Mes e patto di stabilità. Il problema è l’Unione Europea

di Ascanio Bernardeschi, responsabile del dipartimento Economia del Movimento per la Rinascita Comunista

Dopo tanti contorcimenti l’Italia ha approvato la brutta riforma del patto di stabilità, ricacciandosi così nelle politiche di austerità prepandemiche. Una nuova eventuale recessione ci troverà privi di strumenti per affrontarla. Il vero problema è l’Unione Europea.

Il Patto di Stabilità e Crescita, stipulato nel 1997, mirava al controllo delle politiche di bilancio pubbliche degli Stati membri dell’Unione Europea per impedire, secondo le affermazioni ufficiali, la lievitazione dei disavanzi e dei debiti pubblici e per ricondurli ai parametri stabiliti nel trattato di Maastrich: un deficit pubblico non superiore al 3% del Pil e un debito pubblico al di sotto del 60% del Pil. Per i Paesi aventi parametri al di sopra di quei limiti veniva stabilito un percorso di rientro fatto di “avvertimenti preventivi”, di “raccomandazioni” per abbattere il rapporto deficit/Pil (leggasi tagli alla spesa pubblica e privatizzazioni) e sanzioni per chi non osserva tali raccomandazioni nella forma di deposito infruttifero che viene trasformato in ammenda dopo due anni di persistenza del deficit eccessivo. I Paesi che superavano la soglia del 60% del debito pubblico rispetto al Pil dovevano invece impegnarsi in un percorso di riduzione del debito, che prevedeva un taglio della parte eccedente il 60% nella misura del 5% all’anno, di modo che in 20 anni ogni Stato sarebbe rientrato nel parametro.

L’Italia ha attualmente un debito pubblico del 140%. L’applicazione della misura prevista dal patto avrebbe comportato tagli dell’ordine dei 75 miliardi l’anno per vent’anni, cioè un disastro sociale infinito, tanto che lo stesso Romano Prodi, non certo un antieuropeista, definì questa misura “patto di stupidità”. Infatti né il nostro Paese né altri sono riusciti a centrare l’obiettivo di quel taglio.

Nel 2020 e fino alla fine del 2023, a seguito delle difficoltà generate dalla pandemia, il patto venne sospeso. La sua riattivazione a partire da quest’anno peserà come un macigno anche se vengono proposte da parte della Commissione Europea (costituita da un membro indicato da ciascun governo) alcune modifiche volte ad attenuarne certe rigidità.

La bozza di riforma licenziata dalla Commissione mantiene invariati i requisiti dei bilanci pubblici decisi a Maastricht (deficit non superiore al 3% del Pil e debito non superiore al 60%). Tuttavia, viene cambiata la modulazione dei correttivi. Preliminarmente i Paesi vengono collocati in diverse categorie di rischio (basso, medio, alto) in base alla sostenibilità del loro debito. Ai paesi a medio e alto rischio veniva proposto un piano di aggiustamento in cui il controllo della spesa primaria netta (cioè detratti gli interessi sul debito e gli stabilizzatori del ciclo, come per esempio i sussidi di disoccupazione) sarebbe rimasta di competenza dei governi. Il piano avrebbe dovuto assicurare che i Paesi ad alto rischio dopo quattro anni imboccassero una fase calante continua del loro debito. I paesi a medio rischio avrebbero potuto invece imboccare tale traiettoria dopo sette anni. Strano, verrebbe da dire. A quei paesi che stanno un po’ meglio e che quindi possono più agevolmente imboccare la strada della riduzione del debito si sarebbero concessi sette anni, a chi è più inguaiato solo quattro. Come nel caso del Mes, si offrono condizioni peggiori a chi sta già peggio o, in altri termini, si presta l’ombrello solo se non piove.

Viene abbandonato il Mto [1] che, tenendo conto delle caratteristiche economiche e demografiche specifiche di ciascun Paese, tra cui l’invecchiamento della popolazione, perseguiva la sostenibilità fiscale nel medio termine. Al posto dei concetti di deficit strutturale e Pil potenziale si proponeva di immettere un altro parametro unico, e al posto di correzioni annuali immediate si concedeva maggior tempo per la correzione degli squilibri, prestando maggiore attenzione alle diverse esigenze dei singoli Paesi sulla base della sostenibilità del loro debito. L’ammenda pecuniaria veniva ridotta, ma il rovescio della medaglia era che i Paesi inadempienti avrebbero potuto vedersi bloccati i finanziamenti europei.

Forti dubbi sono stati espressi sull’analisi della sostenibilità del debito, basata su previsioni in fatto di tasso di interesse e tasso di crescita caratterizzate da una certa aleatorietà e anche discrezionalità da parte della Commissione. Per questo motivo ci sono state spinte perché al contrario si rafforzino i poteri dei singoli governi.

Il fine anno 2023 è stato caratterizzato pertanto dal tira e molla fra Commissione e Stati membri per definire il nuovo patto. Trattative in cui i paesi nordici “virtuosi” premevano per un maggiore rigore ma dovevano prendere atto che il patto vecchia maniera non funzionava e molti non lo rispettavano, e i mediterranei chiedevano maggiore flessibilità ma giudicavano la riforma in discussione in ogni caso migliore e meno rigida delle regole attuali. Quindi l’accordo ha avuto la strada spianata e l’Italia ha approvato la riforma il 20 dicembre scorso nei termini scaturiti dalla trattativa. 

Il chiasso inscenato sulla riforma del Mes, di cui abbiamo trattato nel numero scorso, è stato probabilmente per gettare un po’ di fumo negli occhi al fine di offuscare l’argomento ben più sostanzioso della riforma del patto di stabilità, che il governo ha dovuto obtorto collo accettare. Confessa implicitamente la resa Claudio Borghi (Lega), che a «il Giornale» ha dichiarato che non si poteva “bocciare sia il patto che il Mes” e pertanto a suo dire, è stata scelta la bocciatura di ciò “che faceva più danno all’Italia”.

Giorgia Meloni aveva annunciato che si sarebbe mossa con la “logica di pacchetto”, cioè affrontando la questione del Mes guardando anche al patto di stabilità per ottenerne modifiche sostanziali. Il risultato di questa tattica è stato disastroso perché si porta a casa un patto pericoloso e probabilmente si porterà, magari dopo le elezioni europee, un Mes inutile o dannoso.

Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti già nei giorni precedenti il 20 aveva sottolineato la necessità di “assumersi la responsabilità delle decisioni” in quanto la proposta di riforma prevede misure flessibili di salvaguardia sulla sostenibilità del debito. Meglio accettare, ha affermato, un accordo, piuttosto che mettere un veto a caso per tornare a regole peggiori. Ha inoltre denunciato che la discussione in atto è viziata dall’illusione che si possa continuare a fare debito senza tornare a un sistema di regole.

Ma il grado di flessibilizzazione di queste regole ottenuto non deve farci felici. Il dramma vero è che il patto di stabilità, pur edulcorato, tornerà in auge. E gli intendimenti pare che questa volta siano quelli di farlo rispettare, anche attraverso il ricatto del taglio dei finanziamenti europei, visto che le regole sono, a detta dei nostri politici, un po’ meno stupide e quindi attuabili.

Ma vediamo i contenuti di questo compromesso fra interessi contrastanti delle singole nazioni. I vincoli di Maastricht vengono confermati e perfino inaspriti. Per esempio il 3% del rapporto deficit/Pil dovrà progressivamente abbassarsi all’1,5%, che fanno 30 miliardi di tagli o inasprimento del prelievo fiscale, anche se il rientro sarà graduale (lo 0,3% all’anno ed escludendo l’effetto del rialzo dei tassi di interesse). Se non ce la facessimo nei prossimi quattro anni saranno lacrime e sangue. 

I paletti saranno uguali per tutti, quattro anni per avviare il rientro del debito, in modo da evitare un eccesso di arbitrio da parte di Bruxelles.

L’altro compromesso riguarda la flessibilità che prevede trattative per calibrare il processo di aggiustamento e che naturalmente risentiranno dell’esito delle prossime elezioni europee e della conseguente formazione della nuova Commissione. I governi avranno voce in capitolo, ma l’ultima parola resterà comunque alla Commissione.

Il rientro dall’eccesso di debito sarà nella misura dell’1% annuo per chi supera il 90% del Pil e dello 0,5% per chi si pone fra il 60% e il 90%.

L’Italia aveva chiesto altri zuccherini, fra cui quello abominevole di escludere dal computo del deficit le spese militari. Evidentemente gli interessi economici dell’industria bellica e quelli geostrategici del patron Usa per i nostri governanti contano di più di sanità, pensioni, scuola, beni pubblici. In ogni caso il nostro Paese alla fine ha ingoiato la pillola anche se non sufficientemente edulcorata.

Abbiamo visto che sulla base di questo compromesso i Paesi in procedura d’infrazione riporteranno il deficit sotto il 3% fra quattro anni. Tuttavia, nel caso che il ciclo economico nel frattempo peggiori, come è più che possibile, se non vogliamo che il nuovo patto favorisca la recessione, come succedeva con il vecchio, sarebbe indispensabile allungare questi tempi di rientro. Pertanto ci vuole un po’ di faccia tosta a dichiarare che questo patto non è stupido. Per quanto riguarda il deficit l’Italia è riuscita negli anni precedenti la pandemia a realizzare deficit contenuti e spesso addirittura avanzi primari, cioè escludendo dal conto gli interessi. Ma lo ha fatto a scapito della riduzione del tasso di crescita, mantenendo l’economia, fra gli alti e bassi, in sostanziale stagnazione.

Per quanto riguarda invece il rientro del debito è facilmente calcolabile che l’Italia, pur diluendo gli interventi, dovrà comunque effettuare tagli dell’ordine dei 15-20 miliardi l’anno per oltre mezzo secolo al fine di arrivare alla meta intermedia del 90% del Pil e non già al limite canonico del 60%.

Si comprende quindi il tentativo del governo di parlare di altro, di Mes, per rendere meno visibile il suo cedimento sulla questione più dirimente del patto di stabilità, cedimento che mette allo scoperto il tradimento delle promesse elettorali di salvaguardia degli interessi nazionali. Sono rimasti in piedi o inaspriti parametri sbagliati, diluendo solamente i tempi del loro raggiungimento, oltretutto con astrusi criteri per definire processo di aggiustamento, e ipotizzando una crescita tutta da verificare. Tanto meno è stato fatto il minimo passo in avanti per pervenire a politiche fiscali comuni fra gli Stati membri. Ricordando che dopo la crisi del 2007-8 l’eurozona si trovò sull’orlo del fallimento in ragione di regole non molto dissimili a quelle appena concordate, dobbiamo avere dubbi sulla sua capacità reazione alla prossima crisi, visto che si assisterà, dopo la parentesi post pandemica, a un ritorno dell’austerità.

Il Pd si è scagliato contro il governo colpevole – e questo è vero – di non avere difeso gli interessi nazionali. Ma questa critica suona strumentale in bocca a chi in queste faccende è più realista del re e solo pochi giorni prima aveva criticato il governo perché non aveva sottoscritto la riforma del Mes. Magari se il governo non avesse approvato la riforma del patto di stabilità i Dem si sarebbero scagliati come è avvenuto per il Mes. La coerenza è merce rara nella politichetta italiana.

Il problema di fondo però non è né il Mes né il patto di stabilità, ma la natura dell’Unione europea e delle sue regole. Cucite addosso alla teoria economica ordoliberista, prevedono politiche economiche pro cicliche e subordinano alla stabilità monetaria tutti gli altri valori scritti nella nostra carta costituzionale. Inoltre con l’introduzione dell’autonomia della Banca centrale, è questa istituzione e non la politica che condiziona, attraverso la manovra dei tassi di interesse, la sostenibilità del debito pubblico. Dal canto suo la moneta unica, e quindi l’impossibilità di perseguire la competitività internazionale svalutando la valuta, comporta che l’abbattimento del costo del lavoro rimanga l’unica strada da seguire. La natura ferocemente di classe di questa costruzione è evidente, così come è evidente la subordinazione di tutte le forze politiche che si alternano al governo agli interessi delle classi dominanti. Ma la sinistra dov’è?

Note

Note:
[1] Il Mto (Medium-Term Objective, obiettivo a medio termine) è stato introdotto nel patto di stabilità con la sua prima riforma nel 2005. Ciascuno stato membro deve adottarlo e rispettarlo indicando obiettivi di medio termine (quattro anni) per affrontare squilibri macroeconomici. A tal fine deve in genere adottare tagli allo stato sociale e “riforme”, che nel gergo Ue significa controriforme, volte a privatizzare i servizi e le aziende pubbliche, eliminare le “rigidità” (leggasi tutele) del mercato del lavoro ecc.

Immagine: Visita di Ursula von der Leyen, Presidente swlla Commissione Europea a Malta, foto di Dati Bendo / European Union, 2023 / EC – Audiovisual Service Licensing https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Ursula_von_der_Leyen,_Emmanuel_Macron,_Giorgia_Meloni_-_2023.jpg 

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