Sulla musica country

di Sergio Leoni

La “country music” è l’espressione più immediata di un sentire comune, di un modo di leggere le realtà, che ha accomunato ben presto tutte quelle comunità, essenzialmente rurali, che erano già state la spina dorsale della conquista del West e insieme i capisaldi di un genocidio, quello dei cosiddetti “indiani”, che è stato praticamente rimosso, verrebbe da dire, dalla storia “universale”.

Scritti e interpretati da quello che Wikipedia considera stranamente uno dei più grandi gruppi di rock and roll a livello mondiale, i certamente famosi Creedence Clearwater Revival, Who’ll stop the rain e Cotton fields, due pezzi conosciuti davvero a livello planetario e per lo più usati, senza alcuna irriverenza, come brani per “scaldarsi” da una buona parte dei gruppi musicali non professionali, data la loro relativa facilità in quanto strutturati su una manciata di accordi che anche il più sprovveduto dei musicisti può suonare senza problemi, sono i tipici esempi con cui si comprende che cosa è stato ed è tuttora la country music. Di cui, comunque, con buona pace di quella pseudoenciclopedia aperta che sarebbe la già citata Wilkipedia, i CCR sono stati tra gli esponenti principali e, quanto a successo oltre il mercato americano, che è sempre stato e tuttora è quello di riferimento per questo genere musicale, non sono stati secondi a nessuno.

“Genere” musicale esclusivamente e genuinamente americano, va sottolineato, questa la premessa da cui non è possibile derogare e che al più ha potuto dare luogo, come vedremo più avanti, a imitazioni che spesso sono state migliori dell’originale. “Genere” che ha avuto tra i suoi esponenti di rilievo, per citare due casi agli antipodi, sia quel personaggio sempre un po’ sopra le righe che è stato Johnny Cash, nella versione più controversa che non è possibile tacere (qualche anno di carcere) sia, al contrario, un John Denver, emblema dei migliori, spesso solo presunti, valori positivi di una cultura americana su cui, sfortunatamente, non è mai iniziata una disanima profonda capace di separare, in maniera netta, modo e contenuti progressivi, se non proprio progressisti, da modelli culturali decisamente di retroguardia, quando non propriamente reazionari.

La cosiddetta “country music”, la cui data di nascita non si può che collocare, a meno di forzature, se non ai primi anni del Novecento, è comunque, in poco tempo, riuscita a influenzare, ma solo su un piano strettamente musicale, diversi cantanti e gruppi che si sono voluti cimentare con un modo particolare di suonare dai contorni dopotutto non ben definiti, ed entro cui, perciò, è stato possibile inserire un gran numero di varianti.

Nel “doppio” Exile on Main St., concepito e realizzato dai Rolling Stones nel sud della Francia, sulla Costa Azzurra, “in fuga” da problemi con il fisco inglese (da cui il titolo del disco), almeno un paio di brani sono esplicitamente non tanto un omaggio al country ma una ripresa, un’ispirazione che deriva esplicitamente da quello “stile” musicale, naturalmente rivisitato. Ma Sweet Virginia, Loving Cup, sarebbero impensabili senza la scoperta, da parte di un gruppo di rock and roll aperto a tante esperienze nuove come i Rolling Stones, di modi di fare musica uscendo da quello che, dopotutto, finiva per diventare un recinto troppo comodo, quello del semplice rock and roll, e senza prospettive di lungo termine. Andando a riprendere poi, e sembra naturalmente un paradosso, uno schema musicale vecchio di almeno cinquanta anni.

Ma ancora, in un successivo album (Some Girls) il gruppo inglese caratterizzato da sempre dalla ingombrantissima presenza del cantante e frontman a 360° Mick Jagger, Faraway Eyes, racconta la storia di una ragazza abbastanza miope, in termini esclusivamente medici, da non vedere gli amori impossibili che crea intorno a sé, in uno stile che più country non si può, tanto da far pensare, più che a una rivisitazione, ad una parodia del “genere”.

La “country music” è l’espressione più immediata di un sentire comune, di un modo di leggere le realtà, che ha accomunato ben presto tutte quelle comunità, essenzialmente rurali, che erano già state la spina dorsale della conquista del West e insieme i capisaldi di un genocidio, quello dei cosiddetti “indiani”, che è stato praticamente rimosso, verrebbe da dire, dalla storia “universale”, e in particolare da quella americana, che ha voluto vedere nella progressiva avanzata verso Ovest dei coloni (Westmoreland è uno dei cognomi più diffusi negli Usa) una specie di redenzione di popoli che, bontà loro, non conoscevano il cristianesimo, i suoi precetti e infine, in concreto, la sua volontà strenua di appropriarsi di tutto quanto sembrava opporsi al suo dominio, volontà di ordinare il mondo secondo i suoi usi e costumi.

È qui che affonda le sue radici una musica che, dopotutto, non può neanche vantare antiche radici se non quelle, molto vaghe, che si collocano più su un piano culturale piuttosto che realmente musicale.

E infatti, naturalmente, qui non si vuol sostenere che il country è “idealmente” sbarcato negli ancora indefiniti territori di conquista da parte dei padri pellegrini, magari con la Mayflower che, a dispetto del nome che evoca un mazzo di fiori, è stata, forse la nave più carica di miasmi fetidi, e non solo di carattere olfattivo. Ma che le origini di questo spaccato di musica che occupa uno spazio non secondario (accanto al jazz, agli spiritual) nell’ambito della cultura popolare americana, vada ricercato oltreoceano, da dove era comunque partito, sembra un fatto assodato.

Ci aiuta ancora una volta il cantante dei Rolling Stones, stavolta in versione solista, vale a dire in un LP realizzato al di fuori del collaudato gruppo inglese. Handsome Molly è la tipica canzone che, senza neanche tanta fantasia, ci si può immaginare cantata, con il semplice accompagnamento di un violino non professionale e di una chitarra non del tutto accordata, in un qualche pub in una località di mare.

Dare un ritmo continuo a questa che qui appare come una lenta ballata, inserire uno strumento di “accompagnamento” come è sempre stato considerato (a torto) il banjo, ha potuto essere il passaggio successivo per trasformare una canzone densa di nostalgia e di sentimenti malinconici, in un brano con cui, ancora con un pizzico di immaginazione (ma il dubbio è che queste immagini siano tutte derivate dal profluvio di “western” che hanno invaso l’Italia dal secondo dopoguerra in poi) ci possiamo immaginare uno scenario in stile saloon o, più propriamente, in stile “farm” americana immersa nel nulla delle grandi distanze statunitensi.

La country music non ha dovuto fare grandi sforzi per imporsi. Possiamo facilmente immaginare che i suoi ritmi, quei giri di accordi semplici, codificati e però aperti a mille varianti, siano stati un grande richiamo per una schiera non piccola di musicisti.

Mentre il jazz, l’altro grande filone musicale che nasce e si sviluppa al di fuori, e spesso contro l’establishment musicale dominante, conosce moltissime “fasi”, moltissimi modi di interpretare un canone che evidentemente si presta a più soluzioni e, infine, diventa per certi versi la colonna sonora di un movimento di opposizione allo status quo (con tutti i limiti che occorrerebbe verificare), la country music sembra scivolare invece, inesorabilmente, a interpretare e rappresentare i sentimenti, le emozioni e infine i propositi di una società che, è questione degli ultimi decenni, è diventata sempre più marginale; quella, cioè, della cosiddetta fascia della ruggine (Rust Belt), cioè quei territori nel vasto continente americano che sono stati abbandonati da un capitalismo che ha sfruttato quei lavoratori per quanto ha potuto e poi li ha mollati a un destino non solo di marginalizzazione, ma a una vera e propria irrilevanza che li condanna a un dramma economico, oltre che esistenziale, senza un possibile sbocco. In qualche modo, e con i limiti di un cinema che comunque fa pur sempre riferimento alla grande industria hollywoodiana, almeno uno dei temi del film di Michael Cimino, Il cacciatore, rappresenta uno spaccato di una America “profonda”, e non importa se qui siamo in Pennsylvania mentre, quantomeno nel senso comune, di country musica si può parlare solo dallo Stato della Virginia in giù.

Che io ricordi, non c’è un solo pezzo veramente country nel film, che anzi si conclude con una sorta di inno (God Bless America) ma l’atmosfera, il contesto, i sentimenti che il film vuole evocare, primo tra tutti il senso di appartenenza etnica, sono altrettanti “stilemi”, se il termine non suonasse eccessivo, di una cultura “country”.

La strumentazione musicale di quella che, alla fin fine, è stata un tentativo della cultura popolare di proporre un proprio linguaggio che non fosse una mera imitazione di musiche più strutturate, quando torna alle origini e si muove nelle balere di periferia (le “ballroom” di tanti testi), e quindi non risente delle tecniche di registrazione della major musicali e del loro ridurre tutto ad un canone, si compone di pochi strumenti, come del resto si è già accennato: una batteria va sempre bene ma non è indispensabile; di chitarre, anche di più di una (in questo senso non c’è alcun limite), ci si serve costantemente ed esse rappresentano in qualche modo l’ossatura di ogni brano. E ancora vale qui ribadire il ruolo dei violini (ma sostanzialmente di “un violino”) che occupa uno spazio non secondario nella trama.

“Papa John Creach”, il violinista dei famosi Jefferson Airplane, ha dimostrato in maniera ottimale il modo in cui questo strumento nobile, antico, dalle risorse infinite ma, fino ad allora, in un certo modo “elitario”, poteva essere suonato in maniera del tutto nuova.

Il banjo, questo strumento dal suono così metallico, è stato un altro dei capisaldi di certe canzoni e ballate popolari. Da un lato, per una relativa facilità di usarlo, sostanzialmente, in termini ritmici, come accompagnamento in mancanza di un vero e proprio strumento a percussione che normalmente è quello che stabilisce la cadenza e le sequenze di qualunque brano musicale. Da un altro lato, per la capacità che ha questo strumento di creare “suoni” non del tutto abituali nel mondo musicale. Da questo lato valga l’ascolto di Nursery Rhyme of Innocence and Experience in cui una ispiratissima Natalie Merchant canta e dialoga con una chitarra, un violoncello e, sorpresa, un banjo che non fa quello che dal banjo ci si potrebbe aspettare, secondo i soliti luoghi comuni, ma costituisce una trama, pari e parallela a quella degli altri strumenti.

È entrato a buona ragione nell’immaginario collettivo del secolo scorso un film (Un tranquillo weekend di paura) che è sembrato, con tutti i suoi limiti che a rivederlo oggi emergono ma non in maniera prepotente, dare uno spaccato della grande frattura creata tra una presunta civiltà moderna rappresentata da quattro professionisti che vogliono fare una “immersione” in una natura di cui fondamentalmente ignorano regole e criticità, discendendo in canoa il corso di un fiume, e una società che, secondo questi stessi criteri, questi protagonisti non potrebbero che definire “primitiva”. L’incontro tra queste due culture diversissime si rivelerà una catastrofe, un dramma in cui si esplica l’impossibilità di un incontro tra due concezioni antitetiche del vivere su un territorio certamente vastissimo ma che, comunque, contiene entrambi, nei modi di una convivenza sempre sull’orlo della rottura. In una delle scene iniziali, uno dei quattro escursionisti accenna un tema alla chitarra da cui non si separa mai quando vede, appollaiato su una altana, o su un fienile, un giovane dai tratti evidentemente problematici (il film non indaga oltre in quel senso) che impugna un banjo e risponde replicando puntualmente alla sequenza di note della chitarra. Da lì parte un duetto (Dueling banjos) che resterà nella storia del cinema e, in piccola parte, in quella della musica.

I testi delle canzoni declinate su ritmi “country” sono invariabilmente ispirati a tutti quei miti che costituiscono, negli Stati Uniti, come del resto in ogni latitudine, il sostrato profondo di ogni cultura consolidata e insieme, quando li si vada ad analizzare nel profondo, una sorta di grande fraintendimento quando non del tutto una menzogna.

La conquista del West, è ormai assodato presso gli storici più avvertiti e obiettivi, è stato poco meno che un massacro con cifre che farebbero anche oggi impallidire altri genocidi che, in tempi più recenti, hanno scosso l’opinione pubblica mondiale.

Ma la conquista del West, e comunque l’idea di un mondo da raggiungere, da esplorare, da mitizzare (e sostanzialmente da occupare manu militari), è uno dei temi fondativi della cultura americana nel suo insieme. E la musica country ne è stata spesso la “colonna sonora”.

Tuttavia, come spesso accade, non tutte le note che sono state scritte entro quegli schemi musicali, seguendo certi canoni, possono essere indiscriminatamente consegnate a una critica negativa e senza prospettive.

Il pensiero non può, in tal caso, non andare a un gruppo, (ne cito uno solo ma ce ne sono stati molti altri che hanno interpretato la musica popolare, il country, in maniera addirittura musicalmente eversiva), un gruppo protagonista degli anni che hanno costituito una buona fetta della scena musicale culminata nell’evento di Woodstock, che hanno proseguito il loro lavoro negli anni successivi e sono da considerare senz’altro come una delle band più interessanti di quegli anni.

Chiedersi se la loro musica fosse più rock che country è del tutto ozioso.

Chi ha il coraggio di muoversi su un crinale in cui generi musicali diversi possono incontrarsi ma anche collidere in maniera fallimentare, merita la considerazione che è dovuta a tutti coloro che si incamminano su sentieri sconosciuti.

La versione “country” della musica dei Jefferson Airplane è un omaggio alla cultura profonda da cui il gruppo sa di venire, quando non di appartenere sostanzialmente, ma anche una strenua critica agli stereotipi più comuni che nei testi (questa volta sì) vengono svillaneggiati al massimo livello, con quell’ironia che sembra andata perduta negli anni, e non solo negli Usa. I Jefferson Airplane (poi diventati Jefferson Starship) rappresentano la parte migliore di una cultura musicale che vuole aprirsi a quelle tematiche che forse non sono “à la mode” ma riguardano persone in carne e ossa, con i problemi quotidiani che le accomunano tutte.

Poi, si potrebbe citare il Bruce Springsteen di Tougher Than the Rest che racconta la periferia americana del sabato sera, e quindi ancora le “ballrooms” (“Some girls, they want handsome Dan, or some good loocking Joe”); e anche qui siamo in pieno ambito “country”.

Certi stereotipi, a volte, sono più veri del vero. Il texano con il cappello da cowboy in testa e nelle mani una chitarra è tanto una figura consolidata nell’immaginario collettivo che sembrerebbe essere impossibile da vedere nella realtà. Agli scettici, in questo senso, si può suggerire un tour a partire da qualunque brano country, in quel mare magnum costituito da YouTube. Scoprirà come certi personaggi non compaiono solo in telefilm americani ormai datati, ma sono interpretati senza alcuna remora, da contemporanei “patriottici cittadini americani”. E questo, a ben vedere, è la parte oscura di una musica che è abbastanza versatile da sapersi coniugare con opzioni culturali anche opposte.

Del resto, è una vecchia storia. La cultura popolare esprime quello che può. E, nella maggior parte dei casi, può veramente poco.

Immagine: RCA Victor, Public domain, via Wikimedia Commons

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