Il “beat” in Italia

di Sergio Leoni

Anni ’60-’70: la proliferazione dei “complessi”, la loro supposta “innovazione” e la loro reale subordinazione alla musica d’oltremanica. Con la regìa “mercantile” delle case discografiche e dei produttori.

Sembra quasi inevitabile, quando si tratta di ricordare o anche appena accennare alla stagione italiana dei gruppi musicali, chiamati anche, con un involontario slittamento lessicale, “complessi”, che si attivi immediatamente un’operazione “nostalgia” che finisce per coinvolgere un intero periodo della storia italiana, andando a toccare aspetti che vanno ben al di là del semplice fatto musicale. È come se scattasse un riflesso condizionato per cui gli anni Sessanta del secolo scorso, associati al cosiddetto boom economico, vadano, senza dubbio alcuno, considerati come una sorta di età dell’oro, in cui le cose sembravano tutte andare per il verso giusto, e tutto contribuiva a disegnare uno scenario che oggi, a distanza di sessanta anni (tanti ne ricorrono quest’anno dalla prima esibizione di Non ho l’età di una più stralunata che ingenua Gigliola Cinquetti al Festival di Sanremo), appare decisamente meno positivo nel suo insieme e semmai si può definire come il periodo in cui l’Italia usciva in maniera irreversibile da una arretratezza generale di cui la parte “culturale” era certo una parte cospicua.

Ora, ogni nostalgia, come è stato giustamente insinuato, costituisce molto spesso il rimpianto per un passato non vissuto come doveva e poteva essere e, insieme, una forma di consapevolezza rispetto alla inadeguatezza per un altrettanto non vissuto “presente”. Queste, solo in apparenza, opposte tendenze collidono nella lettura che va da subito definita come “mitica” e del tutto slegata dalla realtà dei fatti, di anni in cui tuttavia, effettivamente, in un quadro culturale angusto e provinciale nel senso più deteriore del termine, movimenti politici, sociali e soprattutto sindacali riuscivano ad ottenere conquiste fino ad allora impensabili.

Difficile elencare le occasioni, a partire dai programmi televisivi più tradizionali per continuare con tutti quei mezzi che sostanzialmente si possono ricondurre all’uso di internet come “mezzo”, in cui questa specie di ritorno agli anni ’60-’70 in chiave di recupero non sia presente. In maniera occasionale, e allora la sensazione è che questo tema sia diventato “sotterraneo”, magmatico, e come tale deve prima o poi emergere, oppure nel caso che ci si costruisca sopra una vera e propria struttura, alla fin fine uno spettacolo a sé stante, e che dunque ha una sua logica, volutamente oscura nei fini ma non indecifrabile e dunque non nascosta.

Nei due casi, la tesi di fondo, il sostrato che sorregge tutta l’operazione, consiste nell’affermazione, priva in realtà di ogni vera sostanza, che quel periodo sia stato un periodo di grande creatività, che in quel periodo si siano sperimentati chissà quali nuovi orizzonti, chissà quali nuove tecniche.

Certamente, dopo i soffocanti anni ’50, e dopo decenni in cui, per restare nell’ambito della musica popolare, il quadro generale cominciava a registrare timidi passi in avanti verso la ricezione di fenomeni musicali consolidati in tutto il mondo occidentale, ma che in Italia erano praticamente sconosciuti, (il fascismo aveva praticamente proibito il jazz), ora si cominciava ad avere una visione più ampia. E c’era molto da guardare e da scoprire.

Naturalmente, qui non si vuole, e del resto non sarebbe possibile, “sottovalutare” il forte impatto che certi gruppi musicali hanno avuto su ascoltatori abituati a sonorità consolidate e incasellate in una sorta di “canone” che certamente non lasciava grande spazio all’innovazione. Qualcosa che, perlomeno, “appariva” come una novità, ma in un quadro generale in cui la tradizione più conservatrice e meno aperta a innovazioni, occupava un uguale e contrario spazio nelle trasmissioni radio e negli spettacoli rigorosamente in bianco e nero di una televisione che, guardata oggi, dovrebbe in realtà suscitare ogni sentimento possibile tranne che quello della “nostalgia”.

Quella che andrebbe ridimensionata, o comunque ricondotta entro limiti che le sono propri, non è la scena musicale italiana di quegli anni nel suo complesso, ma quella parte di essa specifica che, per molti motivi che tenteremo di spiegare, è sembrata rappresentare qualcosa di particolarmente innovativo, di “strano”, e, per l’epoca, pericoloso quando non direttamente “eversivo”. Un fraintendimento generale, una specie di equivoco a cui tutte le parti in causa si sono abbandonate. È sembrato, in altri termini, che il proliferare dei “complessi” costituisse in qualche modo un’anomalia non accettabile, sicuramente nei confronti del mondo musicale dell’epoca, ma più in generale nei confronti della società nel suo insieme, e riguardo in particolare a un del tutto reale, per la verità, ordine costituito.

Non è possibile, in altri termini, e spesso contro la stessa analisi delle teste pensanti che non sono mancate anche in quegli anni, slegare una disanima della musica cosiddetta “giovanile, da un contesto politico che includeva praticamente ogni ambito della società, invasivo per molti aspetti, soffocante nella maggior parte dei casi.

Oggi, quella situazione sembra perfino incredibile. Al tempo, non solo era del tutto reale, ma si collocava, in maniera “normale”, nell’ambito di un controllo sociale generalizzato che ha cominciato a sgretolarsi soltanto con le grandi lotte operaie degli anni ’70, e poi con le stagioni delle battaglie per i diritti civili con cui, timidamente, l’Italia cercava di mettersi in pari con già consolidate realtà estere.

Senza voler coinvolgere tutta la società di quegli anni in un processo in cui rappresentare l’accusa sarebbe tanto facile quanto sostanzialmente inutile, pure occorre ricordare che quella Italia era l’Italia di una Democrazia Cristiana che appariva insieme inamovibile e destinata a durare indefinitamente nel tempo, ma che sarà presto posta di fronte, drammaticamente da un lato, in maniera farsesca dall’altro, alla dissoluzione di quei presunti valori e principi cui, oggi sembra evidente, gli stessi protagonisti dell’epoca davano un peso del tutto relativo, quando non del tutto insignificante.

Lo sguardo disincantato che ci consente oggi la distanza nel tempo da quel periodo, non fa che confermare quello che per pochi critici musicali era un’intuizione, e che oggi è di una evidenza che non lascia troppo spazio a ipotesi alternative.

Complessivamente, il fenomeno beat in Italia si può definire, in buona sostanza, come una grande operazione di imitazione di modelli che arrivavano da una distanza che oggi ci appare esigua, ma che al tempo sembrava enorme.

La storia e la cronologia di questa “storia” è abbastanza nota.

In una Europa che è da pochi anni uscita dal secondo conflitto mondiale, la cultura che diventa ben presto dominante sotto ogni latitudine è quella dei Paesi vincitori. E non è certo sorprendente che una ventata di novità arrivi da un Paese (il Regno Unito) che ha vinto la guerra, che ha tradizioni consolidatissime e da cui non ci si aspetta possa essere il terreno in cui nasca una “cultura” alternativa e una stagione, quella del rock, che ha da subito influenzato il mondo musicale, non solo giovanile, di quegli anni. E che invece, sorprendentemente, si sviluppa, a partire dalle “periferie” e dai ceti più svantaggiati, e coinvolge settori (pensiamo alla moda e a quella che è stata considerata universalmente una totale innovazione: la minigonna) che con la musica aveva poco o nulla a che fare.

Ma questo è quello che in effetti avviene, e bisognerebbe chiedersi se le ragioni profonde di tutto questo non vadano ricercate a questo punto, su un piano non strettamente musicale ma piuttosto in un “sentire” più ampio che, come un boomerang, ritorna a coinvolgere la società che lo ha prodotto.

La scelta dei produttori e dei musicisti di casa nostra, ed è difficile capire quanto le ragioni degli uni e degli altri potessero coincidere, in quegli anni si sono sostanzialmente orientate nella riproposizione, con un testo italiano, di brani di successo inglesi o americani. È una scelta che rappresenta qualcosa di meno, in realtà di molto meno, di una “cover”, cioè della reinterpretazione/rivisitazione di un brano già famoso. Recentemente, e per spiegare con un esempio lampante questo tipo di operazione, si possono citare i Negramaro che riprendono il grande successo di Domenico Modugno, Meraviglioso, reinterpretandolo in maniera attualizzata, con effetti sorprendenti e straordinariamente efficaci. Si tratta di una cover, con una sua dignità e un senso.

Al contrario, negli anni Sessanta i “pezzi” che arrivano da oltremanica o da oltreoceano, semplicemente vengono “copiati”, senza cioè che venga fatto alcun intervento su un piano musicale, aggiungendo soltanto un testo in italiano che solo vagamente, e a volte mai, richiama il testo originale.

Qualche esempio.

L’ora dell’amore dei Camaleonti è la versione italiana di una canzone dei Procol Harum: Homburg. Il testo italiano è qui solo una pallidissima versione di un testo inglese che è già, in sé e per sé, una svolta innovativa che la “traduzione” italiana non riesce a cogliere.

“Your multilingual business friend/ has packed her bags and fled/ leaving only ash-filled ashtrays/ and the lipsiticked, unmade bed/ the mirror, on reflection, has climbed back upon the wall…” che diventa, più banalmente, “da molto tempo questa stanza/ ha le persiane chiuse/ non entra più luce qui dentro/ il sole è uno straniero…”.

Solo un esercizio linguistico non troppo efficace? Solo una incapacità di cogliere lo “spirito” di un testo di una canzone?

A ben vedere c’è di più.

E c’è di più, non nel senso che qui non è stata esercitata una qualche forma di censura. Quella sarebbe stata evidente. No, qui si è riprodotto un meccanismo molto più sottile.

La “traduzione”, non solo dei testi ma in genere del modo di suonare e di proporsi al pubblico, ha falsificato sostanzialmente ogni spinta innovativa, riducendola a semplice e in definitiva inutile proposizione di qualcosa già visto, normalizzando quel poco, perché davvero non era poi così tanto, che poteva apparire, più che essere, alternativo allo status quo.

Naturalmente, qui non è in discussione la buona fede di quei musicisti che si approcciavano, con tutti i loro evidenti limiti, al mondo delle grandi case discografiche. Vorrei dire, e questo esempio valga per tutti, che è impossibile pensare ad un Augusto Daolio, cantante, frontman degli immarcescibili Nomadi che ci ha purtroppo lasciato da molti anni, come ad un cinico musicista che riprende Auschwitz, ma anche Noi non ci saremo, canzoni di Guccini mai diventate famose, fino ad allora, solo per un mero calcolo.

Al contrario, c’è da essere sicuri non solo della buona fede di quei cantanti, chitarristi, batteristi e tastieristi che, dal canto loro, hanno fatto i più grandi sacrifici per arrivare ad un minimo di “visibilità” (che era comunque e sempre erogata con il contagocce dalla televisione italiana di Stato), visibilità scontata in interminabili tournée in giro per l’Italia in cui ogni musicista, fuori da ogni forma di divismo, smontava la strumentazione e preparava in prima persona, con un cacciavite in mano, per così dire, il concerto del giorno dopo.

Il Cantagiro, la manifestazione estiva che percorreva l’intera penisola in altrettante tappe musicali, ha rappresentato il clou per quanto riguardava la musica cosiddetta “giovanile” di quegli anni.

E già il fatto che tutto quel grande apparato logistico, perché tale era, sia stato ideato e realizzato per un pubblico tutto sommato nuovo, dovrebbe quantomeno indurci a qualche riflessione.

Nell’impossibilità di fermare, o almeno rallentare, quella che pareva una vera invasione musicale proveniente essenzialmente dall’Inghilterra (Beatles e Rolling Stones sono nomi che spiegano praticamente tutto), la strategia dei discografici italiani è stata in realtà una mera tattica di contenimento. Non è possibile fermare questa invasione di musica “straniera”. Cerchiamo di minimizzarla. O, più proficuamente, che è poi quello che da sempre interessa l’industria, musicale e non, adeguiamo il mercato italiano a queste novità, diventiamo i primi nell’accettare queste spinte.

Un gioco vecchio?

Certo, ma sempre efficace.

Naturalmente, qui non si vuole, una volta di più, togliere niente alla capacità di quei pochi che in quel periodo si sono mossi con una autonomia e una capacità di giudizio che ha, sostanzialmente, spianato la strada ai cosiddetti gruppi “prog” che finirono, per fortuna, di essere la naturale conclusione di una troppo confusa e ingenua scena musicale italiana. Ma di quei “precursori”, sprovveduti quanto si vuole, qualcosa occorre pur dire, e qualche nome, a questo punto, va fatto.

A partire, quantomeno, dai Dik Dik con la loro versione di California Dreamin’ che diventa, senza troppi cambiamenti, Ti sogno California. O i Nomadi di Ho difeso il mio amore che è la versione italiana di una struggente e originale Nights in White Satin già interpretata straordinariamente dai Moody Blues.

Si potrebbe continuare con altri esempi. E in realtà anche molti brani interpretati da cantanti senza un gruppo alle spalle, erano ripresi da canzoni provenienti da altri Paesi, da altri contesti. Qui direi che basta ricordare come un disco che ha avuto un buon successo in Italia, anche perché interpretato da un apprezzato cantante, al di là delle sue doti musicali, Mal, Pensiero d’amore, è solo una cover di un brano, famoso a livello molto più ampio dei molto più famosi Bee Gees, qualunque sia il giudizio che si possa dare di questo gruppo.

Appare abbastanza evidente, insomma, che quello spazio temporale abbastanza ristretto, ma che poi ha costruito prolungamenti secondari nel tempo ma tanto reali da arrivare fino a noi, si è consolidata una pratica che, in linea teorica non avrebbe niente di sbagliato, e che anzi, al contrario, potrebbe rappresentare una forma di integrazione tra esperienze musicali diverse.

Ma nella pratica, come avviene regolarmente quando si tratta di parlare degli effetti di una qualunque “scelta” da parte della cultura e del potere dominante che la sostiene, si finisce regolarmente per registrare una specie di capovolgimento in cui ogni cultura “altra”, quando non possa essere ricondizionata e dunque sostanzialmente destrutturata e resa innocua, viene banalizzata, ridotta ai minimi termini di un linguaggio che la descrive e che della povertà linguistica fa il suo canone.

In questo modo, e secondo questa strategia, è stato possibile ridurre il rock ‘n’ roll ad un fenomeno transitorio (salvo essere smentiti clamorosamente dalla durata e della persistenza del fenomeno stesso), o ridurre tutto ciò che emergeva nella società nel suo insieme come un fenomeno “giovanile” con il chiaro intento di ricondurlo entro i recinti ben custoditi di una prassi consolidata.

La possibile obiezione a questo ragionamento appare chiara.

Se la cultura dominante ha fatto tanti sforzi per contenere quello che appariva come un fenomeno “eversivo”, allora quel fenomeno davvero aveva in sé qualcosa di drasticamente nuovo e “pericoloso”?

La realtà, la verità effettuale, è molto più prosaica e in nessun modo si presta a interpretazioni che possano dare agio a ipotesi di costruzione di un sottotesto che regoli la questione. Tutto, in realtà, appare ed è molto più banale, più riconducibile ad un ritardo tutto italiano rispetto alle innovazioni in atto, in particolare nella musica popolare.

Perché poi, su un altro piano, nell’ambito cioè della musica cosiddetta “colta”, l’Italia non solo non è stata seconda a nessuno, ma è stata per molti versi all’avanguardia. E quanto a questo aspetto di una situazione non secondaria, basterebbe ricordare l’opera e, direi la “vita”, di un grande artista quale è stato Luigi Nono.

Il beat italiano è stato presto ricondotto entro il recinto delle proposte accettabili, accettate e perfino promosse. La sua storia vorrebbe essere quella delle canzoni con cui una generazione ha creato le sue colonne sonore che avrebbero accompagnato e sottolineato momenti, inevitabilmente, “irripetibili”.

Più prosaicamente, pochi hanno avuto il coraggio di scrivere canzoni nuove, che non fossero un pallido riflesso di esperienze che non ci appartenevano realmente.

Per tutti una: Auschwitz. Scritta da un allora sconosciuto Francesco Guccini e portata al successo dai già citati Nomadi.

O ancora e nell’ambito di tutt’altro genere: gli Alunni del Sole, con il loro coraggio di innestare la tradizione napoletana, quella meno folkloristica ma legata comunque alla visitazione e rivisitazione dei “sentimenti”, non in chiave piagnucolosa ma con uno spirito innovativo. Cito solo un paio di brani: Ritornelli infantili e Ritorna Fortuna.

Non per caso questi gruppi hanno, passata la sbornia del beat in versione italiana, avuto una carriera di tutto rispetto, lontana dal bisogno di intrupparsi in quei carrozzoni che erano le trasmissioni dedicati ai “giovani”, una categoria che, per quanto ne sappiamo, è nata in Italia e in Italia ha inverato il sogno del capitale avanzato: mimetizzarsi.

PS: mentre scrivo queste righe sta per andare in onda la finale del Festival di Sanremo 2024.

Il circolo mediatico che racchiude questo sedicente evento ha, ancora una volta, come accade da ormai molti anni ma che non è stata una caratteristica delle edizioni degli anni più lontani, la pretesa che questo spettacolo canoro, questa esibizione abbastanza scontata di brani scontati di altrettanto scontati cantanti, costituisca una sorta di immagine della realtà sociale italiana.

Non so se chi propone questo tipo di accostamento si renda conto di quanto questa affermazione costituisca un autentico boomerang.

Se il Festival è lo specchio della società italiana (ma gli specchi, come inutilmente ripetono gli studiosi di ottica, non restituiscono mai l’immagine reale) siamo già, in buona sostanza, alla “certificazione” di un modello che sceglie l’apparenza rispetto alla realtà, che celebra una fittizia vittoria, in attesa di quell’altra altrettanto fittizia che cancellerà quella attuale, e in cui, per farla breve, niente deve sembrare come è realmente e tutto deve unicamente apparire.

Immagine: Italian magazine Radiocorriere, Public domain, via Wikimedia Commons

Lascia un commento

Sito web creato con WordPress.com.

Su ↑