di Marco Pondrelli *
Gli scenari di guerra sui vari fronti del pianeta ci mostrano un imperialismo a guida Usa che utilizza la forza militare per tentare di contrastare il declino di quella economica. L’unica via per contrastare questa situazione esplosiva è battersi per un mondo multipolare, nel quale i rischi di guerra sarebbero fortemente limitati, il diritto internazionale sarebbe ripristinato e allargato, e si riaprirebbero spazi di lotta per la classe lavoratrice e la speranza in un futuro socialista.
Tornando con la memoria al periodo in cui iniziai ad interessarmi di politica, mi si presenta alla mente un dibattito molto diverso da quello attuale. La parola “guerra” era ancora percepita come ripugnante; per quanto l’Unione Sovietica fosse in una fase declinante, esisteva ancora una parvenza di diritto internazionale e la Costituzione Repubblicana era rispettata. Oggi ci troviamo in una situazione lontana anni luce, il termine “guerra” è centrale e presente nel dibattito politico come lo è stato solo negli anni ’30 del secolo scorso. Dalla fine della guerra fredda il mondo è precipitato in una spirale di guerre e conflitti; lungi dal rappresentare la “fine della storia” l’89 ha rappresentato la fine del diritto internazionale.
Per affrontare questo argomento dobbiamo rispolverare gli insegnamenti di Marx e Lenin, che non sono ferri vecchi da mettere in soffitta ma possono aiutarci a riportare su un unico piano d’analisi tutto quello che sta succedendo. La sinistra dall’89 ad oggi si è persa nelle più strane e sconclusionate analisi. Una parte si è convertita all’atlantismo, mascherato come esportazione della democrazia, e nella migliore tradizione colonialista ottocentesca ha giustificato i peggiori crimini con l’esportazione della superiore civiltà liberaldemocratica (qualsiasi cosa voglia dire). Un’altra parte si è lasciata attrarre dalle teorie negriane: finiti gli Stati nazione la guerra era divenuta la guerra civile interna all’Impero, come qualcuno disse ai tempi della guerra in Iraq, all’Impero si contrapponeva la moltitudine.
Per capire quanto fallaci si siano rivelate questa analisi basta guardare la realtà e ascoltare i nostri avversari. Quando Maurizio Molinari scrisse Assedio all’Occidente individuò il problema anche se confuse soggetto e oggetto: l’Occidente non è assediato ma assedia, basta guardare su una mappa le basi statunitensi sparse in giro per il mondo.
Il mio tentativo è quello di passare in rassegna i principali conflitti mondiali per tentare di cogliere le cause profonde di queste guerre, dimostrando come esse non siano eventi staccati l’uno dall’altra ma rispondano a logiche politico-economiche ben precise. La guerra che si sta combattendo è unica e ad essa non si può rispondere con un generico pacifismo, né mettendo sullo stesso piano l’aggressività degli Stati Uniti con il ruolo di Russia e Cina, appellandosi a fantomatiche teorie degli opposti imperialismi o alla contrapposizione fra debitori e creditori.
Taiwan e il mare cinese meridionale
Lo scenario centrale da cui partire è quello di Taiwan. La stragrande maggioranza degli stati, Usa compresi, accetta che esista una sola Cina rappresentata dalla Repubblica Popolare Cinese. La posizione di una sola Cina è paradossalmente accettata anche da Taiwan, per quanto Taipei si ritenga l’unica rappresentante della Cina. La posizione cinese rispetto alla “provincia ribelle” è chiara: la Cina deve ritrovare la sua unità, quindi Taiwan deve tornare a farne parte; questo avverrà quando i leader condivideranno questa scelta. Per arrivare ad un’unificazione consensuale, la Cina ha costruito solide relazioni economiche con Taiwan (di cui è il primo partner commerciale) e anche culturali, essendo l’isola un’importante metà turistica per i cinesi.
Pechino non vuole che questa unificazione avvenga con la forza, solo una dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte di Taipei potrebbe provocare una reazione cinese. Rispetto a questo, nonostante la distensione prodottasi al vertice di San Francisco, gli Stati Uniti continuano a soffiare sul fuoco sostenendo la parte più estremista del quadro politico. In virtù dei paradossi con i quali spesso si muove la storia oggi è il Kuomintang (ovverosia gli eredi delle armate sconfitte di Chiang Kai-shek) a frenare rispetto alle richieste d’indipendenza che arrivano dal Partito Progressista Democratico. Una dichiarazione unilaterale d’indipendenza provocherebbe la reazione di Pechino e quindi lo scoppio di un conflitto al quale parteciperebbero gli Stati Uniti d’America; è il motivo per cui questo rimane il quadrante nel quale si annidano i maggiori pericoli per la pace.
Alzando lo sguardo oltre Taiwan, si notano altre situazioni di potenziale conflitto nel Mar Cinese Meridionale. Ho tentato di affrontarli tutti nel mio libro Continente Euroasiatico; per ragioni di spazio qui non mi dilungherò su ogni singolo Stato, limitandomi ad una considerazione generale. La Cina sta crescendo e il commercio marittimo è essenziale per garantire questa crescita (lo stesso sviluppo della marina militare ne è segno), gli Stati Uniti tentano di bloccare o ostacolare questa crescita entrando, non si sa a che titolo, nelle dispute sorte fra la Cina e gli altri Stati.
In questa parte di mondo assistiamo a quella che può essere definita una guerra asimmetrica; questa mia definizione non è legata alla forma che il confronto militare ha assunto. Indubbiamente essa spiega anche la contrapposizione armata fra Cina e Stati Uniti con la prima concentrata nell’organizzazione di una potenziale difesa in grado di non permettere l’ingresso al nemico in determinate aree anche solo per un periodo limitato. Questo è un tema che pertiene agli esperti militari, fra i quali non mi annovero. La mia definizione è legata a due differenti impostazioni strategico-politiche. Gli Usa puntano tutto il loro sforzo sul piano militare, dicendo inoltre ai propri “alleati” di pagare per la difesa statunitense; la risposta cinese è economica, ai paesi che si affacciano sul mare cinese meridionale (ma vedremo questa schema ripetersi nel resto del mondo). Pechino offre una collaborazione commerciale. Emblematico il caso del Giappone: da alcuni anni questo Paese ha avviato un tentativo di riarmo che dovrebbe sfociare nella modifica dell’articolo 9 della Costituzione (che fa del Giappone uno Stato pacifista senza esercito) arrivando anche a valutare di dotarsi di una forza nucleare. Dall’altra parte, la Cina è divenuta il primo partner commerciale del Giappone: questo vuol dire che un crollo cinese avrebbe delle ripercussioni anche sull’economia giapponese.
Questa politica cinese crea contraddizioni fra gli “alleati” degli Stati Uniti, contraddizioni che si aprono prima ancora che nel quadro politico nel contesto sociale: perché dover continuare a spendere soldi per armi quando la Cina offre una prospettiva di sviluppo economico?
Se al momento quest’area non è attraversata da conflitti armati, rimane la regione nella quale si decideranno le sorti dell’egemonia mondiale nel XXI secolo e probabilmente anche oltre; la stessa Europa, per quanto il conflitto ucraino possa fare pensare altrimenti, ha perso la propria centralità negli equilibri mondiali.
Il medioriente e il nemico iraniano
L’assedio al cuore euroasiatico, che gli Stati Uniti individuano nell’asse russo-cinese passa anche dal Medioriente. Quello che Zbigniew Brzezinski temeva si sta realizzando, è nato un asse fra Iran, Cina e Russia. Questa regione del mondo è attraversata dalla contrapposizione fra Iran e Arabia Saudita, quella che Dilip Hiro ha definito la guerra fredda del mondo islamico. È sbagliato ridurre questa contrapposizione a uno scontro religioso fra sunniti e sciiti, perché questo non permette di cogliere la valenza politica e le implicazioni che essa comporta. L’Iran negli ultimi 20 anni ha rafforzato quella che Vali Nasr ha definito la mezzaluna sciita, ovverosia il rapporto sempre più stretto fra Iran, Libano, Siria e Iraq. Il ruolo iraniano nell’area è oggettivamente un ruolo antimperialista; personalmente non guardo certo al sistema iraniano come ad un modello, ma non si può non vedere che esso abbia un sistema democratico in cui i presidenti non vengono deposti con i golpe ma con le elezioni; non si possono inoltre tacere due fatti: gli ebrei in Iran, a differenza di quello che raccontano i giornali italiani, non sono perseguitati, vivono tranquillamente e sono anche presenti in Parlamento, così come non è vero che alla donne è proibito studiare, essendo esse la maggioranza dei laureati del Paese.
Agli Stati della mezzaluna sciiti è corretto aggiungere gli Houti yemeniti che si trovano in quello che un tempo era la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen. Lo Yemen è stato attraversato da una guerra civile che contrapponeva i sauditi, ed i loro alleati del golfo, agli iraniani. L’accordo fra Iran e Arabia Saudita ha raffreddato questo conflitto; se oggi gli Houti possono esercitare una pressione nello stretto di Bab al-Mandab e anche in virtù del fatto che la sanguinosa guerra civile (combattuta anche con armi che l’Italia ha venduto ai sauditi) è bloccata.
L’accordo fra Iran e Arabia Saudita è stato mediato dalla Cina, i cosiddetti “Accordi di Abramo” avviati dall’Amministrazione Trump che sarebbero dovuti sfociare nel riconoscimento fra Israele e Arabia Saudita erano arenati, e l’unica speranza per stabilizzare la regione, dando anche risposta alla questione palestinese, si lega al ruolo di Pechino. Come detto, la Cina non esporta guerra ma sviluppo economico; se da una parte i rapporti con Teheran sono positivi e strategici, i sauditi vedono nella Cina un importante partner strategico in grado di aiutare lo sviluppo dell’ambizioso progetto di sviluppo delle Pmi. Lo sviluppo economico, propedeutico ad una stabilizzazione regionale, è possibile solo grazie a un contesto di pace, ed è qui che si inserisce la questione palestinese. Israele vive grazie alla divisione del campo avversario che oramai ha derubricato la questione palestinese ad un problema di secondo piano. Una compattezza del mondo islamico è essenziale non per distruggere Israele, cosa che realisticamente non è concepibile, ma per consentire la nascita dello Stato Palestinese. Quello che sta succedendo a Gaza è drammatico, il fatto che Israele debba rispondere all’accusa di genocidio davanti al tribunale dell’Onu (notizia quasi del tutto censurata dai media italiani) è il segno che quello che sta accadendo è di una ferocia inaudita. Il rischio è che finito questo massacro riprenda la quotidiana sofferenza dei palestinesi, lontano però da telecamere e microfoni. Una stabilizzazione dell’area costringerebbe Israele a dover affrontare politicamente il problema, e non solo da un punto di vista militare.
Oltre alle considerazioni già fatte va aggiunto che l’allargamento dei Brics all’Arabia Saudita mette in discussione il ruolo del petrodollaro; se è vero che gli Usa sono divenuti autosufficienti da un punto di vista energetico, non si può non considerare che l’Opec ha un ruolo rilevante nella fissazione del prezzo del petrolio. Tutte queste considerazioni potranno convincere un nuovo governo israeliano che l’unica soluzione è quella del dialogo.
Ucraina
La questione ucraina dal 2014 è stata affrontata da molti bravi analisti (quindi la stragrande maggioranza di ciò che si legge in Italia è esclusa) ed è quindi inutile riassumere quello che è successo. Chi vuole conoscere i fatti che vanno dal colpo di Stato del 2014, alla repressione del dissenso fino alla guerra scatenata contro le regioni russofone, per arrivare all’avvio dell’operazione militare speciale, ha tutte le fonti per farlo; chi vuole crogiolarsi nella comoda illusione che questa sia una guerra che l’Occidente combatte per difendere la democrazia da un folle tiranno può continuare a crederlo.
Lasciando da parte le miserie nostrane, è interessante capire quali sono i reali interessi statunitensi (i veri registi del conflitto), che fanno di questa guerra non solo una guerra fra Russia e Nato ma anche fra Stati Uniti e Unione europea. L’atavica paura dell’anglosfera, prima Impero inglese poi Usa, è che si possa saldare un asse fra Russia e Germania (quindi Europa) che potenzialmente potrebbe legarsi alla Cina unendo così il continente euroasiatico e relegando gli Stati Uniti ad un ruolo marginale. Sono queste le considerazioni che portarono Brzezinski a scrivere nel 1997 che staccando Ucraina e Russia si sarebbe impedita una proiezione di quest’ultima in Europa, trasformando quella nazione in un Impero euroasiatico. Staccare Russia ed Europa non vuole dire solo colpire Mosca, ma anche gli Stati europei; dall’inizio della crisi ucraina ingenti capitali si sono spostati dall’Europa agli Stati Uniti, inoltre l’incremento del prezzo dell’energia ha portato molte multinazionali a trasferire parte della loro produzione negli Usa. La Germania è il Paese più colpito, ma possiamo immaginare che la crisi tedesca non ci metta molto a diffondersi nel resto d’Europa, soprattutto in quegli Stati, come l’Italia, molto legati all’economia tedesca.
Le difficoltà europee sono sono gli occhi di tutti, dopo la crisi dei primi anni ’10 conseguente al crollo di Lehman Brothers e il Covid, questa è l’ennesima difficoltà che incontra il nostro sistema produttivo, altrettanto evidente è come la classe dirigente europea sia totalmente prona ai volere di Washington; paradossalmente possiamo affermare che l’Unione europea sta pagando la guerra contro se stessa. Sono considerazioni che porgo all’attenzione di chi rimane convinto che l’Ue possa essere riformata e trasformata in una non meglio definita Europa dei popoli. La difesa europea è guidata dalla Nato, o meglio dalla parte più oltranzista della Nato a partire dal Regno Unito (che tanto per far capire come funzionano le cose non fa più parte dell’Unione europea).
Il nostro piccolo spicchio di mondo non avrà più la centralità che aveva durante la guerra fredda, una parte del capitalismo finanziario sarà premiato da questo nuovo equilibrio, ma il nostro sistema produttivo e la classe lavoratrice sono destinati alla povertà.
Conclusioni
Le zone di conflitto qui descritte sono solo le principali. Sarebbe molto interessante analizzare quello che sta succedendo in Africa o nell’Artico, inoltre ci sono scenari di guerra non legati ad un territorio ma che si svolgono nell’etere con le nuove tecnologie o che si svolgono nello spazio con i satelliti che mappano il territorio o sui mercati nei quali gli Stati misurano la loro forza finanziaria.
Il conflitto che sta segnando il XXI secolo è molto articolato e molto esteso. Gli Stati Uniti non hanno più il ruolo egemonico che avevano alcuni anni fa, all’estero anziché democrazia hanno esportato guerra, povertà e tortura e all’interno, a differenza di quello che ci racconta la nostra stampa, stanno vivendo una crisi strutturale con un’economia eccessivamente finanziarizzata. Un’economia in cui la manifattura è stata smantellata, nel 2016 la vittoria di Trump alle elezioni arrivò da quegli Stati conosciuti come “cintura della ruggine” che un tempo erano sede di importanti industrie automobilistiche ed erano un serbatoio di voto per il Partito democratico; la crisi ha trasformato e impoverito quelle città. Lo scontro fra capitale finanziario e capitale produttivo è quindi uno scontro impari, Obama, Trump e lo stesso Biden hanno tentato di rafforzare la produzione manifatturiera del paese, ma il sistema statunitense non è più riformabile, perché la forza che ha assunto il sistema finanziario lo ha portato a egemonizzare tutta la società, il capitale finanziario si è fatto Stato e si è fatto società. Il 4 febbraio Marco Onado, recensendo l’ultimo libro di Bernie Sanders scriveva: “i primi tre miliardari americani possiedono più ricchezza di tutta la metà inferiore della società, ovvero 165 milioni di persone. Oggi il reddito complessivo dell’1 per cento che sta più in alto è maggiore di quello del 92 per cento che sta più in basso”, dati eloquenti della crisi statunitense.
Gli Stati Uniti stanno scaricando questa crisi sul resto del mondo attraverso la guerra e attraverso il non più sostenibile privilegio di avere una moneta nazionale che è anche moneta di riserva mondiale. Agli Stati Uniti si contrappone un’idea di mondo multipolare che ha al proprio centro Russia e Cina, quest’ultima in particolare è riuscita attraverso una crescita economica eccezionale a togliere 800 milioni di persone della povertà. Lo scontro aperto ha due possibili soluzioni: il conflitto mondiale (anche nucleare) o una nuova Yalta. Parlare di nuova Yalta non vuole dire vagheggiare un futuro di pace: il secondo dopoguerra ha visto tante guerre e tante vittime, però questo sistema ha impedito che scoppiasse una guerra potenzialmente in grado di cancellare l’umanità. Una nuova Yalta vuole dire recuperare il diritto internazionale, rimettere al centro della politica internazionale l’Onu, meglio ancora un’Onu ripensata che prenda atto che il mondo cambia e sta cambiando, con un nuovo protagonismo di attori africani, asiatici e latinoamericani.
Quella di una nuova Yalta è un argomento che trova interlocutori sensibili anche nell’Amministrazione statunitense, in un saggio del marzo 2021 apparso su Foreign Affairs due importanti e ascoltati analisti statunitensi, Hass e Kupchan, vagheggiavano la possibilità di creare un “concerto globale” di sei membri che oltre agli Stati Uniti doveva essere composto da Cina, Russia, India, Giappone e Unione europea. Il dibattito e lo scontro è aperto dentro gli Stati Uniti. I comunisti sanno che il risultato di questo scontro non è indifferente per le loro lotte. La costruzione di un sistema multipolare limiterebbe i rischi di guerra spostando in avanti l’equilibrio e aprendo spazi per le lotte del movimento operaio. Se l’Italia si aprisse alla nuova via della seta i benefici potrebbero essere importanti. Se riguardiamo agli ultimi 30-40 anni notiamo come le grandi lotte che ci sono state in Italia sono sempre state difensive, lotte a volte vinte a volte perse per impedire che venissero limitati diritti o tagliati salari; una crescita economia del nostro Paese aiuterebbe a rimettere al centro delle lotte la richiesta di più diritti e più salari. Che ci siano voci, a sinistra e addirittura fra i comunisti, insensibili al contesto internazionale e alla lotta per un mondo multipolare ci fa capire che il lavoro che abbiamo di fronte è ancora lungo.
* Direttore di «Marx21»
Immagine: President.az, 18th Summit of Non-Aligned Movement gets underway in Baкu, CC BY 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=83360336
Lascia un commento