviluppato in relazione ad un processo rivoluzionario nel cuore stesso dell’impero (russo), una situazione storica il cui precedente più illustre è il collegamento tra la rivoluzione francese e quella haitiana alla fine del XVIII e XIX secolo, quando il sultano Galiev gettò le basi teoriche e ideologiche del comunismo nazionale musulmano, che possono essere suddivisi in tre punti:

  • Il primo si riferisce ai rapporti di classe e, correlativamente, al rapporto tra rivoluzione sociale e rivoluzione nazionale. Ribadendo l’opposizione leninista delle nazioni oppresse, chiede “la vendetta degli oppressi contro gli oppressori” e dichiara che “tutti i popoli musulmani colonizzati sono popoli proletari”.
  • Il secondo punto si riferisce al rapporto tra rivoluzione socialista e Islam. Se il sultano Galiev difende l’idea che “come tutte le altre religioni del mondo”, l’Islam è “destinata a scomparire”, sottolinea tuttavia che “di tutte le “grandi religioni” del mondo, l’Islam è la più giovane, quindi la più solida e più forte per l’influenza che esercita e che la legge islamica (Sharia) presenta prescrizioni veramente positive e progressive: l’obbligatorietà dell’insegnamento, l’obbligo di commerciare e di lavorare, l’assenza di proprietà privata dei beni terra, acqua e foreste”, ecc., – prescrizioni che, come suggerisce Sultan Galiev senza dirlo esplicitamente, potrebbero essere incorporate e sostenere una futura società comunista.
  • In terzo luogo, per Galiev, l’unicità dell’Islam risiede, d’altra parte, nel fatto che “durante l’ultimo secolo, l’intero mondo musulmano è stato sfruttato dall’imperialismo dell’Europa occidentale”. L’Islam è stato e continua ad essere una “religione oppressa spinta ad agire sulla difensiva”, un’oppressione che ha generato un profondo “senso di solidarietà” insieme a un forte desiderio di emancipazione. Per Sultan Galiev non esiste incompatibilità tra la rivoluzione socialista e l’Islam: non bisogna lavorare per la distruzione dell’Islam, ma piuttosto per la sua despiritualizzazione, la sua “marxistizzazione”.
  • Quest’ultimo approccio riguarda l’esportazione della rivoluzione bolscevica o, secondo le parole dello stesso sultano Galiev, l’incanalamento dell’“energia rivoluzionaria” di origine russa oltre i suoi confini. Per il sultano Galiev, il “centro rivoluzionario” europeo si è già spento, mentre l’Oriente costituisce “un materiale molto ricco e molto ‘infiammabile’”. In questa prospettiva, la rivoluzione anticoloniale diventa la condizione di possibilità della rivoluzione europea e mondiale, e non il contrario: “Privato dell’Oriente e isolato dall’India, dall’Afghanistan, dalla Persia e dalle altre colonie asiatiche e africane, l’imperialismo occidentale perirà, e morirà di morte naturale”.

Lenin: i popoli dell’Est e la questione nazionale

Un cliché persistente presuppone che, messo alle strette dalle sconfitte della rivoluzione in Europa dopo il 1917, Lenin si rivolse all’Est e abbandonò per ripicca l’idea sacra della “culla (europea) della rivoluzione mondiale”.
Per Matthieu Renault, che si è interessato molto alla questione, si tratta di una percezione infondata. Se è vero che il pensiero di Lenin sui limiti della rivoluzione manifestava una singolare affinità con coloro che affermano intransigenti la necessità di una “rivoluzione coloniale”, in realtà egli scommetteva sulle nazioni oppresse, sui contadini poveri, sulla rottura del sistema relazioni coloniali, come condizione per la sinergia con la rivoluzione socialista.

L’interesse di Lenin per le lotte di liberazione nazionale risale ai suoi primi scritti sullo sviluppo del capitalismo in Russia, marcati, come ha giustamente notato. LR James – e non è un caso che sia stato un teorico marxista non europeo, in questo caso caraibico, a sottolinearlo – per l’imperativo e progressivo decentramento rivoluzionario, di una traduzione del marxismo in un contesto diverso da quello di L’Europa occidentale, senza essergli radicalmente estranea.

È l’itinerario di tale decentramento che deve essere esplorato attraverso due fonti: la prima rimanda alle riflessioni di Lenin, prima del 1917, sulla questione dell’autodeterminazione nazionale e delle lotte per l’indipendenza e, la seconda, il modo in cui, dopo il 1917, ha cercato di rispondere alla richiesta di decolonizzazione dell’Impero russo basata sul caso delle colonie musulmane dell’Asia centrale.

Le lotte di liberazione nazionale, ovvero la rivoluzione impura 

Nel luglio 1903, alla vigilia del Secondo Congresso del Partito operaio socialdemocratico russo (SDPWR), Lenin pubblicò sull’Iskra un articolo, “La questione nazionale sul nostro programma”, che trattava della difesa del diritto all’autodeterminazione delle nazioni, il diritto alla separazione politica da uno Stato, che non va confuso con il (supposto) diritto all’autonomia nazionale-culturale all’interno di uno Stato, al quale Lenin si oppose con veemenza. Il “diritto delle nazioni all’autodeterminazione” è una potente critica all’eurocentrismo che governa l’approccio alla questione nazionale da parte di Rosa Luxemburg e dei suoi seguaci.

Per Lenin, “affermare che l’imperialismo esercita ormai il suo dominio sul mondo intero, trasgredendo tutti i limiti territoriali stabiliti” non dovrebbe portare a una negazione, ma piuttosto a insistere sul problema urgente dei “confini degli Stati stabiliti sull’oppressione nazionale”.  
Se Lenin non mette mai in discussione il ruolo d’avanguardia del “proletariato avanzato”, non nega, dialetticamente, che le guerre nazionali e periferiche hanno il potere di introdurre germi di contagio rivoluzionario nel cuore stesso delle potenze imperialiste: “La dialettica della storia fa che le piccole nazioni… svolgano il ruolo di fermenti, di bacilli, che favoriscano l’ingresso di una nuova forza capace di lottare contro l’imperialismo, cioè: il proletariato socialista. 

Lenin e i musulmani di Russia

Il 20 novembre 1917, il giorno dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi, Lenin fece appello a “tutti i lavoratori musulmani della Russia e dell’Est” affinché si unissero a lui nella rivoluzione in corso: “Musulmani di Russia, tartari del Volga e di Crimea, kirghisi e sartani
di Siberia e Turkestan, turchi e tartari della Transcaucasia, ceceni e montanari del Caucaso! Tutti voi le cui moschee e case di preghiera sono state distrutte, le cui credenze e costumi sono stati calpestati dagli zar e dagli oppressori della Russia! D’ora in poi, le vostre credenze e costumi, le vostre istituzioni nazionali e culturali saranno libere e inviolabili. Organizzate la vostra vita nazionale liberamente e senza ostacoli! È un vostro diritto. Sappiate che i vostri diritti, come quelli di tutti i popoli della Russia, sono protetti dal potere della Rivoluzione, dai soviet dei deputati degli operai, dei soldati e dei contadini.”

Se i rapporti tra il potere sovietico e le popolazioni musulmane dell’Impero russo, durante e dopo la rivoluzione, si sono poi rivelati molto più tumultuosi di quanto suggerisca questo appello ad un’unione libera (rivoluzionaria), l’appello esprime tuttavia il profondo desiderio di Lenin di una rottura radicale con le politiche di oppressione delle minoranze nazionali e religiose che avevano segnato l’intera storia dello zarismo. Il simbolo inaugurale di questo desiderio è la restituzione, da lui ordinata, del Corano di Othman, una delle copie più antiche del testo sacro, ai musulmani di Russia.

Lenin giocò poi un ruolo importante nei processi più o meno burrascosi della creazione delle prime repubbliche sovietiche musulmane, in particolare nella crisi di Bachkire del 1919-1920, ma si interessò soprattutto al caso del Turkestan russo (Asia centrale), conquistato nella seconda metà del XIX secolo dagli eserciti zaristi e sottoposto allo sfruttamento coloniale in senso stretto. Lì possiamo osservare lo sviluppo delle monocolture (in particolare del cotone), la divisione spaziale tra le città-città degli indigeni da un lato e i coloni dall’altro – il cui numero era aumentato notevolmente dopo il completamento nel 1906 della costruzione della ferrovia linea che univa Mosca a Tashkand – e anche un’opposizione frontale tra loro; gli occupanti russi, ucraini, tedeschi (etnici) ed ebrei, divisi a livello nazionale nel resto della Russia, appaiono qui soprattutto, uniti come bianchi contro i musulmani . Lenin si rese progressivamente conto che, più che altrove, era in Turkestan che bisognava raccogliere la sfida della decolonizzazione dell’Impero russo.

Il 22 aprile 1918 Lenin e Stalin inviarono un messaggio di saluto “Al Congresso dei Soviet del Territorio del Turkestan a Tashkand”, assicurando al Congresso l’appoggio del Consiglio Generale.

Secondo Lenin, il processo rivoluzionario in Asia centrale doveva servire da modello, fonte di ispirazione e “importazione” per i movimenti di liberazione nazionale a livello internazionale, soprattutto nell’est musulmano. Doveva essere un laboratorio dell’indispensabile combinazione tra rivoluzione socialista e lotte anticoloniali. Non si tratta solo del rovesciamento del potere borghese esistente, ma anche della distruzione definitiva di ogni traccia dell’eredità lasciata dalle pratiche colonialiste. 
Sono elementi teorici, questi, che dovrebbero permetterci di analizzare un movimento di lotta armata anticoloniale e di obbedienza islamica: Hezbollah, come annunciavo all’inizio.

Hezbollah l’ultima resistenza armata.

Hezbollah è nato nel 1982 dopo l’occupazione israeliana del Libano. I suoi membri sono musulmani sciiti che popolano il sud del Libano e la Bekaa, che sono quelle regioni del Libano che forniscono la maggioranza assoluta di manodopera nel settore agricolo e nel terzo settore. Gli sciiti del Libano sono prevalentemente di origine proletaria o contadina. La rivoluzione islamica iraniana guidata dall’Ayatollah Khomeini contro lo Scià dell’Iran, fantoccio dell’imperialismo e membro della NATO, avrebbe dovuto svolgere un ruolo di trampolino di lancio per i militanti sciiti, fino ad allora emarginati e non organizzati in sindacati.

Va ricordato che questa stessa popolazione costituiva la base dei militanti della sinistra libanese. Purtroppo quest’ultimo non aveva un vero programma di lotta armata contro l’occupante. Nel 1982, durante l’invasione coloniale israeliana del Libano e la partenza forzata del braccio armato della resistenza palestinese guidata da Yasser Arafat verso la Tunisia, richiesta dagli Stati Uniti e da Israele, mentre i militanti di sinistra libanesi lanciavano le loro armi nelle strade per sfuggire alle ritorsioni, i militanti di Hezbollah raccoglievano queste armi per prepararsi al combattimento.
Hezbollah si è presentato fin dall’inizio come un movimento di liberazione nazionale e non come un partito religioso, anche se il suo discorso si ispira alla storia del movimento sciita, in particolare alla rivolta di Saddam Hussein scoppiata contro il califfo omayyade sulla base di tre grandi linee guida:
1-Possesso della terra;

2-La gestione delle finanze e delle imposte sul commercio;

3-L’equa distribuzione della ricchezza.

Lo sciismo è contrario alla proprietà privata e favorevole a una gestione collegiale delle finanze che consenta un’equa distribuzione della ricchezza a tutti i musulmani senza distinzione di classe. Per gli Omayyadi cedere le terre agli insorti andava contro lo sviluppo della società e del commercio. Hussein e i suoi uomini furono orribilmente massacrati a Karbala, in Iraq, in uno scontro eroico, poiché gli equilibri di potere in Iraq non erano loro favorevoli: da quell’evento, la battaglia di Karbala è entrata nella mitologia di tutti gli sciiti. 

Quando Nassrallah nei suoi discorsi annuncia con fermezza che “non deporremo le armi anche se tutti gli imperialisti si unissero contro di noi”, evoca nella mente dei suoi combattenti e della popolazione che protegge la resistenza l’esempio del martire Hussein.

Nella carta costitutiva di Hezbollah ci sono frammenti delle richieste di Al-Imam Hussein per la giustizia sociale e la protezione degli “svantaggiati”. Ma Hezbollah si è radicalizzato sul campo, adattando i suoi principi alle esigenze del momento. Troviamo così una flessibilità del concetto religioso (tra la lettera del 1985 e quella del 2009). L’ultima lettera rimette a fuoco gli obiettivi e la visione di Hezbollah sul “ruolo delle donne nella società, l’indipendenza della magistratura, la difesa del multi-comunismo, la lotta alla corruzione, la decentralizzazione e la preservazione di tutte le libertà pubbliche”.

Attualmente, Hezbollah, è praticamente l’unico movimento di resistenza armata antimperialista su larga scala su scala internazionale; opera in condizioni difficili in virtù della mobilitazione totale dei servizi di spionaggio volti a disarmare questa resistenza o addirittura mettervi fine.
Questo movimento di resistenza è riuscito a raccogliere intorno a sé organizzazioni marxiste, tra cui il FPLP, che collaborano strettamente con loro. Hezbollah è per il popolo palestinese il vero portatore di speranza per la sua liberazione dal giogo coloniale. I discorsi di Nassrallah vengono seguiti nelle basi dei militanti di Hamas, Jihad e Fatha.
Hezbollah è consapevole che un movimento rivoluzionario non può limitarsi a un singolo paese, da qui la necessità di agire per affrontare l’imperialismo su tutti i fronti. Per questo motivo ha inviato truppe per combattere l’esercito mercenario di Daesh e Al Nusra addestrato e finanziato dalla CIA e dalle monarchie petrolifere del Golfo.
Nel 2006 e nel 2009 Hezbollah ha organizzato due forum internazionali per chiedere la convergenza delle lotte armate anticoloniali in Libano, Palestina e Iraq, dei popoli dell’America Latina contro il capitalismo e l’egemonia statunitense, la convergenza delle lotte contro il sistema capitalista che chiama nel suo gergo “fonte del male”. A questi due forum erano presenti più di 400 delegazioni.

Hezbollah non è stato in grado di reagire in tempo durante le grandi manifestazioni del 2019, per motivi di sicurezza. È rimasto scettico riguardo a un mix disparato tra una vera rivolta sociale e la presenza attiva di ONG pagate dalle ambasciate, in particolare quelle americane, che hanno come obiettivo quello di espellere Hezbollah dal governo: tutto ciò ha scatenato un grande dibattito tra i sostenitori della resistenza.

La resistenza di Hezbollah è attiva nel campo sociale attraverso ospedali, scuole e orfanotrofi. All’inizio del 2006, secondo un rapporto dell’IRIN, il movimento finanziava 4 ospedali, 12 cliniche, 12 scuole, 2 centri di attrezzature agricole, programmi sociali e ambientali, fornendo servizi gratuiti o a basso costo ad alcune delle regioni più svantaggiate del paese. Una delle sue istituzioni, Jihad al-binâ, ha svolto un ruolo importante nella ricostruzione del Sud e dei quartieri sciiti di Beirut.

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