Assassinio femminile di massa e necessità della costruzione del tabù contro la violenza sulle donne

di Fosco Giannini, Coordinatore nazionale del Movimento per la Rinascita Comunista

L’incessante susseguirsi dei femminicidi è una questione da affrontare senza sottovalutazioni e spostamenti di piano, senza il manicheismo che pretende di scegliere fra diritti civili e diritti sociali (in un senso e nell’altro, a seconda del soggetto), e con un radicale ripensamento del ruolo che la Giustizia può avere non solo sul piano pratico dell’immediato, ma sul piano socio-culturale, per concorrere a creare le condizioni di una società dove la violenza sulle donne sia un tabù introiettato nella coscienza collettiva. 

Ventiseienne, già madre di un bimbo di quattro anni, incinta di tre mesi di un secondo figlio, presa selvaggiamente a pugni al volto e poi assassinata con almeno sette coltellate al torace sulle scale di casa: l’assassinio, nella forma di femminicidio, di Vanessa Ballan a Riese Pio X, nei pressi di Treviso, lo scorso 19 dicembre è, allo stato delle cose e dopo l’orrenda morte di Giulia Cecchettin per mano del “bravo” quanto algido ragazzo Filippo Turetta, il 107esimo caso di femminicidio, in Italia, di questo ancora non terminato (e dunque ancora gravido di morti femminili) 2023.

Il femmicidio è ormai statisticamente considerabile un “assassinio rituale di massa”. Un computo funereo che ha preso in esame questa forma di assassinio ha stabilito che in Italia, tra il 1° gennaio e il 12 novembre 2023, su 285 omicidi le vittime di genere femminile sono state 102, pari al 35,8%. Una su tre. Per ciò che riguarda gli omicidi avvenuti in un contesto familiare o affettivo, il numero generale è di 125 morti, dei quali 82 donne, per una percentuale del 65,6% di donne. Due su tre. Se, inoltre, si valutano gli episodi in cui l’assassino è il partner o l’ex partner, registriamo 58 vittime di omicidio, 53 delle quali donne, il 91,4% del totale. Uomini che ammazzano donne, in una mattanza senza fine. In un contesto, peraltro, in cui resta “incredibilmente” alto e diffuso il numero dei maltrattamenti, delle forme di schiavizzazione – fisica, psicologica, economica – di intimidazione, di minacce e di violenze, da parte degli uomini sulle donne.

È in virtù della reiterazione senza ostacoli morali della violenza che oggi possiamo parlare, quando ci riferiamo al femminicidio, di un “assassinio rituale di massa”.

Come debbono porsi le comuniste e i comunisti di fronte a questa, ancora largamente incompresa e “vissuta”, nella sua dimensione orrorifica, questione sociale, politica, ontologica?

Non certo come quei “comunisti” italiani ormai alla mercè di quei fascisti che inneggiavano alla fucilazione dei partigiani come Gianni Alemanno, “comunisti” che, attraverso un’operazione politico-ideologica tanto intellettualmente miserrima quanto moralmente squallida, relegano i diritti civili, e assieme ad essi l’intera questione di genere, tra le “scorie” politiche e teoriche piccolo-borghesi. Come se l’intero popolo di donne oppresse, umiliate, picchiate, e infine ammazzate dagli uomini fossero in verità tante madame Bovary che, rubato l’arsenico dalla farmacia di monsieur Homais, decidessero poi – in solitudine, indipendentemente dai coltelli, dai martelli o dalle pistole degli uomini – di avvelenarsi e morire.

Attraverso quale perverso marchingegno “teorico” questi “comunisti” possono, sgangheratamente, giungere alla loro lettura delle cose? Come arrivano a sbeffeggiare la questione di genere e a irridere ai diritti civili?

Seguendo la seguente “riflessione”, molto più “evoliana” (alla Julius Evola) che hegeliana o marxista: poiché la sinistra radical ha ormai rimosso la questione centrale dello scontro capitale-lavoro, collocando al centro la questione dei diritti civili, tale questione è suscettibile di essere riempita di disprezzo e spazzata via.

Ora, è vero che la sinistra radical ha decentrato sia la concezione che la lotta concreta anticapitalista, riempiendo poi il vuoto creato attraverso una superfetazione dei diritti civili, ma giungere alla demonizzazione di questi stessi diritti (attraverso sogghigni superomisti alla Farinacci e il recupero di un linguaggio sordido pieno di “froci”, “zoccole”, “negri” che nemmeno il ministro Lollobrigida, quanto meno per opportunismo, usa più) significa portare avanti un’operazione politico-ideologica contraria e speculare a quella della stessa sinistra radical: mentre questa sinistra amputa la lotta di liberazione della “classe” e dell’umanità della questione decisiva della lotta contro il capitale, i “comunisti” ormai in camicia bruna di cui parliamo amputano la lotta di liberazione della “classe” e dell’umanità della lotta per il superamento delle oscure oppressioni che hanno prodotto, abbinandole allo sfruttamento padronale capitalistico e precapitalistico, i poteri ideologici atavici, tribali, religiosi, sessuofobi, razzisti, omofobi e anti femminili prodotti dalla divisione storica del lavoro tra uomo e donna, tra le basi della feroce discriminazione di genere a sfavore della donna.

La nazionalizzazione/socializzazione dei mezzi di produzione, base essenziale e strumento principe per la transizione al socialismo, non è di per sé, tuttavia, l’atto finale ed esaustivo per il socialismo, che è invece liberazione generale della “classe” e dell’umanità. Ci sono “comunisti” che oggi invitano il generale Vannacci (il “pinochettista” che ha in tasca il metro per misurare la “normalità” di ogni cittadino, che vive tempi non suoi, altrimenti saprebbe lui come risolvere il problema dell’anormalità dell’omosessualità, dell’anormalità delle donne che lasciano il focolare domestico per lavorare e anche dell’anormalità dei comunisti) a candidarsi nelle loro liste elettorali per le prossime elezioni europee: bene, questi “comunisti” che non sono capaci di sentire il dolore dell’umanità emarginata e sofferente, non possono sentire nemmeno il dolore sociale della “classe” e sono dunque “comunisti” già condannati al tradimento della “classe” e del comunismo. 

Dopo ogni femminicidio, si alza da ogni dove – neo-“cattedratici” di sinistra e di destra, alla stessa stregua – il coro liturgico del “ruolo della scuola”. Con l’ora di “relazioni sociali” che assurgerebbe a svolta risolutrice della questione del femminicidio di massa. 

In questa semplicistica tesi, così tanto funzionale, per i malati di accidia politica, a salvarsi l’anima, vi è innanzitutto una sorta di insulto e incomprensione per il lavoro del povero esercito, sottopagato, sottostimato e ormai ampiamente proletarizzato, delle maestre e dei maestri, delle professoresse e dei professori, individuati probabilmente dai sacerdoti dell’ora di “relazioni sociali”, come coloro che si preoccupano solamente si insegnare a leggere le prime vocali o a far imparare a memoria L’Infinito di Leopardi.

Non è così: con uno scarto enorme tra la qualità dei nostri maestri e professori, del loro sacrificio quotidiano e la politica distruttrice sulla scuola dei governi di centro-sinistra e di centro-destra che si susseguono, nella scuola italiana vi sono già grandi corridoi aperti e volti alla discussione sulle grandi tematiche sociali, comprese le tematiche del femminicidio, della diversità di genere e dei diritti sociali e civili. Uno spazio che è sin da ora ben più ampio di quello che sarebbe circoscritto in un’ora settimanale di “relazioni sociali”.

Vogliamo forse dire che tale ora di lezione non sarebbe utile? Assolutamente no! Vogliamo solo dire che nel discorso fluviale sul ruolo della scuola che sgorga – onnipresente – dopo ogni femminicidio, vi è, da una parte, un atteggiamento oggettivamente ignorante e persino volgare in relazione alla stragrande area del corpo insegnanti e alla loro già forte pratica del “discorso sociale” e, d’altra parte, vi è una visione mitologica del ruolo della scuola, come se da essa dovessero scaturire tutte le risposte ai problemi sociali.

Al di là della scuola, la società che ruolo ha nella costruzione di un senso comune di massa reazionario e fortemente contrario ai diritti sociali e civili, ancora fortemente nemico della liberazione totale della donna? Che ruolo dovrà avere per il superamento di tali problemi? E la famiglia, l’apparato mediatico generale, la letteratura, l’arte, la cultura dominante, i rapporti di classe, la Giustizia, le forze dell’ordine, la Politica, che colpe hanno e come dovrebbero invece agire per combattere la guerra senza fine del femminicidio?

La costruzione di un senso comune di massa maschilista ha avuto bisogno, per formarsi, di millenni e millenni. E qualcuno davvero crede che l’ora settimanale di “relazioni sociali” nelle scuole avrebbe la forza, di per sé, di opporsi a quel senso comune ancora profondamente patriarcale radicato in vastissime aree sociali come una figura spudoratamente totemica o insinuato, nelle aree sociali più avanzate e “illuminate”, come un virus mascherato, ancora lungi dall’estinguersi e sempre pronto a riaffiorare?

La violenza contro le donne, il senso del dominio e della proprietà, l’assassinio di massa da parte dell’uomo contro il genere femminile, parlano chiaramente di un’assenza: l’assenza del tabù contro la violenza sulle donne, l’assenza dell’orrore collettivo e individuale nell’uomo per la pratica della violenza contro la donna. E se non si costituirà il tabù, la pratica della violenza continuerà senza fine, indisturbata.

Qual è il tabù costituitosi a livello di massa con più carica orrorifica? Con ogni probabilità è il tabù dell’incesto. Non vi è essere umano che non senta l’orrore per l’incesto, anche qualora fosse ancora attraversato dall’ancestrale pulsione a praticarlo. Per la violenza planetaria contro la donna, per il suo assassinio di massa perpetrato in tutti i paesi del mondo non vi è lo stesso orrore, anzi siamo lontanissimi dal formarsi anche di una prima parvenza di orrore. Come, peraltro, mai si è costituito, sul piano mondiale, l’orrore di massa per lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla donna. Tutti i lavoratori e le lavoratrici dei paesi capitalisti subiscono uno sfruttamento oggettivo e intellettualmente riconoscibile e appurabile, senza che mai ciò, al pari dell’incesto, si trasformi in orrore sociale, in tabù.

Il tabù dell’incesto, secondo Michel Foucault, prese corpo nella fase storica umana segnata dal passaggio dal nomadismo alla stanzialità. Nel nomadismo la procreazione avveniva tra gruppi consanguinei, attraverso la “normalità” sociale dell’incesto. Apprendendo a lavorare la terra, cogliendone i frutti, l’umanità di allora decise di fermarsi, superando il nomadismo e preparandosi alla stanzialità. Ma, afferma Foucault, affinché la stanzialità potesse affermarsi occorreva costruire un vasto reticolato sociale, obiettivo che richiedeva il superamento dei gruppi consanguinei chiusi e la conseguente rimozione storica della procreazione attraverso l’incesto. Da qui, per esigenza oggettiva e attraverso un lungo periodo storico, appare, prende forma e poi si consolida il tabù dell’incesto, tabù funzionale alla costruzione della società stanziale.

In altri termini: è stato un cambiamento epocale di immensa portata storica, il passaggio dal nomadismo alla stanzialità e alla nuova cultura umana della coltivazione della terra, a costruire sul campo il tabù ancor oggi più orrorifico e, allora, tanto rivoluzionario.

Affinché possa processualmente prendere corpo il tabù dell’assassinio di massa e della violenza contro le donne dobbiamo aspettare, mani nelle mani, affidandoci magari all’ora di “relazioni sociali” nelle scuole, un evento storico di portata epocale, dobbiamo aspettare l’instaurazione del socialismo maturo, quello liberatore e non certo quello dei “comunisti” amici di Alemanno e Vannacci?

Nella sua rielaborazione del passaggio storico tra nomadismo e stanzialità, Foucault mette a fuoco il ruolo dei capi, dei “sacerdoti”, dei detentori del potere e della Legge di quella fase di transizione, leader, sacerdoti e capitribù che disseminavano il terrore contro i cultori dell’incesto, li demonizzavano di fronte alla società e li punivano severamente, tutto al fine di costruire il tabù dell’incesto quale svolta necessaria per la fuoriuscita dai gruppi consanguinei e la costruzione della società larga, reticolare, stanziale.

Nelle stesse società hawaiane antiche e precolonizzate dall’imperialismo l’azione volta alla costituzione dei tabù, e dunque della Legge sociale, politica e morale, segnava la vita quotidiana della popolazione e i capitribù avevano il compito diuturno di istituire, attraverso una loro stessa, anche orrorifica, sacralità, il sistema dei tabù, compreso il tabù dell’incesto. 

Anche a partire da tali constatazioni storiche potremmo giungere ad una concezione, ad un’asserzione che in teologia ha carattere ferreo, che nello Stato borghese sacralizza la proprietà privata e nella realtà in divenire è continuamente constatabile: è la Legge che crea la morale.

Certo, per non rischiare definizioni apodittiche, aggiungiamo che non è solo la Legge a creare la morale, poiché intervengono in tal senso anche i movimenti sociali e culturali, quelle esigenze del potere che punta a sviluppare e consolidare se stesso attraverso la sussunzione indolore di culture apparentemente “altre da sé”, pur tuttavia la Legge rimane ancor oggi la forza che con più potenza tende a dar forma alla morale di massa.

Prendiamo in esame la Rivoluzione d’Ottobre: pur in un arco temporale breve (70 anni) il socialismo sovietico aveva già costruito un senso comune di massa che se ancora non era arrivato al pieno tabù, al pieno orrore dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla donna, tuttavia aveva disseminato in profondità i valori dell’uguaglianza, del socialismo e della pace.

Una questione, a questo punto, ci interessa: se è la Legge a svolgere un compito centrale nella costruzione di un tabù, non è forse la mancanza della Legge a determinare l’assenza quasi totale del tabù contro l’assassinio di massa delle donne?

Naturalmente, per Legge intendiamo l’insieme, la concatenazione di concetti e pratiche dirette a prevenire, “orrorificare”, stigmatizzare, persino demonizzare di fronte all’intera società, reprimere e punire l’assassinio di massa contro le donne.

Solo a partire dalla costatazione dello stato di cose presenti potremmo prendere in seria considerazione quest’assunto: vi è, si rivela fortissima di fronte al sangue versato, l’esigenza di “terrorizzare” la vastissima pulsione alla violenza e all’assassinio contro le donne al fine di iniziare (quantomeno iniziare) a gettare le basi per la costruzione storica del tabù per la violenza contro il genere femminile. Così come, probabilmente e dando fiducia alla narrazione di Foucault, facevano i primi demonizzatori-sacerdoti della fase di passaggio tra nomadismo e stanzialità al fine di costruire il tabù dell’incesto.

L’intervento a pieno regime della Legge nella lotta contro il femminicidio di massa è una richiesta che proviene dal buio sociale, dal dolore sociale, è la necessità di un’azione immediata e potente che entri nel divenire storico senza dover aspettare l’avvento del socialismo. Che di utilizzare la Legge per reprimere la pulsione al genocidio femminile non avrebbe dubbi, così come non avrebbe dubbi nel reprimere la lotta per il ritorno al potere delle classi reazionarie.

I genitori di Filippo Turetta, l’assassino di Giulia Cecchettin, vanno a trovare il figlio in carcere e affermano che “saranno sempre al suo fianco”. Sono i genitori, e la loro posizione è apparentemente giusta. Apparentemente, di buon senso. Se non che il buon senso non è coscienza rivoluzionaria, ma è spesso il residuo organico della cultura dominante. In verità, la posizione dei genitori di Filippo Turetta è conseguente a quel senso comune ancora lontanissimo dal tabù dell’assassinio di massa contro le donne e in qualche modo con esso conciliante e incapace di sublimare nell’orrore per la violenza bestiale contro il genere femminile anche i sentimenti familisti, di solidarietà familistica, ben meno importanti, in un’ottica rivoluzionaria, dei sentimenti umanistici. Se Filippo Turetta, invece che l’assassinio di Giulia avesse praticato, sotto lo stesso tetto dei genitori, un’azione incestuosa, essi non avrebbero probabilmente dichiarato di stare “sempre al suo fianco”, poiché l’orrore per l’incesto li avrebbe travolti e dominati. Mentre l’assassinio di una donna può anche aprire varchi di “pietas” umana verso l’assassino.

Se oggi, dunque, volessimo che fosse la Legge, in un rapporto dialettico con le posizioni culturali, filosofiche e politiche più avanzate e illuminate, a creare la morale e attraverso ciò mettere in campo i primi mattoni del tabù dell’assassinio di massa contro le donne, noi saremmo di fronte a due primi e significativi problemi: primo, una tendenza, certo non minoritaria, del femminismo occidentale e italiano a viversi e rappresentarsi come “femminismo liberale”, ostile, all’interno della propria cultura essenzialmente borghese, all’intervento della Legge nella costruzione del tabù dell’assassinio di massa delle donne (ostile all’intervento della Legge anche nelle forme repressive e punitive di tale assassinio e da qui la grande “narrazione”, come unica misura volta alla lotta contro la violenza maschile, del ruolo della scuola e dell’ora di “relazioni sociali”). Secondo, il molto probabile rifiuto, da parte di un vasto arco di forze politiche, culturali e sociali anch’esse di impronta (anche se di “sinistra”) essenzialmente liberale, di una severa stigmatizzazione e demonizzazione sociale, di una repressione e punizione esemplare dell’assassinio e della violenza di massa contro il genere femminile.

Le misure di stigmatizzazione potente e su vasta scala, di emarginazione, di prevenzione, di repressione e punizione contro gli uomini che con irrisoria facilità praticano tutte le forme della violenza contro le donne sono, drammaticamente, quasi assenti. La Legge è assente nella lotta per la costruzione di un’altra morale.

Maria Monteleone, tra le più importanti figure della Magistratura italiana, nel suo saggio dal titolo L’insostenibile inadeguatezza del contrasto giudiziario alla violenza di genere mette in luce come, in molti casi, non si riesca a proteggere le donne che denunciano di essere vittime di situazioni di abuso e di violenza; mette in luce le ragioni sistemiche e culturali per le quali, in tanti casi di femminicidio preceduti dalla denuncia della vittima, emergano ancora omissioni, ritardi e mancanza di specializzazione, tanto nell’azione dei magistrati quanto in quella delle forze di polizia.

Afferma, tra l’altro Maria Monteleone nel sui saggio già citato: “È ormai nota ai più la complessità che caratterizza i fenomeni criminali implicati nella violenza di genere e nella violenza domestica, e non meno avvertita è la necessità che le istituzioni pongano in essere strumenti di contrasto idonei e tempestivi, predisponendo strategie che favoriscano un approccio multidisciplinare, adeguato alle dimensioni, alle articolazioni e alle drammatiche ripercussioni delle vicende che si devono affrontare. Questi rilievi iniziali preludono subito a un’amara constatazione: si deve, infatti, registrare che, a differenza di altri settori di rilevanza penale, la minaccia di pene – pur severe – è talvolta, nei casi che ci occupano, priva di efficacia special-preventiva…”. Più avanti: “L’osservazione schietta della realtà giudiziaria nel nostro Paese ci consegna un’immagine non del tutto nitida e confortante. E invero, si rilevano in materia diffuse, persistenti difficoltà a conformarsi a questi principi, a dotarsi di standard qualitativi idonei e generalizzati, al punto che, al ricorrere di un caso di femminicidio preceduto da una denuncia, a prescindere da ogni accertamento dei fatti si prospettano – specie ad opera dei media –, nell’azione dei magistrati e delle forze di polizia, omissioni, ritardi, se non trascuratezza e mancanza di specializzazione”.

E ancora: “Analoghe considerazioni possono essere rassegnate in merito alla fase esecutiva della pena, nella quale si è riscontrata una scarsa attenzione all’esigenza di protezione delle vittime, attestata dal rilievo che in un quarto dei tribunali di sorveglianza, ai fini della concessione dei benefici ai condannati per i delitti di violenza di genere e domestica, non vengono mai acquisite notizie e informazioni dalle persone offese, indice chiaro, questo, di una insufficiente specializzazione e di una inopportuna sottovalutazione della specifica pericolosità sociale che caratterizza gli autori di tali reati, esposti a un elevato rischio di recidiva specifica”. Così proseguendo: “Quanto al tema della formazione, l’offerta formativa è apparsa, nel suo complesso, piuttosto carente: le magistrate si sono dimostrate più interessate e più sensibili alla materia e più impegnate nella formazione, come risulta dalla loro maggiore partecipazione ai corsi di aggiornamento professionale. Peraltro, il numero limitato di partecipanti tra i magistrati che esercitano funzioni giudicanti è apparso sintomatico di una insufficiente attenzione e specializzazione relativamente a tutti i gradi del processo…”.

E poi: “A tutto ciò si aggiunga il fatto che, in questo settore, la trattazione corretta della notitia criminis richiede una specializzata e tempestiva valutazione della sua fondatezza, impone interventi – altrettanto urgenti – a protezione della vittima, non potendo di conseguenza sfuggire come la concreta operatività delle strutture inquirenti sia condizionata dal costante incremento delle notizie di reato, che accentua la grave distorsione nel carico di lavoro assegnato a ciascun magistrato. Poiché queste condizioni incidono direttamente sulla qualità della risposta giudiziaria, anche esponendo i titolari di detti procedimenti a maggiori responsabilità, va considerata la inderogabile esigenza di interventi correttivi da parte dei dirigenti degli uffici, cui spetta il compito di conoscere la realtà giudiziaria nel suo costante evolversi e di adeguare tempestivamente i modelli organizzativi, per assicurare, nell’interesse stesso della giustizia, a tutti i magistrati una – almeno tendenziale – perequazione dei carichi di lavoro.

Il turno esterno-arrestati, definito ‘turno violenze’, riservato ai magistrati del gruppo specializzato, è garantito soltanto nel 10% delle procure, ed è anche rilevante sottolineare come, a specifica richiesta, le procure abbiano rimarcato che i magistrati assegnatari della materia specialistica, sebbene gravati da un maggior carico di lavoro, non hanno nei propri gruppi personale commisurato ai maggiori adempimenti e impegni richiesti, tanto che il 92% degli uffici ha risposto che la assegnazione è equivalente a quella degli altri”.

La lunga citazione è stata una necessità, una risposta, un’alternativa alla sciatteria del dogma “pensa a tutto la scuola”. Il linguaggio utilizzato dalla dottoressa Maria Monteleone nulla concede al pathos e il tutto è racchiuso nella formalità giuridica. Tuttavia, a nessuno può sfuggire l’essenza delle cose: la Magistratura, la Legge, non sono assolutamente attrezzate per una battaglia così difficile come è quella contro l’assassinio femminile di massa. Certo non solo per mancanza di fondi, o per scarsità di personale, ma per una contrarietà oggettiva, imperante, alla costruzione del tabù dell’assassinio femminile di massa. Non è compito della dottoressa trarre le conclusioni politiche e sociali necessarie. Ma se è nostro compito, allora dobbiamo confermare, anche a partire dalle crude notazioni di un’esponente importante della Magistratura italiana, che la Legge non è in campo al fine di stigmatizzare, terrorizzare, reprimere e punire come si dovrebbe, al di là della paura delle anime belle per le parole, al fine di rendere l’assassinio delle donne come un “horrendum” nel vivere sociale e civile.

La Convenzione di Istanbul del 29 settembre 2023 per la lotta contro la violenza nei confronti della donna conferma la necessità dell’entrata in azione della Legge al fine di iniziare a costituire sul campo il tabù dell’assassinio femminile di massa. Essa è composto da 81 articoli divisi in 12 capitoli. Tra gli altri: 

– adottare soluzioni idonee a prevenire e perseguire ogni manifestazione di violenza di genere; 

– eliminare ogni forma di discriminazione contro le donne; 

– adottare misure di protezione e assistenza in favore delle donne vittime di violenza; 

– sostenere le organizzazioni – pubbliche e private – e le autorità competenti in ordine all’applicazione delle normative di tutela; 

– promuovere la cooperazione internazionale al fine di eradicare le variegate forme di violenza contro le donne. 

La Convenzione di Istanbul definisce la violenza contro le donne una “violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata”; quanto alla “violenza domestica”, essa è identificata dalla Convenzione in “tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”. La Convenzione contiene altresì una definizione di “genere” e “violenza di genere”: in particolare, l’art. 3, lett. c, precisa che con il termine “genere” ci si riferisce a “ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini”. Per quanto invece attiene all’espressione “violenza contro le donne basata sul genere”, essa designa “qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato” (art. 3 lett. d). 

Occorrerà capire se la profonda lettura dello stato delle cose e l’esplicito richiamo all’entrata in campo della Legge, che segnano la Convenzione di Istanbul, saranno pienamente recepiti dalla politica e dalla cultura italiana e se la stessa area del femminismo liberale italiano si convincerà che l’entrata in campo della Legge, con le sue misure severamente preventive, repressive e punitive, è una necessità imprescindibile nella lotta contro il femminicidio di massa.

Oggi, uno dei tantissimi uomini ancora ammorbati dal senso del dominio e della proprietà sulla donna può per anni e per decenni umiliare, violentare, picchiare “la sua donna” senza alcuna reazione sociale; può, se denunciato, praticare una lunga e impunita fase di minaccioso stalking; può, se “colpito” dalla Legge, continuare a vivere nella stessa città della sua ex compagna; può facilmente manomettere il braccialetto elettronico impostogli dalle forze dell’ordine e recarsi, come è accaduto anche recentemente, in casa dell’ex compagna per ammazzarla. Può, nell’essenza, usufruire della mancanza del tabù contro la violenza sulle donne e dell’ancora tenera azione della Legge al fine di continuare a delinquere.

Per la costituzione del tabù sull’incesto entrarono in campo, per un tempo storico lunghissimo, eserciti di legiferatori, all’inizio tribali e mano a mano sempre più “istituzionali”, capaci di imporre la Legge anche con la forza, non solo con la stigmatizzazione e l’emarginazione sociale dell’incestuoso, ma anche con la sua punizione.

Un potenziale assassino della sua ex compagna, un terribile produttore di minacce e paura, deve per forza di cose rimanere a vivere nella stessa città della sua ex compagna o deve essere costretto con la forza ad andarsene in una città lontana, molto lontana? Il controllo sul potenziale assassino deve essere ridotto al braccialetto elettronico o vi possono essere soluzioni più sicure, di più certo monitoraggio, in relazione al pericolo? La fase che potenzialmente può precedere l’assassinio, la fase dello stalking animale, deve essere punibile solo con il braccialetto elettronico o può già essere presa in considerazione la fase dell’incarcerazione? Le misure antiviolenza possono contemplare, già nella fase dello stalking, un intervento punitivo esemplare in relazione alle risorse economiche del violento, oppure si attenderà la potenziale violenza sperando in dio e nella fortuna?

I vecchi compagni del Pci storico raccontano che se una compagna del partito veniva picchiata o maltrattata dal marito, il gruppo dirigente comunista di quel territorio inviava dei militanti a cercare l’uomo, per convincerlo a non ripetere la violenza. Occorrerebbe, dunque, pensare persino (misura straordinaria in relazione al pericolo straordinario) anche ad un controllo sociale organizzato permesso dalla Legge, e non l’ignavia, nei confronti degli uomini violenti e potenziali assassini.

La costruzione di un tabù non è, come per la rivoluzione, un pranzo di gala. È lotta, è l’utilizzo di tutte le forme della Legge per imporre una nuova Legge: quella del rispetto e della libertà, per la donna e per l’intero genere umano.

Immagine: Ageda Koplak Taldea, ikus https://eu.wikipedia.org/wiki/Beti_Bezperako_Koplak_(Santa_Agata)#Film_laburra, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0&gt;, via Wikimedia Commons

Lascia un commento

Sito web creato con WordPress.com.

Su ↑