Il Congo dopo le recenti elezioni

di Nunzia Augeri

Alle elezioni del dicembre scorso, il presidente Tshisekedi è stato riconfermato a capo del governo del Congo, ma la situazione resta drammatica: violenze, guerre, sfruttamento clandestino delle grandi ricchezze minerarie, coltan e cobalto in primo luogo, causano migliaia di vittime e di profughi, malgrado la presenza di truppe dell’Onu e della Sadc, che dovrebbero garantire pace e sicurezza.

Le recenti elezioni del dicembre scorso nella Repubblica Democratica del Congo hanno confermato nel ruolo di presidente della Repubblica Felix Tshisekedi, il presidente uscente, con il 73% dei voti a suo favore. Le elezioni sono state ampiamente contestate sia dal principale oppositore, Moise Katumbi, che ha avuto il 18% dei voti, sia dagli osservatori internazionali presenti sul territorio.

La situazione nel paese non è certo facile: solo sul piano geografico, la Repubblica occupa 2.345.000 chilometri quadrati (circa otto volte l’Italia) nel bacino del fiume Congo, con un territorio coperto da una fitta foresta equatoriale dove le vie più sicure sono quelle di acqua; vi risiedono circa 108 milioni di abitanti (erano 20 milioni negli anni 60), di cui circa 60 milioni gli elettori, per i quali erano stati previsti 75.000 seggi elettorali. Solo per la distribuzione e il recupero delle schede elettorali dei luoghi più lontani il governo ha dovuto chiedere l’aiuto degli aerei dei peacekeepers dell’Onu presenti nel paese. Nella zona di Goma, nella parte orientale del paese, 1.700.000 elettori non hanno potuto votare per il persistente stato di guerra. Dal voto sono stati esclusi altri 7 milioni di cittadini, fuggiti dalle zone di guerra e dispersi in diverse regioni. L’opposizione chiede quale percentuale di elettori deve mancare per poter ritenere non valide le elezioni.

Oltre a ciò, gli osservatori di una commissione formata a cura delle Chiese cattolica e protestante hanno constatato diversi casi di irregolarità che potrebbero invalidare il risultato elettorale: molti seggi – circa il 60% – si sono aperti con grave ritardo e almeno 11.000 seggi sono rimasti del tutto chiusi; milioni di elettori sono stati in coda per ore e molti hanno rinunciato al voto; molti non hanno trovato il proprio nome sulle liste e non sono stati ammessi alla votazione; in alcune zone i seggi sono rimasti invece aperti per un giorno in più, o addirittura per sei giorni.

I sostenitori di Tshisekedi affermano che il presidente uscente ha vinto perché nel quinquennio precedente l’economia ha avuto una crescita costante, e ha promesso che l’istruzione primaria sarebbe stata resa gratuita. Inoltre il suo oppositore, Katumbi, un uomo d’affari nato in Congo da padre congolese e madre greca, è stato presentato come uno straniero alleato del Rwanda, che appoggia i ribelli del Kivu, permettendo a Tshisekedi di presentarsi come difensore della sovranità del Congo.

La cosa più certa è che il presidente si trova di fronte a un compito non facile: di fatto, la Rdc è in crisi profonda fin dal tempo della sua indipendenza, nel lontano 1960, per guerre, scontri interni e problemi politico-economici intrecciati. La maledizione del Congo è di fatto – paradossalmente – la sua enorme ricchezza mineraria. Ieri erano alla ribalta il petrolio e i diamanti; oggi – fermo restando che oltre a quelli non mancano oro, argento, uranio, rame e zinco – sono venuti in primo piano il coltan e il cobalto. Del coltan e terre rare il Congo possiede il 70% delle riserve mondiali, e del cobalto fornisce il 60% della produzione mondiale.

Il coltan è una lega di due elementi molto rari, columbite e tantalite. E diventato indispensabile per fabbricare computer e telefoni cellulari, per ottenere superconduttori e acciai inossidabili speciali per l’industria aeronautica e aerospaziale, nonché per la produzione bellica di satelliti, missili e le armi più moderne. E ricercatissimo anche dall’industria automobilistica, giacché la crescente domanda di vetture elettriche richiede un gran numero di batterie di lunga durata, e per produrle sono necessari sia il coltan che il cobalto. Per l’estrazione del coltan non è necessario scavare in profondità, giacché il minerale si trova in superficie o appena sotto. Viene raccolto da minatori che lavorano in condizioni di fatto schiavistiche e anche da un gran numero di minori, dato che a volte è necessario scavare delle gallerie dove bambini e ragazzi possono infilarsi più agevolmente. I minatori sono sottoposti a un intenso sfruttamento che ne provoca la morte prematura per la grande fatica; trattando poi il minerale a mani nude, sono esposti a malattie che attaccano cuore, cervello, epidermide, circolazione del sangue, provocando danni all’apparato digerente e alle cellule ematiche oltre che all’apparato riproduttivo, così da determinare difetti genetici nella discendenza.

Quanto al cobalto, esso è noto fin dall’antichità quando veniva usato per la lavorazione della ceramica e del vetro, cui presta la colorazione blu. Oggi si usa in primo luogo per la fabbricazione di acciai resistenti a usura e alte temperature, e per costruire batterie di cui costituisce il polo positivo; di tali batterie è aumentato esponenzialmente il fabbisogno sia per i telefoni cellulari che per le auto elettriche. Il 90% del cobalto congolese è sfruttato da due grandi imprese, la Glencore, una società anglo-svizzera, e la China Molybdenum, una impresa cinese di proprietà statale. Il restante 10% proviene da attività artigianali, spesso fuorilegge. Ma mentre la Glencore impiega 15.000 dipendenti, le miniere artigianali occupano circa 200.000 lavoratori, di cui un’ampia percentuale di minorenni; i minatori lavorano in pozzi scavati a mano dove sono comuni gli incidenti: le gallerie crollano, le pompe che vi immettono l’aria si guastano; il minerale viene trasportato a spalla fino al fiume più vicino per essere lavato e poi trasportato o sui corsi d’acqua o in moto. Le nostre auto elettriche e in genere la transizione verde occidentale costano molto caro, in termini di miseria, malattia e morte.

Nella parte orientale del Paese, al confine con il Rwanda, dove maggiore è il concentramento di cobalto, si rifugiò un gran numero di Hutu, responsabili del genocidio dei Tutsi del 1994; essi formarono là il gruppo M23, che nel 2012 conquistò la città congolese di Goma, lasciandola peraltro nel 2013. Con gli anni, ai gruppi armati ruandesi si sono aggiunti anche bande provenienti dall’Uganda – che a sua volta confina sia con la Rdc che con il Rwanda – che sfruttano le miniere clandestine di cobalto; il minerale viene esportato illegalmente e “legalizzato” nei rispettivi paesi, e poi rivenduto all’estero con enormi margini di guadagno.

Altri gruppi armati imperversano nella zona: un gruppo legato all’ISIS, un altro del Burundi che consta di 1.000 uomini, nonché le milizie del Wazalendo, termine swahili per “patrioti”, un gruppo armato, indipendente dall’esercito ufficiale ma egualmente sostenuto dal governo congolese, il cui comportamento non pare all’altezza dell’epiteto di “eroi” di cui Tshisekedi li gratifica. Pare che le bande armate di ribelli stranieri o criminali comuni, tutti interessati al commercio dei minerali, siano attualmente più di cento. Sono presenti anche 1.000 mercenari romeni, e altri mercenari europei, fra cui ex appartenenti alla Legione straniera francese, che secondo il presidente non sono combattenti ma si limitano al ruolo di istruttori dell’esercito ufficiale.

La missione di peacekeeping della Nazioni Unite, presente in Congo dal 2005 con un costo di un miliardo di dollari all’anno, aveva il compito di proteggere i civili e garantire la sicurezza, ma non è riuscita a svolgerlo e ha iniziato il ritiro dei propri 15.000 militari lo scorso febbraio; all’inizio di quest’anno è subentrata una missione militare della South African Development Community (Sadc) che consta di 2.900 militari del Sudafrica, più altre forze provenienti da Malawi e Tanzania, il cui compito è supportare il governo congolese per sradicare le bande armate dell’est e riportare pace, sicurezza e stabilità nella regione.

Un guazzabuglio su cui è molto difficile intervenire per stabilire una pace duratura, ma che può invece dar luogo a una vera e propria guerra che perfino gli Stati Uniti temono fortemente, pur avendo recentemente favorito un accordo di cessate il fuoco provvisorio. Si calcola peraltro che negli anni lo stato di guerra strisciante e le continue violenze sui civili abbiano causato la morte di circa 15 milioni di persone, uccise non solo dalla guerra ma da fame e malattie. Di fatto 15,6 milioni di persone sono in stato di grave insicurezza alimentare, e nei grandi agglomerati di sfollati interni – che ammontano a circa 6,5 milioni – imperversano colera, morbillo, febbre gialla e d è anche ritornato l’ebola.

La violenza incombe anche all’interno della società congolese, formata da due grandi gruppi di popolazione, bantu e sudanesi, ognuno dei quali è diviso in diverse etnie, che parlano rispettivamente 270 e 50 lingue diverse. Perfino un episodio apparentemente felice come la recente restituzione da parte del Belgio di una maschera sacra sottratta al tempo coloniale ha provocato seri disordini fra il popolo Teke e i suoi vicini, gli Yaka e i Suku, nella regione di Kwamouth, a nord della capitale Kinshasa. La maschera Kakungu, di legno intagliato, è un antico simbolo di guerra e si crede che abbia poteri magici, per cui chi la detiene diventa invulnerabile e capace di sparire. Il ritorno della maschera ha spinto Yaka e Suku ad assaltare i vicini Teke, con un saldo ufficiale di 300 morti, che secondo alcuni osservatori internazionali sono invece 3.000, e di 160.000 profughi. Il conflitto peraltro ha radici ben più serie: Yaka e Suku per lungo tempo sono stati costretti a pagare una tassa – che consideravano ingiusta – ai capi tradizionali Teke per poter coltivare dei terreni che questi rivendicavano di loro proprietà. Solo l’intervento dell’esercito ha fatto cessare gli scontri.

L’altro settore critico del Paese è l’economia. Malgrado una costante crescita negli ultimi anni, dovuta all’aumento costante del prezzo dei minerali che la Rdc esporta in abbondanza, il popolo vive nella più grande povertà: il 70% della popolazione, cioè circa 70 milioni di persone, vive sotto il livello di povertà su una magra agricoltura di sussistenza; la percentuale di analfabetismo raggiunge il 40% circa, il reddito pro capite ammonta a soli 1.100 dollari all’anno. La situazione è resa più complicata da un alto tasso di incremento demografico che registra 40,08 nati per 1.000 abitanti (quello italiano è di 6,95 nati per 1.000), con una mortalità infantile che raggiunge peraltro l’83 per mille; la speranza di vita supera di poco i 50 anni.

Per migliorare il suo Pil, la Rdc dovrebbe raffinare i minerali al suo interno, ma per riuscirci sarebbe necessario disporre di energia elettrica a buon prezzo. Oggi la produzione è molto ridotta e ancora circa l’80% della popolazione non dispone di elettricità: l’unica speranza sarebbe la grande diga Inga, ma il ministro delle finanze Nicolas Kazadi ammette che i tempi per la realizzazione non sono ancora neppure accennati. Un ulteriore sviluppo economico è in parte ostacolato dalla difficoltà di connessione internet, dato che i maggiori sistemi di cavi sottomarini che servono l’Africa passano per il canyon del Congo, una delle principali fosse sottomarine del mondo, e sono facilmente danneggiabili dalle correnti che vi riversano immense valanghe d’acqua: dal 2020 a oggi sono stati sette gli episodi di rottura dei cavi.

Perché la ricchezza mineraria si traduca in strade, scuole, ospedali e migliori opportunità di lavoro per la popolazione bisogna inoltre intervenire su quello che costituisce il cancro della società congolese: la corruzione. E qui il compito del presidente è ancora più arduo: le leggi che sono state ripetutamente promulgate non hanno scalfito il fenomeno, e la violenza imperante nel Paese rende più debole lo Stato e le sue strutture. Le giovani generazioni non hanno alcuna fiducia nella classe politica.

Nei primi mesi di quest’anno, sotto il secondo mandato di Tshisekedi, tre militari sudafricani della missione Sadc sono stati uccisi nella zona di Goma ad opera dei ribelli del gruppo M23. In febbraio un drone lanciato dal Rwanda ha danneggiato l’aeroporto di Goma e un drone delle forze di peacekeeping dell’Onu è stato distrutto da un missile antiaereo sempre del Rwanda. Nel 2012, quando il Rwanda occupò la città di Goma, i donatori stranieri bloccarono il fondo di 240 milioni di dollari destinato allo sviluppo del Paese; oggi invece sembra che la comunità internazionale approvi l’operato del Rwanda e perfino gli aumenti gli aiuti. Il 19 febbraio scorso la Commissione Europea ha firmato un memorandum di intesa con Kigali per lo sfruttamento di materie prime strategiche; a Goma la folla ha bruciato le bandiere della Francia e degli Stati Uniti per protestare contro l’indifferenza dell’Occidente.

Negli ultimi mesi circa 135.000 persone sono fuggite dal Nord Kivu dove imperversano gli scontri, e si sono installate nei pressi di Goma, in campi improvvisati sulla nuda roccia vulcanica, senza alcun aiuto, fra fame, sete e malattie: infatti imperversa il colera e potrebbe tornare l’ebola. Le scuole sono chiuse e circa 750.000 minori sono rimasti privi di istruzione. La città è ora isolata dal resto del Paese giacché il gruppo M23 ha occupato tutte le strade di accesso, e l’unica strada rimasta aperta è quella che conduce al confine verso il Rwanda: non precisamente la salvezza. Politici e diplomatici paventano una inevitabile escalation che porterebbe ad aumentare il numero dei profughi ed aumentarne la miseria. Le bombe sono cadute sui campi profughi facendo centinaia, se non migliaia di vittime civili, fra cui un numero imprecisato di minori. Non c’è alcuna traccia di ottimismo: la violenza imperversa, delle ricchezze del Paese una minima parte resta nelle mani dei signori della guerra e di pochi privilegiati, mentre la parte più consistente finisce nelle mani degli stranieri avidi dei preziosi materiali. La guerra, o meglio le guerre, le cui cause vengono spesso fatte risalire a dissidi interetnici o religiosi, sono mosse realmente dalla avidità di lucrare sulla vendita dei minerali più ricercati e continuano a insanguinare il Paese. Prevedibilmente, la tragedia del Congo può solo peggiorare, ma noi avremo le nostre verdi auto elettriche: nelle loro batterie ci sono le immani sofferenze di un Paese di cento milioni di esseri umani.

Immagine: MONUSCO Photos, CC BY-SA 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0&gt;, via Wikimedia Commons

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