La zona d’interesse

di Laura Baldelli

Una decostruzione di genere, in una narrazione per sottrazione, in cui il dramma dell’Olocausto è celato, dove il non detto e il non visto, paradossalmente, enfatizzano l’orrore.

La zona d’interesse, finalmente oggi nelle sale italiane, è un film imperdibile, di una potenza narrativa che si rifà agli albori del cinema.

Candidato ai prossimi Oscar come miglior film, migliore regia, migliore sceneggiatura non originale, miglior film internazionale, miglior sonoro, ha già vinto a Cannes il Grand Prix speciale della Giuria 2023, tre Bafta, nonché l’ammirazione di Alfonso Cuarón, che lo ha definito il film più importante del secolo e anche Steven Spielberg lo ha apprezzato.

Il merito va al regista britannico Jonathan Glazer, regista teatrale, sceneggiatore, montatore e autore di videoclip musicali e pubblicità, poco prolifico nei film di fiction, poco noti e contraddistinti da una ricerca espressiva non comune.

Il film è tratto liberamente, per non dire stravolto, dal romanzo dello scrittore inglese Martin Amis, in cui il regista scrive una sceneggiatura completamente diversa dal romanzo, del quale conserva il punto di vista sulla Shoah, quella dalla parte degli aguzzini; per Glazer il romanzo di Amis è stato il punto di partenza per approfondire ricerche e stili narrativi, ma non ha tradito il concetto di fondo del romanzo: la familiarità, la quotidianità, la banalità del male. Il regista sembra più ispirato da Comandante ad Auschwitz, le memorie di Rudolf Höß, il comandante del grande complesso del campo di sterminio di Auschwitz, in cui viveva con la famiglia proprio a ridosso del muro del campo, la zona d’interesse.

Nel film non è importate la trama e nemmeno i personaggi, bensì il punto di vista: nessuna immagine del campo e delle sue vittime.

Il regista s’impegna in una decostruzione di genere, in una narrazione per sottrazione, in cui il dramma dell’Olocausto è celato, dove il non detto e il non visto, paradossalmente, enfatizzano l’orrore.

Infatti, Glazer ci mostra l’ordinaria e anonima villetta del comandante, un uomo tutto famiglia e lavoro, immerso in un’idilliaca vita con amici e familiari tra picnic, nuotate al fiume, giardinaggio, feste in piscina, passeggiate a cavallo. La moglie, la regina di Auschwitz, nel suo giardino dell’Eden, dirige con efficienza casa, figli e domestici, mentre il marito è il manager, lo stratega della fabbrica della morte, il migliore sulla piazza. Tutti si occupano di cose, oggetti, di logistica soprattutto e il loro comfort e la tranquillità consumistica viene dal campo con i migliori indumenti, gli oggetti preziosi, di cui tutti sono perfettamente consapevoli della provenienza e di quello che accadeva nel campo: conniventi, complici e indifferenti dello sterminio di massa. 

Il regista, per raccontarlo, frantuma la retorica dei film sulla Shoah e torna al cinema delle origini sia nelle inquadrature che nel montaggio: le macchine da presa, ben dieci, si muovono pochissimo manovrate da remoto, per favorire un montaggio cognitivo alla Lev Vladimirovič Kulešov, dove tutto è costruito nella stessa inquadratura con campi e controcampi. La scena della piscina è ispirata dall’opera La fontana della giovinezza di Lucas Cranach il vecchio, esaltata dalla fotografia con luce naturale del polacco Lukasz Zal, nell’inquadratura da palcoscenico teatrale. L’audio, elemento narrativo determinante, è costruito con un sonoro fuori campo dei rumori della morte nel campo di giorno e di notte, alternati ad una musica, altrettanto disturbante, composta dalla compositrice Mica Levi che collabora spesso con il regista.  

Gli effetti speciali del buio totale, del rosso e di alcune immagini in negativo, sconcertano lo spettatore e drammatizzano la storia, unici strumenti, perché il regista rinuncia ai primi piani, che di solito sono elementi drammatizzanti nella narrazione nel cinema. Una scelta stilistica, quasi una scelta etica, per sottolineare la freddezza, l’insensibilità dei personaggi, che sembrano appartenere ad un reality.

Glazer ha lasciato liberi gli attori, i bravi Sandra Hüller e Christian Friedel sono perfetti ruoli di esseri crudeli nella loro feroce tranquillità, offuscata solo dal dolore del trasferimento da Auschwitz, da essi vissuto come un Eden, in cui avevano costruito la “sana” vita ariana in campagna, insensibili al cattivo odore del fumo dei forni e alla cenere sparsa dappertutto. Qualcosa d’inconcepibile, d’insopportabile contrasto, ma che per essi è invece l’irrinunciabile paradiso, che hanno costruito giorno dopo giorno; non sono due mostri, bensì un padre di famiglia e una madre di cinque figli, tra cui un neonato, che sembra essere l’unico, oltre la nonna, a sentire il disagio della morte continua.

Inoltre, Rudolf Höß non è un fanatico nazista, non è una caricatura, indossa una fredda naturalezza da efficiente burocrate: davvero impressionante è la scena in cui i tecnici illustrano i nuovi forni e la conseguente tempistica e logistica, senza mai nominare i termini come morte, morti: è la tragedia del non voler vedere, della negazione dell’orrore.

A me ha ricordato il nuovo mondo del lavoro, imposto dal neoliberismo governato dai numeri, dalla gelida razionalizzazione, dal linguaggio astratto e mistificato, dove l’organizzazione ha il primato su ogni valore umano, ma anche le folle integrate d’individui nelle moderne metropoli, capitali del neoliberismo, che corrono, insensibili a ciò che accade intorno, che inseguono e condividono gli obiettivi aziendali di sviluppo e consumo senza fine.

Il montaggio di Paul Watts, gli effetti speciali di Guillaume Ménard contribuiscono alla narrazione, specie per la scelta stilistica di “scene in negativo”, girate con camere termiche, sequenze astratte, che non appartengono a quel reale raccontato. Per lo spettatore è un piccolo mistero quell’adolescente che nasconde le mele sotto terra, che il regista ha svelato in un’intervista, rivelando che durante le riprese del film, proprio quando pensava di abbandonare l’impresa, ha incontrato una donna polacca novantenne che gli ha raccontato la sua storia di adolescente che nascondeva il cibo nei terreni di lavoro degli internati, affinché lo trovassero. Era il suo atto di Resistenza e il regista lo inserisce come “forza del bene”.

Ma le sorprese narrative del film sono anche nelle scene finali, dove il regista inserisce immagini-documentario di oggi di Auschwitz, non una panoramica, bensì di squadre di pulizia.

Non perdetelo, non solo perché in tempi di revisionismo storico rappresenta un atto di Resistenza verso la memoria storica, ma anche per lasciarvi trasportare dalla potenza del linguaggio cinematografico!

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