La Storia. Uno scandalo che dura da diecimila anni

di Laura Baldelli

Questo è il vero titolo completo del romanzo di Elsa Morante, oggi, grazie alla serie televisiva di Francesca Archibugi, se parla su tutti i social, ma l’attenzione è tutta per gli attori, marginale invece quella per l’opera letteraria e la sua autrice.

Quando uscì il romanzo, nel 1974 ben cinquant’anni fa, l’opera fu al centro di grandi polemiche, quasi tutte sollevate dall’intelligencija di sinistra. Elsa Morante era già una scrittrice affermata che con il suo primo romanzo Menzogna e sortilegio nel 1948 aveva vinto il premio Viareggio e nel 1957 il premio Strega, prima donna in Italia, con L’isola di Arturo

La stesura de La Storia durò tre anni di duro lavoro e la scrittrice volle, per la pubblicazione con Einaudi nella serie Gli Struzzi, subito l’edizione tascabile-economica al costo di 2000£ con in copertina la mitica foto di Robert Capa scattata durante la guerra civile spagnola; per la prima volta Einaudi fece anche un lancio pubblicitario sul Corriere della sera con una pagina intera. 

Per un anno ci fu un feroce dibattito letterario, ma anche politico-culturale, nonché mondano, intorno al romanzo, in cui i suoi più cari amici, quell’élite culturale così ascoltata in quegli anni, non le risparmiò nulla. Sulle pagine de «il manifesto» fu pubblicata una lettera dal Gruppo ’63, firmata da Nanni Balestrini, Umberto Silva, Letizia Paolozzi, Elisabetta Rasy in cui si stroncava il romanzo, definendo la Morante una reazionaria ed “una nipotina di De Amicis”; Alberto Asor Rosa lo disprezzò paragonandolo ad un kolossal cinematografico, Romano Luperini individuò un impianto ideologico piccolo-borghese, così Enzo Siciliano e Rossana Rossanda addirittura scrisse: “vendere patate è meglio che vendere disperazione”: la Morante non era marxista non c’era in lei “il sol dell’avvenir”. Italo Calvino criticò il registro linguistico del pathos narrativo, lo svilì definendolo “tecnica letteraria della commozione”.

La critica che probabilmente l’addolorò di più, fu quella di Pier Paolo Pasolini, suo grande amico, che criticò l’opera perché conteneva tre romanzi in uno ed i personaggi non erano strutturati, perché fagocitati da una macchina narrativa senza un’idea portante. Finì un’amicizia e poco dopo Pasolini fu assassinato. L’autrice amareggiata non rispose e si chiuse nel silenzio e nella solitudine, i fatti però parlarono per lei nella resa dei conti ideologica tra intellettuali e pregiudizio di genere: il pubblico rispose con un milione di copie vendute in un solo anno, che qualcuno lo definì “l’anno della Storia 1974-75”; oggi l’opera è il successo editoriale più importante in Italia, assieme a Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa del 1958 e Il nome della rosa di Eco del 1980. Inoltre è inserita nelle antologie della storia della letteratura italiana del nuovo millennio e mantiene costantemente una tiratura annuale di 7000/8000 copie: il romanzo più durevole dal dopoguerra ad oggi. 

Non mancarono autorevoli e disinteressate critiche favorevoli come quella di Natalia Ginzburg che lo definì sulle pagine del «Corriere della Sera» “il romanzo più bello di questo secolo” e Anna Maria Ortese che in una lettera privata le scrisse che aveva letto il romanzo tutto d’un fiato, perdendosi dentro il racconto, senza più ricordare nulla nello specifico delle vicende, né di se stessa, ma le era rimasto il senso dell’epoca e il grande dolore umano; lo definì: “letteratura dove era passata la vita”. 

Non le lasciò l’indirizzo proprio per evitare ringraziamenti perché era un disinteressato giudizio. Anche i lettori inviarono ai giornali lettere, in cui emerse quanto desiderio di piangere quel periodo tragico della guerra e quanta pietà per il dolore ci fosse ancora nel nostro Paese, perché la Storia ci costringe tutti a riconoscerci una sorte condivisa: una cognizione del dolore che prescinde dalle ideologie e dal cinismo intellettuale.

I lettori amarono il romanzo perché raccontava la loro Storia, quella dei genitori dei nonni e fu così anche per me che ci ritrovai le tante Storie dei racconti di mia nonna della guerra e colsi la grande accusa dell’autrice nei confronti della politica, vera responsabile delle violenze che senza pietà schiacciano i più deboli: eroi che subiscono, le vittime dello scandalo.

Infatti il romanzo si fonda sulla Storia, quella degli avvenimenti storici collettivi che raccontano i soprusi del potere e la storia individuale di chi subisce quei soprusi e quelle violenze e ciascuno dei nove capitoli è introdotto dalla cronologia degli avvenimenti storici più importanti. Non a caso il romanzo finisce con queste parole: “e la Storia continua”; forse risponde alla domanda di Primo Levi: “Perché la memoria del male non riesce a cambiare l’umanità?”.

L’opera in quegli anni fu un atto anticonformista perché segnò un ritorno alla narrativa tradizionale, dopo gli sperimentalismi e le innovazioni degli anni precedenti; forse anche per questo scatenò le critiche degli esponenti di tutte le avanguardie. Soprattutto aveva abolito la distinzione tra letteratura alta e di consumo.

Il tema di fondo del romanzo è la contrapposizione tra la Storia, “lo scandalo che dura da diecimila anni” e la vita, presente già nella struttura dell’opera, dove ogni capitolo è preceduto dagli avvenimenti storico-politici dell’anno, così da tenere separati i due registri linguistici e la narrazione è esclusiva delle vittime della Storia, eludendo le regole del romanzo storico tradizionale che narra anche dei potenti, gli artefici della Storia; ma il quadro è complesso perché tra le vittime ci sono anche i nemici, come il soldato tedesco Gunter. L’opera, che è un romanzo corale, anche se la vicenda ruota attorno alla protagonista Ida, è attraversata da una concezione tragica dell’esistenza e dà un senso del sacro inteso come potere universale inesorabile, che ricorda il ciclo di Aspasia di Leopardi nella fase della caduta delle illusioni. Inoltre l’autrice si pone come narratrice onnisciente, ma anche qui rompe con la tradizione classica come quella dei Promessi Sposi, perché assume il mitico modello della “grande madre”, pervasa da commossa pietà, facendosi guidare da una memoria collettiva. 

Infatti l’intento di questo romanzo popolare è quello di poter influire sui lettori, spingerli verso la pietà per le vittime innocenti dell’oppressione e dell’irrazionalità del potere e a tal proposito Natalia Ginzburg dichiarò che il romanzo era capace di cambiare l’esistenza stessa degli uomini di dare felicità, commozione e senso di fratellanza.

L’idea di scriverlo era nata nel ’71, dopo gli studi sull’Iliade e le letture di Simone Weil e la Morante la pensò come un’Iliade dei giorni nostri, dove gli esseri umani non hanno un vero potere sulle proprie esistenze, ma sono condizionate da forze che li sovrastano dentro destini tragici nel secolo delle grandi guerre.

Non a caso il sentimento dell’autrice in quel periodo era proprio quello della disillusione dopo le speranze suscitate con il Sessantotto, che la portarono ad abbandonare la concezione della letteratura come fiaba e a rivolgere l’attenzione al mondo degli emarginati e degli esclusi. E questo romanzo si colloca perfettamente nel suo percorso artistico che drammaticamente si muove tra i poli opposti dell’innocenza e della corruzione, utopia e realtà, illusione e disincanto.

La Morante fu una donna dal carattere forte e difficile, una scrittrice cosciente dei propri mezzi, priva di soggezione delle parole d’ordine in campo letterario e politico dell’epoca, ma anche con un altro grande merito: ha riportato la Storia al centro dell’attenzione dopo Giovanni Gentile, che la rese disciplina non autonoma, sempre ancella della filosofia e della letteratura. Infatti, siccome “la Storia continua…”, gli italiani non hanno alcun orientamento nel tempo e neanche nello spazio, vista anche la sorte toccata alla Geografia.

In tempi senza letteratura di formazione questo ci ritroviamo: si legge solo sui social, a caccia di notizie in una bulimia di informazioni da proliferanti fonti, scatenate da guerre permanenti, dove muoiono civili per il profitto dei potenti, senza nessuna epica, dove morti e battaglie vengono consumati tra propaganda e spettacolo; ma per noi comunisti, mai domi, il sol dell’avvenir è nel nostro Dna.

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