Da i “troubador” ai cantautori, da Nilla Pizzi a Fabrizio De André: sviluppi d’arte in parole e musica

di Sergio Leoni

La definizione di “cantautore”, restando per ora nell’ambito della sola scena musicale italiana, risale, per grandi linee, agli ultimi anni Sessanta e viene utilizzata in maniera particolare per tutti gli anni Settanta. Il termine, che in sé non sembra carico di alcuna suggestione, dovrebbe indicare semplicemente che l’“interprete”, cioè il cantante, è “anche” autore della musica o del testo che sta cantando, o addirittura di tutti e due.

Tutto scontato? Non proprio, perché, in effetti siamo di fronte ad un fenomeno relativamente nuovo.

Andando indietro nel tempo quanto occorre, e comunque risalendo, con molta prudenza, ai secoli che definiamo Medioevo, soltanto con i cosiddetti “troubador” siamo vicini al concetto di un musicista che scrive testi, musica, e nel caso, è capace di organizzare in toto lo “spettacolo” con cui intrattiene la “piazza” o più probabilmente il potente di turno, diventando una specie di impresario, oltre che regista, di se stesso.

Ma, significativamente, questo capitolo di storia della musica che meriterebbe ben altra considerazione non trova che uno spazio estremamente marginale in quei testi di stampo enciclopedico che vorrebbero rappresentare (e in verità per gran parte lo fanno) un panorama generale dello sviluppo, nel corso dei secoli, della musica. In realtà è la musica che potremmo definire per comodità “popolare” che trova uno spazio troppo limitato e paga intanto lo scotto di non poter annoverare, per lo più, nomi di rilievo o figure capaci di catalizzare l’attenzione e ritagliarsi un posto nella storia, e poi, per sovrapprezzo, viene per lo più inserita, e di fatto liquidata, nell’ambito del cosiddetto folclore. Alla stessa maniera, d’altronde, in cui la maggior parte delle espressioni di una cultura “popolare”, a volte ma non sempre “alternativa” al potere dominante, vengono sistematicamente non tanto ignorate ma relegate in un ambito in cui viene loro dato solo uno spazio di mera “rappresentanza”.

Ora, la cosiddetta musica popolare in sé non ha, a priori, niente di alternativo. Per lo più, invece, e molto spesso, essa tenta di imitare i modelli, i canoni di quella che viene considerata, per un non malcelato senso di inferiorità, che ha comunque qualche buona ragione, una cultura qualitativamente superiore, di cui quella che culmina nella definizione di “classica” è piena espressione.

Ma la musica popolare e, in senso lato, la cultura popolare, non ha, e qui davvero alla lettera, gli “strumenti” per poter competere in qualche modo con una cultura sempre più raffinata, sia su un piano tecnico che teorico. A fronte di formazioni musicali che, nel tempo, aumentano l’organico dei musicisti impiegati, passando da quartetti di stampo barocco, da formazioni comunque cosiddette da camera, fino ad arrivare alle grandi orchestre classiche con un numero di orchestrali che possono tutt’oggi contare fino a cinquanta elementi, tutto quello che la musica popolare ha potuto proporre sono stati, fino a tempi recenti, gruppi di pochi dilettanti, strumenti rozzi, partiture che riprendevano stilemi di generi musicali effimeri continuamente e ossessivamente ripetitivi, votati soprattutto, quando non esclusivamente, a far ballare contadini e operai nelle poche ore di svago loro concesse; usando peraltro dei pochi strumenti che quel ceto poteva permettersi: qualche tiorba o liuto, per i più fortunati e in tempi non recenti e, a partire dal diciannovesimo secolo, fisarmoniche soprattutto, nella loro versione più semplice, quelle diatoniche che possono essere suonate senza una specifica conoscenza musicale, e cioè senza una spartito e senza conoscere una nota sul pentagramma.

Per la gran parte del secolo scorso, in ogni caso e per tornare a tempi di cui ognuno di noi ha una memoria personale o mediata, il cantante è sostanzialmente solo un interprete.

E lo è sostanzialmente perché, anche quando canta brani di musica cosiddetta “leggera”, il cantante o la cantante tende ad imitare i tenori, i baritoni, le soprano e mezze soprano di quella musica lirica che nel novecento ha ormai alle spalle la sua età dell’oro ma può ancora dire la sua, ad esempio, con le grandi arie dell’ultimo Giacomo Puccini. I cantanti lirici da sempre studiano al conservatorio, anche e soprattutto nel caso essi siano dotati di una voce “naturalmente” eccezionale. Lo fanno perché la loro voce è a tutti gli effetti considerata, come è, uno strumento che deve essere “accordato”, ma il termine per lo più usato, è “educato”.

I cantanti che non possono, per ragioni indipendenti da loro stessi (un’ugola d’oro non è un merito ma una fortuna e il talento è per il novanta per cento una dote “naturale”) aspirare ad una carriera nel mondo di una musica lirica del resto ormai ferma ad un repertorio invecchiato e che ha soltanto nelle regie sempre più fantasiose o stravaganti un guizzo di novità, hanno ripiegato e ripiegano oggi, per così dire (e mai termini fu tanto inadeguato), sulla musica da intrattenimento, quella, per capirci, dei grandi veglioni, delle grandi feste di cui si occupa anche la cronaca giornalistica e spesso scandalistica, e infine dei festival (su tutti quello di Sanremo), tipici degli anni Cinquanta.

Chi è abbastanza attempato da aver avuto modo di vedere, nel bianco e nero dei pochi televisori dell’epoca, l’atteggiamento, il “proporsi” di quei cantanti, rigorosamente in smoking per gli uomini e in improbabili toilette per le signore, specchio di un atteggiamento per cui l’esecuzione di un brano è comunque un rito i cui passaggi vanno rispettati, può cogliere in pieno il desiderio di dare dignità a quella che, comunque, continuava ad essere considerata musica “leggera”.

Si possono avere le più diverse opinioni su quella scena musicale, sul valore di quelle esibizioni canore. Ma è certo che, su un piano strettamente musicale, niente si può dire in negativo sulla preparazione tecnica di quei cantanti. Un esempio, uno solo: si poteva e si può tuttora eccepire sul carattere e sui modi di un cantante che in quegli anni era uno dei protagonisti del mondo musicale italiano. Claudio Villa poteva essere osannato da un pubblico di una certa età e detestato da quei giovani che lo vedevano come l’emblema di un vecchio mondo. Ma nessuno poteva e può mettere in dubbio la sua grande voce che, comunque, non lo collocava, non lo poteva collocare al livello dei grandi tenori lirici.

Con i cantautori, qualcosa inizialmente di non ben definito cambia nella scena musicale italiana. E cambia in realtà non in modo traumatico, nel senso che non c’è una data, un momento significativo che determini una cesura tra un periodo e l’altro, ma si fa sempre più evidente la presenza di una categoria nuova che, come vedremo, non viene accolta inizialmente come un’innovazione ma come una rottura in un ordine consolidato in cui ogni figura, ogni personaggio aveva il suo ruolo, il suo compito da svolgere, la sua rassicurante destinazione.

Ma c’è una coincidenza che, come vedremo presto, non è affatto casuale ma invece strettamente legata al crescere di quello che diventa un caso, un caso tutto legato all’Italia. L’insistenza con cui colloco il tema di questo articolo in ambito quasi esclusivamente locale (Europa, Erasmus, Internet erano di là da venire) deriva, da un lato dalla constatazione che è impossibile stabilire, per quanto si sia tentato di farlo, un qualche parallelo o convergenza con l’altra grande stagione musicale a livello europeo, quella degli chansonnier francesi, da cui ci divideva un sostrato culturale più ampio non colmabile da atteggiamenti e stili similari. Ma qualcosa, in ogni caso, deve essere passato se i principali autori/cantautori di quegli anni hanno espresso, in più occasioni, una sorta di debito culturale nei confronti di quelli che ancora non si azzardavano a considerare “colleghi” francesi.

E, quando la considerazione, la coscienza di un legame che è qualcosa di più di un legame viene da artisti come Fabrizio De André, si può essere certi che, in un ben determinato periodo storico, questi legami, magari in maniera sotterranea non solo sono esistiti ma sono stati il fondamento di una cultura che, in quegli anni, aveva la pretesa di coinvolgere tutto il “mondo”.

 Ma, dall’altro lato, dalla presa d’atto che i cantautori italiani, praticamente da subito e quasi all’unisono, hanno avuto come caratteristica principale quella di proporre soprattutto testi (quanto alla musica, vedremo più avanti) cosiddetti, o sedicenti “di protesta”, come si diceva con qualche ingenuità, appare evidente da un lato il ritardo di una scena musicale che a fatica si sta emancipando da certe strutture e non ha trovato, non ancora, una sua strada.

In quegli stessi anni arriva, sostanzialmente dall’Inghilterra, o almeno tramite essa, l’ondata del rock’n roll che investe il panorama musicale come un vero e proprio tsunami rispetto a cui i detentori (il termine non sembri eccessivo) del potere di fare e disfare quanto a musica in Italia, non sanno fare niente di meglio che tentare da un lato di ridicolizzare la novità (definendo questi cantanti e gruppi come “yè yè”, o come “urlatori”), salvo poi tentare di normalizzarli, inserendoli con il contagocce in trasmissione della Rai che, riviste oggi, non si sa bene se definire ridicole o patetiche.

Ma il clima generale, bene o male, è comunque cambiato.

Davvero si è strappato un tessuto che teneva insieme un mondo musicale in cui padroni, padrini, comparse e clown erano in qualche modo stabiliti e stabilizzati. La reazione dell’establishment, come sempre quando qualcosa o qualcuno turba l’ordine costituito, è insieme sconclusionata e soprattutto inutile.

Solo il tempo, e l’inesorabile lavorio ai fianchi da parte della cultura dominante contro quelli che osano opporsi al suo inutile mainstream, potrà avere ragione di questo ulteriore tentativo di uscire dalla soffocante “normalità”

Per complicare ancora un po’, ma non se ne può fare a meno, il quadro generale della categoria “cantautori”, occorre rilevare da subito come ci siano stati almeno due grandi filoni, due vere e proprie partizioni che hanno diviso fin dalla nascita un fenomeno nuovo. Due tendenze, due stili, perfino due approcci alla realtà che sarebbe stato auspicabile avessero marciato insieme. Ma gli auspici contano in generale meno che zero.

E così: da un lato ci sono i cantautori che scelgono un approccio alla musica e ai testi toccando tutti quei temi che la precedente produzione non si era neanche sognata di poter toccare. Certo, il sempiterno tema dell’amore è presente anche qui, inevitabilmente (quantomeno nel senso che è così da secoli), ma visto questa volta da un’angolazione, o da più angolazioni differenti. Se prima il cantante parlava di rose, fiori e, con poche lodevoli eccezioni, di vita vissuta, l’atmosfera era normalmente votata a un languore generale, a romantici struggimenti, sottolineati da un uso insistito degli strumenti ad arco, privilegiando cioè la melodia a scapito del ritmo, ora l’impostazione del brano si struttura in una maniera che la fa apparire più moderna, dal momento che fa uso, in maniera ancora timida, di tutte quelle innovazioni che nel frattempo sono emerse a livello mondiale con il jazz, un rock sempre più vincente e perfino con una musica ancora da conservatorio che si è aperta alle grandi novità del ventesimo secolo.

Grazie dei fior, portata al successo nel primo festival di Sanremo nel 1951 da una Nilla Pizzi perfetto esempio di cantante anni Cinquanta, è la tipica canzone buon esempio dei brani musicali di un’epoca che sembra remota e già sembra una anticipazione di quei “tormentoni” che da allora affliggono il pubblico stagione dopo stagione. Pian piano, lentamente, a volte in maniera esasperante, si comincia a percepire l’inadeguatezza di una musica di questo genere, certamente quanto a “contenuti”, rispetto ad una società ed a una cultura che stenta ad emanciparsi da vecchi schemi ma che ha comunque preso coscienza che questi stessi schemi sono ormai improponibili e inadeguati.

E quindi è chiaro come anche una semplice canzone di un quasi sconosciuto cantante genovese, improbabile sotto ogni aspetto per presenza e portamento secondo i canoni correnti, può apparire come una mezza rivoluzione: il Gino Paoli di Il cielo in una stanza in cui “suona un’armonica, mi sembra un organo che vibra per te e per me / su nell’immensità del ciel” in una “stanza” che “non ha più pareti / ma alberi / alberi infiniti…”.

E siamo appena agli inizi con una figura che, anche per questioni anagrafiche, è un po’ un ponte tra generazioni. Ma presto si affacceranno sulla scena altri personaggi che davvero rappresentano ulteriori novità. Vale la pena di citare almeno il Guccini con tutta la sua epopea di eroi senza nome (La locomotiva), di luoghi di aggregazione alternativi (Le osterie di fuori porta), e almeno il De Gregori di Rimmel, e per un breve periodo il suo sodale Venditti di Lilly. E, naturalmente, e verrebbe da dire soprattutto, il De André di Tutti morimmo a stento, di Storia di un impiegato.

Citare anche solo una minima parte di quei cantautori che hanno animato e riempito poi la scena musicale degli anni Settanta è un’impresa impossibile da portare a termine nell’ambito di un semplice articolo. È, o sarebbe soprattutto una mancanza di rispetto per quelli che inevitabilmente sarebbero esclusi da una lista troppo lunga, fosse anche per mera dimenticanza. E forse non è davvero possibile citare ed evidenziare, testo dopo testo, nota dopo nota, tutti i punti di rottura che questi cantanti e musicisti hanno creato, in alcuni testi, in alcuni passaggi musicali, rispetto alla tradizione, riscuotendo peraltro un successo che i discografici non hanno in nessun modo potuto ignorare.

A cosa abbia condotto questa sostituzione di una generazione musicale con un’altra in tempi non usuali, quali siano stati i risultati di questi cambiamenti sia a livello musicale che a livello culturale più generale, è questione secondo me del tutto aperta.

L’altro grande filone dei cantautori è stato, per una stagione significativamente più breve, quello dei cosiddetti e spesso sedicenti cantautori “politici”.

Qui si può affermare senza indugio che il testo è il vero protagonista, se non l’unico nel contesto del brano.

Per certi versi si potrebbe arrivare ad affermare, e non si sarebbe lontani dalla verità dei fatti, che il cantautore abbia prima scritto il testo e poi ci ha “appiccicato” sopra una qualche serie di accordi. “Accordi”, che è poi il modo più semplice di suonare la chitarra che è qui, sostanzialmente, lo strumento dominante; cioè semplicemente battere un ritmo con un giro di accordi, quasi sempre gli stessi, i più scontati, quelli che non hanno bisogno di particolari sforzi, e cantarci sopra.

“Povertà tecnica” che peraltro non può essere addebitata a tutti i cantautori “politici” in maniera indistinta. Ma il fatto è che, esagerando e travisando quello che rimane il senso profondo dello studiare e rispettare la musica anche come disciplina universale, in certi casi veniva praticamente teorizzata l’inutilità di qualunque tecnica e dunque di qualunque studio che ne fosse la conseguenza.

Il “messaggio”, sulla cui consistenza andrebbe aperto tutto un altro capitolo, avrebbe dovuto essere così consistente da tenere la musica al livello di uno sfondo, una specie di piccola colonna sonora.

Il fallimento sostanziale di certi eventi che avrebbero dovuto rappresentare un’alternativa al “sistema” dei grandi concerti organizzati dai grandi e potenti discografici, non ha fatto altro che decretare la sostanziale inutilità e inconsistenza di progetti privi di solide basi programmatiche.

Con un paradosso, ma forse non più di tanto, qualche anno più tardi lo stesso approccio, la stessa indifferenza verso lo studio tradizionale caratterizzerà il fenomeno dei punk. Solo che in questo caso si tratterà di una scelta ben precisa, e l’indifferenza virerà in avversione intesa come scelta radicalmente alternativa. Lì c’è una scelta, magari discutibile. Qui, un limite che non è stato possibile superare.

Naturalmente non tutta la musica, e in particolare quella dei cantautori che qui ci interessa e che si autodefinisce “politica” sceglie comunque una povertà di mezzi e, conseguentemente, una povertà di stile che avrebbe finito per relegarla in un angolo da cui sarebbe uscita solo con grandi difficoltà. Guccini, De Gregori, Fossati sono stati capaci di “servirsi”, in senso buono, di ottimi musicisti che li hanno accompagnati in tournée. Col tempo, questi cantautori sono diventati i protagonisti principali della scena musicale italiana.

La solita vecchia storia secondo cui chi è incendiario in gioventù, fa poi il pompiere?

O, detto in un altro modo: tutto si normalizza, ogni espressione contraria al mainstream è destinata a cadere, o, peggio, a confondersi in qualcosa che non è nemmeno un progetto della “controparte” (che progetti non ne ha) ma diventa una deriva inesorabile che, non avendo un senso in sé e per sé, non solo non porta a nulla ma che è in effetti lo stesso nulla?

Alcune storie, ormai non provvisoriamente, ci dicono il contrario.

Ci sono ancora, e si spera esistano sempre, contro ogni vento contrario, quelli che invece hanno scelto di cantare temi politici e farsi portavoce di istanze progressiste, i pochi che sono riusciti a crearsi uno spazio sufficientemente largo da riuscire a proporsi almeno oltre l’ambito cittadino o regionale, musicisti capaci di stringersi intorno ad un progetto comune, quindi andando, sostanzialmente, al di là della dimensione del cantautore solo sul palco (fosse pure un palco improvvisato in una fabbrica occupata) che racconta una storia che, per essere il più delle volte solo la sua, non coinvolge nessuno.

Gli Stormy Six di Stalingrado, negli anni Settanta e oltre, e la sempre presente marchigiana Gang di Kowalsky, mi pare possano rappresentare due buoni esempi per comprendere il significato insito nell’ uscire da una dimensione solipsistica, con tutto quello che essa comporta, e stringere, al contrario, quei legami, magari complessi e faticosi che tengono uniti, e creano nuovi legami (chi suona lo sa benissimo)tra musicisti che si uniscono non solo per suonare insieme ma anche per condividere un’esperienza e sono un ottimo esempio di collaborazione e capacità di costruire qualcosa di non passeggero e più profondo.

Immagine: Photographer of TV sorrisi e canzoni, Public domain, via Wikimedia Commons

Lascia un commento

Sito web creato con WordPress.com.

Su ↑