di Laura Baldelli
Cinema per pensare e ragionare di scuola e educazione.
Quest’anno già tre film nelle sale che raccontano storie di scuola e educazione: The Holdovers di Alexander Payne, La sala professori di İlker Çatak e Un mondo a parte di Riccardo Milani, che ci proiettano in epoche e mondi diversi.
Qualcuno avrà da ridire inorridito per l’accostamento del film italiano, che per giunta è divertente, ai due candidati all’Oscar, ma pur non avendo lo stile e soprattutto i capitali d’investimento, ci offre però una realtà sincera su cui riflettere, dopo anni di disprezzo, ludibrio, diffamazione nei confronti dei lavoratori della scuola, i nuovi proletari laureati e specializzati, chiamati in prima linea a fronteggiare in solitudine i danni del capitalismo neoliberal.
The Holdovers è un buon film da molti punti di vista: la storia, di grande gradevolezza narrativa e di efficace interpretazione, è ambientata in un college americano nel 1970, dove fuori dalla didattica scatta a sorpresa un percorso di formazione, che è appunto una lezione di vita reciproca, tra un giovane allievo ed un prof di letteratura classica; Paul Giamatti ci offre un’interpretazione superba, come l’esordiente Dominic Sessa, ma l’Oscar l’hanno assegnato a Da’Vine Joy Randolph, tanto per sembrare politicamente corretti. Il film ha una colonna sonora d’epoca selezionata da Mark Orton, autore anche dei brani originali, che ci fa scattare subito un’immensa nostalgia, spingendoci dentro un’immersiva esperienza musicale e dentro la storia.
Ma l’esigenza più forte per riflettere viene dai due film europei, perché ci aprono uno squarcio sulla scuola tedesca e italiana dei nostri tempi, nata dalle direttive dell’UE, tracciate dalla conferenza di Lisbona del 2000, in cui prendono forma le scelte neoliberiste del trattato di Maastricht, “per promuovere lo sviluppo dei sistemi formativi europei dell’istruzione e della formazione professionale per affrontare le sfide della globalizzazione”, come recita il testo. Un programma per il primo ventennio di inizio millennio dal titolo: “Società della conoscenza, capitale umano ed apprendimento permanente”; a questo titolo abboccarono in molti, fermandosi alle parole, senza collegarle ai principi di Maastricht della svolta tutta economica di indirizzo neoliberal, funzionali al libero mercato e ai poteri finanziari, con l’intento di spazzar via il welfare state che aveva caratterizzato molta parte della civiltà e dello sviluppo europei. Ne è scaturita una scuola basata sull’individualismo, spacciato per libertà, in cui i sistemi educativi abdicano al ruolo di produttori di saperi, al ruolo educativo che fa emergere talenti nell’uguaglianza, assoggettandosi invece al capitalismo e ai dettami dell’aziendalismo nella logica della flessibilità nel mito della concorrenza e della competizione, piuttosto che della cooperazione, che ci vuole soprattutto consumatori e non cittadini.
I due film europei hanno in comune l’evidente stretto legame tra scuola e società, l’una specchio dell’altra.
Film lontani tra loro per stile: uno sceglie l’intenso racconto drammatico, mentre l’altro ripercorre, con moderna sapienza, la commedia all’italiana per raccontare i drammi del nostro Paese; ma far ridere…seriamente, non è facile, richiede talento, per cui terrò fuori ogni pregiudizio sulla commedia all’italiana, a cui va anche il merito di essere stata lo specchio sociologico della nostra Storia.
La sala professori del regista tedesco di origini turche İlker Çatak, non smentisce l’eccellente filmografia del gruppo di cineasti come Fatih Akin, Yasemin Samdereli, nati dal melting pot dei decenni passati, che hanno dimostrato originalità e straordinario stile narrativo. Il film fotografa il dramma dell’istituzione scolastica tedesca, svelandoci molte sfaccettature dell’istruzione, dell’educazione, dell’insegnamento, della società e della famiglia: una scuola e una classe multietnica, con docenti immigrati, tutti di seconda generazione, dove emergono problemi di relazione tra adulti e tra ragazzi; un mondo conflittuale segnato da un profondo e radicato individualismo, generato da una falsa legalità, fatta di regole dettate da quel mostro chiamato “privacy”, baluardo dell’individualismo, che provoca il coalizzarsi delle persone solo per scagliarsi contro capri espiatori. Una società, un’istituzione scolastica che hanno perso il senso di comunità e di cooperazione. Questo detta il neoliberismo.
La sceneggiatura del film, scritta da İlker Çatak e Johannes Duncker è ben costruita snodandosi come un thriller, distraendoci nel cercare il colpevole per punirlo perché ha infranto le regole, ma gli elementi di cui parlare sono altri: non è ragionare su quale atteggiamento sia più educativo, bensì sulle reazioni di tutte le persone coinvolte. L’intensa Leonie Benesch è totalmente dentro il ruolo di docente, che opera nella più assoluta solitudine pedagogica, perché quelli che dovrebbero essere i principi fondanti dei docenti, la cooperazione e la condivisione di obiettivi educativi, è imbrigliata invece attorno alle regole dei piani di lavoro, del patto educativo fondato sulla privacy e sulla legalità, nel terrore di infrangere diritti formali.
Questo è quello che si vive anche nella scuola italiana, da anni sotto il giogo di rendicontazioni, false cooperazioni, protocolli, Iso 9001 che detta certificazioni di qualità, che imbrigliano la libertà didattica, creando false aspettative alle famiglie e trasforma docenti in impiegati di concetto.
Fuori rimangono l’empatia, la passione, la comprensione umana, la creatività, le due categorie della conoscenza spazio e tempo a dimensione umana e soprattutto i saperi per la vita.
La protagonista, anche se ben strutturata e pienamente convinta del rispetto della dignità umana, ha dei momenti di cedimento, perché attaccata su tutti i fronti, ma non perderà la sua umanità. Nel film emerge tra le righe come si sia sviluppata la convivenza e l’integrazione dei migranti su quelle regole imposte dal capitalismo, che costruiscono una pseudo uguaglianza, fatta dall’omologazione sui consumi, rendendoci tutti uguali nei desideri, nei problemi, nei comportamenti.
Il film non ci dà delle risposte, rispettando la libertà d’insegnamento che esige dai docenti di modulare ogni volta la propria postura pedagogica di fronte alle persone e alle situazioni.
Bellissime sono le lezioni della protagonista che insegna sia matematica, che educazione fisica, con il metodo didattico costruttivista, in cui il percorso di conoscenza è intrapreso collettivamente, dando luogo a lezioni-scoperte, frutto di ricerche collettive. Così s’impara a pensare in autonomia e di questo è interessante discutere, non tanto sul rigore dell’applicazione delle regole della legalità, specie se è fatta di quei lacciuoli che paralizzano e limitano.
Regia, sceneggiatura, fotografia e montaggio perfetti, ne fanno un ordito coerente e coinvolgente, tra la tragedia greca e il rigore narrativo nordico; a lungo ci rimane negli occhi, nella mente e nel cuore il volto di Leonie Benesch, che anche senza parole esprime intensamente ogni stato d’animo. La vediamo sempre dentro la scuola, perché insegnare è un lavoro totalizzante, non sappiamo nulla di lei, conosciamo però come soffre, come si appassiona, come rispetta le persone. Avrebbe meritato un Oscar.
Peccato che questo film si sia trovato tra La zona d’interesse, Povere creature e Oppenheimer, perché meritava molta più attenzione sia stilisticamente che per i contenuti.
Il film italiano di Corrado Milani ci immerge invece tra le nevi d’Abruzzo, davvero “Un mondo a parte”, in cui ritorna cinematograficamente dopo Il posto dell’anima del 2003, il primo film sul lavoro in Italia, dopo anni di silenzio, in cui si racconta il dramma della disoccupazione e della desertificazione industriale, nonché della conseguente migrazione.

Ritroviamo Antonio Albanese, ma lo stile è quello della commedia, che nulla toglie al realismo dei problemi veri: lo spopolamento dei comuni dell’entroterra perché non c’è lavoro, l’immigrazione, il turismo di massa, le scuole, unico presidio di comunità, cultura, educazione e presenza dello Stato, che chiudono.
Albanese è sempre una garanzia, sia per i drammi che per ridere di gusto e non si smentisce, chi sorprende è Virginia Raffaele, così credibile come maestra vice-preside, madre e moglie tradita, intristita ma agguerrita, che si batte con tutta se stessa contro la chiusura della scuola, composta da una sola pluriclasse. Albanese nella parte di un maestro della periferia romana, esausto di alunni disinteressati e genitori arroganti, chiede l’assegnazione provvisoria in uno sperduto paesino nell’Appennino abruzzese per ritrovare nella natura la pace e un’umanità genuina, convinto che esista una realtà bucolica, in cui sia possibile sia la sostenibilità ambientale che quella con gli umani. Fa i conti invece con una realtà tutt’altro che idilliaca, desertificata, dove tutti sono costretti a scappare, i pochi sono induriti e infastiditi dai “cittadini” come lui, che arrivano in massa per il fine settimana e se ne ripartono senza aver capito nulla del luogo, vissuto solo come un parco avventura. La scuola rischia la chiusura perché una volta usciti gli alunni di V non ci sono nuovi iscritti. Sarà la maestra Agnese, magistralmente interpretata da Virginia Raffaele, che oltre che soccorrere il maestro cittadino dalle tormente di neve, con uno straordinario escamotage salverà con lui anche la scuola, ultimo presidio dello Stato. Ma in mezzo a tutto questo ci sono i bambini e la straordinaria partecipazione della popolazione di Pescasseroli, che Milani dirige con maestria, giocando con il dialetto, le peculiarità abruzzesi schiette e pungenti, e i modi di dire carichi di ironia; la scelta del dialetto è determinante, accattivante, irrinunciabile e Virginia Raffaele ne è interprete.
Per far ridere con intelligenza occorre talento, creatività, senso del ritmo sostenuto dal montaggio.
Siamo veramente in “un mondo a parte”, come recita il titolo del film, che possiamo definire una commedia sociale che fotografa un mondo in bilico tra spopolamento e “restanza”, come prova a dire Albanese, citando il libro di Vito Teti, che ha creato un neologismo per parlare dell’antropologia del restare. Milani finalmente distrugge la retorica del turismo eterodiretto nei borghi per turisti intellettuali, mettendo in evidenza la piaga dell’inganno “si porta economia in un luogo dimenticato”, che necessita invece della presenza dello Stato, perché tutti i cittadini hanno il diritto costituzionale delle pari opportunità. La storia mette anche in luce la grande contraddizione italiana che vede spopolarsi l’Italia di giovani e non solo, mentre accoglie migranti da ogni dove. Anche nella minuscola pluriclasse nella piccola scuola tra i monti arrivano le bordate dei maestri con le cattedre spezzettate sul territorio, maestre e maestri jolly, capaci di insegnare di tutto, a ore naturalmente, perché ormai tutto si programma e progetta per ore. Non c’è tempo neanche tra “i borghi”.
Forse oggi la scuola italiana, dove non c’è stato ministro o premier che non abbia lasciato le proprie impronte e riforme o meglio controriforme, è da decenni il luogo della Resistenza: eppur s’insegna! nonostante lo storytelling, la flipped classroom, il peer to peer, il debate, l’E-learning, il Clil, dove la lingua del capitale spodesta la lingua italiana.
Come ha detto Albanese: “gli insegnanti sono degli eroi in prima linea”.
Ma non basta: l’unico segmento di scuola che andava riformato nei contenuti, è la secondaria di secondo grado, riformulando epistemologicamente i saperi, mentre invece da Luigi Berlinguer in poi, si è pensato a fare economia per foraggiare la scuola privata e a creare istituti scolastici funzionali alle scelte temporanee del capitale, separando sempre di più la formazione umanistica da quella tecnica, confondendo la scienza con la tecnica, come se lo studio di ogni disciplina non si basasse sull’approccio scientifico. Dopo la conferenza di Lisbona tutta la scuola italiana ha girato intorno al falso problema di “conoscenza e competenza”, ha creato l’inganno della formazione scuola-lavoro, ed è stato intensificato l’attacco alla classe docente: lavoratori fannulloni, sempre in ferie, che insegnano noiosamentesciocche ed inutili discipline.
Va di moda la lezione-spettacolo nella società dello spettacolo.
Ma la maggior parte degli insegnanti non ha consapevolezza del proprio sfruttamento, né sponde sindacali per le lotte, ma china la testa e risponde al preside manager dai poteri assoluti; a volte non c’è neanche spazio per la propria disciplina, perché ormai la scuola è un progettificio, dove tutto può entrare, meno la conoscenza. Si studia pochissimo e male, soprattutto la Geografia e la Storia; ma non è solo opera dei neofascisti oggi al governo, perché l’involuzione culturale e il revisionismo storico hanno fatto da padroni, spesso suggeriti dalla pseudo sinistra, che insegue una pacificazione impossibile, che produce i libri di testo che mistificano la verità dei fatti storici, che privati di confronto storiografico non offrono neanche un contraltare, per cui: l’Europa l’hanno liberata gli alleati, le foibe furono opera dei comunisti e paragonate alla Shoah, gli italiani sempre brava gente, l’esperienza della società socialista sovietica è tra i totalitarismi come fascismo e nazismo, l’Ue e l’euro ci hanno salvato e dato la libertà di viaggiare. Provate a insegnare il contrario e vediamo che succede al docente, e non da oggi; rispondo con una frase in voga questi giorni: “la storia non si querela, si studia”.
Il cinema ci ha dato la provocazione per parlare del mondo della scuola e ora sia di stimolo per approfondire!
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