Salario minimo e questione salariale generale: gli obiettivi di una nuova lotta di classe contro il governo e le forze sindacali concertative

EDITORIALE – di Stefano Tenenti, dirigente del sindacalismo di classe; del Coordinamento Nazionale del Movimento per la Rinascita Comunista

La crescita esponenziale del lavoro povero

L’Italia è l’unico Paese OCSE in cui le retribuzioni medie lorde negli ultimi trenta anni sono diminuite. Mentre in Germania sono salite del 33,7% e in Francia del 31,1% in Italia si è registrato un calo del 2,9%. Nessun Paese occidentale ha avuto un andamento peggiore del nostro, come si evince dal 55° rapporto CENSIS 2021 sulla situazione sociale del Paese. nel frattempo le cose sono ulteriormente peggiorate.

Dentro questa situazione media generale si registra l’allargamento clamoroso del lavoro povero. Il ministro del lavoro Orlando, in carica fino a ottobre 2022 che aveva incaricato un gruppo di studiosi in materia per una ricerca correlata, ha chiarito che i “lavoratori poveri” in Italia sono il 25% del totale, uno su quattro, con una significativa differenza tra gli uomini che sono il 16,5% e le donne che invece schizzano al 31,8%. I settori dove si concentra questa condizione sono quello turistico-alberghiero, il commercio, il pulimento, la vigilanza, l’agricoltura, pur estendendosi a tutta l’economia del Paese. E questi non sono i dati peggiori, perché ci sono altri studi che, concentrandosi sul solo salario, avevano stabilito che sotto la soglia d’indigenza, nel 2017, si collocava il 32,4% della popolazione. (VisitINPS Scholars).

Ovviamente c’è un dato strutturale che spiega questa diffusione del lavoro sottopagato rappresentato dalla deindustrializzazione nazionale favorita dalla dismissione di gran parte dell’economia pubblica e dalla conseguente scomparsa di una politica industriale. Ma c’è anche un dato politico che pesa fortemente: la diffusione dei bassi salari e della conseguente ricattabilità di tutti i lavoratori aiuta i governi, da ultimo quello Meloni, a perseguire linee di concorrenza interna del mercato del lavoro che aiutano a spingere  le retribuzioni verso il basso.

Questa precarietà e questa povertà, che oggi, con il rialzo dei prezzi ed il riaccendersi dell’inflazione sono destinate a pesare ancora di più, risultano funzionali a destrutturare l’intero sistema di garanzie e tutele che era stato conquistato nei decenni passati, tentando così di affossare completamente il ruolo e il senso del sindacato, in particolare di quello conflittuale che oggi sembra l’unico ancora capace di impensierire le borghesie nazionali. Infatti, dopo il riassorbimento totale dei sindacati CGIL, CISL, UIL nelle logiche concertative milioni di lavoratori poveri non riescono più ad “incontrare” quelle organizzazioni, non sanno cosa farsene, le vedono come rappresentanti di un sistema lontano ed estraneo alla propria condizione, al massimo un servizio a cui rivolgersi per questioni fiscali o attinenti il Patronato. Sono tantissimi i lavoratori poveri ma sono soli e individualizzati nella loro condizione contrattuale personale, senza praticamente sistemi di difesa e di contrattazione collettiva.

Non si creda che, nella situazione sopra descritta, l’irruzione nel mercato di forme “tecnologicamente avanzate” di lavoro abbiano rappresentato un cambiamento reale positivo della subordinazione di classe e delle basse retribuzioni, anzi tutt’altro. 

Anche l’uso delle piattaforme digitali è stato utilizzato come “schiavizzazione” dei lavoratori. Con l’apparenza di una dimensione moderna del lavoro si introduce una modalità sempre più diffusa di costruzione di un bacino di manodopera in continua concorrenza interna ed esterna dove vige un sistema di indici di performance che spingono ad una sfrenata ipercompetitività. Un sistema inaugurato nel Delivery ma ormai in espansione in molti altri settori.

Amazon, da questo punto di vista, rappresenta il paradigma delle aziende ipertecnologiche e rappresenta il luogo del capitale nel quale si sperimentano le innovazioni più ardite dal punto di vista dell’automazione, dell’organizzazione, della produzione di senso comune, di addomesticamento sociale. Come si legge nelle tesi Congressuali dell’Unione Sindacale di Base il modello di lavoratore di questa piattaforma è stato rappresentato come un atleta industriale: “Con tale definizione contenuta in un volantino della filiale Amazon di Tulsa, poi ritirato per pudore, si definiva il dipendente come una persona che conduce una vita sana per preparare il corpo a camminare fino a 13 miglia al giorno (21 km) a sollevare un totale di 20.000 libbre al giorno (9 tonnellate)”.  Ecco il lavoro che devono sopportare 12.500 magazzinieri e 15.000 driver operanti in un cinquantina di siti nel nostro Paese.

Ora, nel quadro del lavoro che si è sviluppato negli ultimi decenni e che, si badi bene, riguarda oltre che la Gig Economy anche i lavoratori contrattualizzati della fabbrica tradizionale, la riduzione generalizzata dei salari  deve avere una risposta capace di invertire la rotta di 180° per riportare così gli strati sociali del lavoro dipendente ad iniziare il recupero di quote di ricchezza nazionale che sono andate tutte nelle tasche del padronato e dei nuovi ceti emergenti,  sempre meno numerosi  ma, contemporaneamente, sempre più ricchi.

Da questo punto di vista l’impresa appare davvero ardua. A ben guardare, per quanto sia sofisticata e complicata l’analisi sulla composizione sociale scaturita dalla quarta rivoluzione industriale, non mi pare si riesca ad eludere una considerazione di fondo che riguarda le modalità con le quali è possibile ipotizzare la fuoriuscita dalla condizione di povertà nella quale ci si trova anche quando si ha un lavoro. Un po’ tutti gli osservatori sembrano d’accordo nel ritenere che l’inversione dell’attuale tendenza passa attraverso una forte ripresa del conflitto sociale, unica garanzia della possibile rivolta del “proletariato”, per  sfatare cosi la tesi che sia ancora in corso, e in modo irreversibile, la sola ma potente “ribellione delle élite” come teorizzato da Cristopher Lasch. Altra cosa è definire il significato di “proletariato” oggi, e la conseguente difficoltà di immaginare concretamente i soggetti capaci di rappresentare e guidare una classe per sé, su cui poggiare le fondamenta di un nuovo conflitto redistributivo.

È evidente che, allo stato attuale, non sembrano esistere le condizioni necessarie a reggere e guidare lo scontro a cui si fa riferimento. Bisogna lavorare “a testa bassa” per la costituzione di un Partito che ancora non c’è, adeguato alla sfida del terzo millennio (anche sotto il profilo dell’apparato teorico necessario).  Oltre al partito servirebbe anche un sindacato che si faccia carico degli interessi di classi sociali così frantumate, capace sì, di conflitto sociale aperto e di proporsi come alternativa di sistema, ma anche di autonomia dagli equilibri politici del momento. Di affidare ancora tale compito a movimenti e a rivolte più o meno colorate, detto francamente, se ne hanno piene le scatole.

Tuttavia constatato che, nella migliore delle ipotesi, siamo chiaramente, temporalmente, in una fase di stallo rispetto alle necessità sopra accennate; dobbiamo comunque cercare di uscire urgentemente dal blocco in atto perché le condizioni economiche di milioni di lavoratori dipendenti e pseudoautonomi, non sono più ulteriormente sopportabili.

Pertanto, se, come credo, le forze politiche e sindacali oggi in campo sono totalmente  inadatte a organizzare le forme di scontro sociale aperto di portata tale da rendere possibile il cedimento delle élite e costringerle a rinunciare a fette di ricchezza da ridistribuire, allora deve essere proprio il Movimento per la Rinascita Comunista a farlo, ponendosi questo obiettivo come prioritario.

Per tentare di recuperare il consenso di massa intorno ai grandi temi dello scontro capitale-lavoro, ci si può avvalere anche della lotta che può nascere intorno al salario minimo garantito per legge, la cui mancata applicazione sia debitamente e pesantemente sanzionata.

Per perseguire il risultato non prenderei minimamente in considerazione la proposta di legge di istituzione del  salario minimo (primi firmatari Fratoianni, Richetti, Schlein, Bonelli), in quanto  sostanzialmente inutile. Proponendo infatti 9 euro lordi comprensivi di tutte le voci stipendiali la proposta non modifica, di fatto, le attuali retribuzioni “da fame” dei lavoratori italiani anche se “contrattualizzati”. Come se non bastasse, nel suo articolo 7 la legge propone un’aggravante non da poco che conviene riportare per esteso: “la legge di bilancio per il 2024 definisce un beneficio in favore dei datori di lavoro (sic!), per un periodo di tempo definito e in misura progressivamente decrescente proporzionale agli incrementi retributivi corrisposti ai prestatori di lavoro al fine di adeguare il trattamento economico minimo orario all’importo di 9 euro”. In buona sostanza, gli eventuali incrementi della paga oraria concessi dai padroni saranno loro compensati con la fiscalità generale.

Quindi la bagarre parlamentare di queste ore che vede lo scontro in aula tra governo Meloni e le opposizioni su questa materia, con il ritiro delle firme dall’emendamento in Commissione, è sostanzialmente una tempesta in un bicchiere d’acqua tra chi non vuole introdurre vincoli di sorta per gli imprenditori e chi li vuole in misura irrilevante e comunque, scaricati sui lavoratori stessi.

Venendo a cose più serie, è necessario sostenere la battaglia per il salario minimo per legge, cioè l’individuazione di una soglia minima tutelata dal diritto, ma quella che prevede almeno dieci euro contenuta in una legge di iniziativa popolare elaborata dal sindacato di base che ha già raccolto le firme necessarie per essere presentata in Parlamento. Il punto centrale non è solo il fatto  di proporre un valore assoluto più alto ma, soprattutto, di essere indicizzato e quindi collegato all’andamento dell’inflazione. Come si può comprendere facilmente con i valori inflattivi attuali che superano la doppia cifra, se non ci fosse questa piccola “scala mobile” sulla paga oraria minima, essa sarebbe immediatamente sterilizzata. È chiaro che una migliore retribuzione oraria non risolverebbe da sola la condizione nella quale si trova il lavoratore povero: ci sono infatti molti altri temi, dalla soglie di part-time alla natura dei contratti nazionali di lavoro ecc. Essa però costituisce un punto di attacco che ha un forte valore simbolico e deve servire a rimettere al centro della politica nazionale la condizione di milioni di lavoratori che hanno bisogno, urgente, di modificare le proprie condizioni materiali di vita.

Non è un caso che questo progetto trovi sulla sua strada l’opposizione strenua dei sindacati concertativi, di Confindustria e di buona parte dell’arco costituzionale. Nonostante l’evidenza, ormai impossibile da nascondere, che la contrattazione nazionale non sia riuscita a salvare il potere di acquisto dei salari, i soggetti elencati continuano a sostenere che stabilire un minimo salariale per legge finirebbe per indebolire la stessa contrattazione, sfidando così, apertamente, il senso del ridicolo. 

La posizione del governo Meloni su questa partita mostra il suo vero volto. Tanto servile nei confronti delle élite che hanno contribuito al suo successo elettorale, abbandonando ogni pur residuo riferimento alla cosiddetta “destra sociale”, quanto feroce con i lavoratori.  

Le motivazioni che confermano palesemente l’assunto della subordinazione della destra al capitale, anche su questa partita del salario minimo, sono espresse chiaramente sul giornale di Confindustria. «Il Sole 24 Ore»: “Il Bel Paese si avvale di un sistema di contrattazione collettiva in grado di soddisfare l’85% dei lavoratori, l’adozione di un valore minimo di 9 euro lordi rischierebbe di abbassare il livello attuale previsto da molti contratti” e ancora: “l’introduzione del minimo salariale potrebbe dare avvio ad una spirale inflazionistica in quanto le Imprese potrebbero riversare i maggiori costi delle retribuzioni sui consumatori generando un conseguente aumento dei prezzi”.

Faccio soltanto notare, per demolire tali idiozie, la contraddittorietà delle motivazioni addotte. Se il salario medio effettivo è superiore all’ipotetico salario minimo eventualmente imposto per legge, non si vede come la sua adozione potrebbe causare una spirale inflazionistica. 

La verità è che il governo liberista usa motivazioni palesemente infondate al solo scopo di rassicurare gli imprenditori del Paese rispetto ai loro margini di profitto.

Attardarsi però, più del dovuto, sul giudizio da dare alle scelte del governo di centrodestra, sui temi del lavoro,  può risultare  inutile visto che, far pagare le crisi capitalistiche al lavoro dipendente pubblico e privato è, sostanzialmente la “mission non impossible” dell’attuale esecutivo. Chi si aspettasse infatti, comportamenti difformi da quelli adottati rischia, francamente, di apparire quantomeno ingenuo.

Più interessante, a mio avviso, è indagare  le reali  possibilità che lo spazio lasciato vuoto da tutto l’attuale “arco costituzionale” sui temi che interessano i lavoratori possa essere coperto da una forza politica in progress attraverso una ricomposizione delle forze che si autodefiniscono comuniste. 

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