DIBATTITO
Campagna articolo 18: referendum o conflitto?
di Leonardo Locci
Occorre riaffermare la necessità del conflitto sociale come metodo di conquista e riconquista dei diritti del mondo del lavoro dipendente, rifiutando il modello di democrazia borghese che di buon grado accetta le sfide nella quiete delle urne perché sa di poter contare sulle capacità di manipolazione della opinione pubblica.
Un diritto fondamentale per il mondo del lavoro, vale a dire il diritto di riacquisire il posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, è oggi oggetto di campagna referendaria con la raccolta firme per la sua proposizione da parte della Cgil.
Al riguardo è necessario una seria riflessione su ciò che rappresenta, negli attuali rapporti di forza sociali, la prospettiva del metodo referendario ai fini della riconquista, in questo caso, di un diritto perduto con il Job Act di Renzi.
Nel fare questo non possiamo non tenere conto della precedente esperienza referendaria del 1985 quando, con il governo Craxi, il quesito era impostato sul ripristino di 4 punti di contingenza cancellati di imperio con il decreto-legge n° 70/84 (ricordato come l’accordo di San Valentino), convertito nella legge n° 219 del 12 giugno 1984. Allora il referendum fu proposto dal Pci di Berlinguer ma osteggiato dalla Cisl di Carniti, dalla Uil di Benvenuto e dalla componente socialista della Cgil rappresentata da Del Turco.
Successivamente all’accordo di San Valentino il clima sui luoghi di lavoro fu di forte conflittualità, che sfociò in numerosi scioperi, manifestazioni e interruzioni di comizi sindacali tenuti a 4 mesi dall’accordo di San Valentino (il 26 giugno 1984) dalla Uil e dalla Cisl a Milano e Bari rispettivamente, con lancio di bulloni e lattine sui palchi dei sindacalisti favorevoli alla cancellazione dei punti di contingenza, costringendoli ad abbandonare i comizi.
Oltre a questi termini accesi di conflittualità a fare ben sperare sull’esito del referendum c’erano i risultati del sondaggio condotto dall’agenzia Swg, il 15-16-17 marzo 1985, circa 70 giorni prima del referendum effettuato il 9-10 giugno 1985, che dava il “sì” vincente col 73,1% tra gli operai, il 60% tra gli impiegati pubblici, il 54,4% tra i lavoratori privati in genere, 58,6% tra gli insegnanti, il 56,5% dei lavoratori autonomi, il 63,3% dei lavoratori dell’industria ed il 57,9% dei lavoratori del terziario.
Un altro elemento che determinava il clima ottimistico sul risultato referendario era costituito dal fatto che il Pci sentiva il vento in poppa per il risultato notevole alle elezioni politiche del 1983, nelle quali aveva conseguito ben il 33,3% di consensi.
A stemperare l’ottimismo c’erano le perplessità di Luciano Lama che, rivolto ai suoi dirigenti sindacali, in una intervista rilasciata a Giampaolo Pansa, dichiarava “… Guardate che non è per niente sicuro che lo vinciamo. Può darsi che la maggioranza dei lavoratori dipendenti sia per il SI, ma siccome il referendum non è tra i lavoratori dipendenti, bensì tra i cittadini della Repubblica Italiana, il rischio di perdere è molto forte, perché quelli interessati alla difesa della scala mobile sono una minoranza robusta, ma sempre una minoranza. ….”
Lo scetticismo di Lama era accompagnato dall’attivazione della campagna di mistificazione sulla scala mobile che aveva portato alla manifestazione nazionale promossa da Marini (Cisl), Del Turco (componente socialista Cgil), Benvenuto (Uil), Scotti (vicesegretario Dc) e Martelli (vicesegretario Psi). Oltre a questa passerella nazionale si misero a disposizione pennivendoli di regime e intellettuali prezzolati per enfatizzare i dati che dimostravano l’abbassamento dell’inflazione conseguente al taglio degli scatti di scala mobile.
La campagna per il “no” referendario enfatizzava una ovvietà, e cioè che se uno dei due fattori che determinano la spirale dell’inflazione, prezzi e salari, cessa di esistere (cioè cessa la rincorsa dei salari rispetto alla crescita dei prezzi), è ovvio che la spirale rallenta, ma ciò avviene semplicemente perché uno dei due fattori rimane al palo, in quel caso i salari.
La mistificazione della campagna per il “no” referendario fondava la propria argomentazione su due elementi: il primo che la scala mobile era una causa dell’inflazione, non una conseguenza come in realtà era; il secondo sul maggiore potere di acquisto che avrebbe conservato la lira con una minore inflazione, mettendo in ombra il fatto che contestualmente la quantità di lire a disposizione del salario sarebbe stata inferiore in rapporto all’inflazione corrente.
Erano argomentazioni facilmente smontabili, in quanto si scontravano con l’evidenza di una contingenza che recuperava a posteriori un’ inflazione già aumentata per conto suo; un recupero alla conclusione di un periodo di riferimento, che inizialmente era trimestrale ed in seguito divenne semestrale, e solo al termine di tale periodo si quantificava la crescita dell’inflazione determinata nel mentre dai fattori speculativi di mercato, determinando i punti di contingenza da inserire nei salari tali da recuperare parzialmente, neppure totalmente, il 75% dell’inflazione già determinatasi.
Quello della contingenza era evidentemente una conseguenza, non causa, dell’inflazione. Il suo meccanismo funzionava in modo tale che, in linea ipotetica, a fronte di un blocco di prezzi e tariffe sul paniere di riferimento e nel periodo di riferimento, gli scatti di incremento di scala mobile sarebbero stati pari a zero.
Ma tant’è che la martellante campagna mistificatrice per il “no” fu in grado di ribaltare le previsioni dei sondaggi antecedenti il referendum, facendolo vincere nella votazione che portò alle urne il 77,9% dei cittadini della Repubblica Italiana aventi diritto al voto, in cui il 53,3% si espresse per il “no” ed il 45,7% si espresse per il “sì”. In Lombardia il “no” arrivò al 61,3% e a Milano, dove Benvenuto fu precedentemente bersaglio dei bulloni e dovette interrompere il suo comizio, il “no” al referendum arrivò 57,1% e il “sì” al 42,9%.
Significativi furono i commenti di Lama: “È successo che siamo andati peggio nelle regioni dove il numero dei lavoratori dipendenti è più alto”, e di Carmelo Barbagallo, segretario della Camera Sindacale di Palermo, “Ha votato contro la contingenza chi ce l’ha e a favore chi non ce l’ha”.
Le conseguenze del referendum sulla scala mobile sono la cruda realtà odierna di 5,7 milioni di lavoratori poveri, di salari che in Europa sono gli unici ad avere perduto potere di acquisto rispetto a 30 anni fa, di file alla mensa dei poveri ingrossate dall’ex ceto medio e, soprattutto, di un pensiero dominante e un disarmo psicologico che accetta di concepire come tabù quello che ieri era un diritto. Oggi chi accenna al ripristino della scala mobile viene etichettato come uno fuori dalla realtà, che guarda al passato e non sta al passo coi tempi. Insomma, ha vinto l’ideologia del nemico di classe soprattutto perché ha indotto il mondo del lavoro all’impotenza e alla rassegnazione disarmandola psicologicamente perché, bellezza, questa è la democrazia delle urne che ha portato a mettere una pietra tombale sul diritto alla scala mobile.
Una democrazia referendaria che ha portato un diritto conquistato con le lotte cruente sui posti di lavoro e nelle piazze, non certo “crocettando” schede referendarie, a perderlo nella quiete dell’urna in cui ci viene fatto credere che la crocetta apposta dal lavoratore ha la stessa valenza di quella apposta dall’imprenditore. Con la piccola differenza che l’imprenditore si avvale del potere della finanza capace di condizionare e manipolare l’opinione pubblica.
Un’ indubbia vittoria conseguita dal nemico di classe fu quella di essere riuscito a spegnere il conflitto sociale, manifestatosi anche con il lancio dei bulloni contro chi remava per la cancellazione dei punti di contingenza, incanalandolo nelle ordinate a tranquille file ai seggi referendari affidando ad un “sì” o un “no” il destino di un diritto costato dure lotte.
Ma veniamo all’oggi della campagna referendaria sull’articolo 18, la cui valenza sociale è ancora superiore a quella del ripristino della scala mobile, su cui è stata posta una pietra tombale, secondo il punto di vista del nemico di classe.
Infatti, la posta in gioco oggi è il diritto al reintegro sul posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo; è in gioco il fondamentale diritto al lavoro stabilito dalla Costituzione all’articolo uno, un diritto che oggi è diventato una concessione datoriale negabile a capriccio in cambio di una mancia padronale.
Oggi il percorso referendario si svolgerebbe sotto un governo di destra in cui il controllo degli organi di informazione, con le relative capacità di condizionamento e manipolazione dell’opinione pubblica, è rigidamente nelle mani del nemico di classe.
Oltre a questo, la tempistica della proposta referendaria, attuata questa volta dalla Cgil, è piuttosto sospetta, odora di opportunismo strumentale perché il problema dell’articolo 18 è sorto con la prima manomissione della riforma Fornero nel 2012 e in seguito con la sua soppressione formale con il Job Act di Renzi nel 2015. Quindi stiamo parlando di un problema che sussiste da 12 anni, se ci rapportiamo alla Fornero, a 9 anni se ci rapportiamo a Renzi che all’epoca era ancora un Pd.
Come mai la Cgil ritiene che solo ora si debba sollevare la problematica e la sua soluzione la si vuole affidare al percorso referendario, nonostante l’esperienza bruciante di quello relativo alla contingenza del 1985?
È una scelta che sembra più un assist lanciato dalla Cgil ad un Pd che si trova oggi ingabbiato nell’impotenza di una sterile opposizione in cui non ha più argomenti per replicare ad una Meloni che ad ogni punzecchiatura della Schlein risponde di dare semplice continuità alle politiche dei governi precedenti condivisi dal Pd stesso, il che è vero.
Un Pd che oggi ha estremo bisogno di darsi una verniciata di rivendicazionismo perché siamo sotto elezioni europee, regionali ed amministrative e che, quindi, prontamente e platealmente sottoscrive la raccolta firme per il referendum promossa dalla Cgil.
Oggi come ieri sono già pronte le schiere di pennivendoli di regime ed intellettuali prezzolati per manipolare l’opinione pubblica enfatizzando la crescita occupazionale prodotta dal Job Act.
Accettare oggi di ripetere il percorso referendario affidando ad una crocetta su una scheda la riconquista di un diritto conquistato con le dure lotte degli anni ’68 e ’69 che portarono alla legge 300 del ’70 (Statuto dei Lavoratori), che prevedeva al suo interno l’articolo 18 a tutela rispetto i licenziamenti illegittimi, ebbene, accettare questo significherebbe peccare di ingenuità con la prospettiva di disarmare la conflittualità del mondo del lavoro dipendente mettendo una pietra tombale su un diritto la cui valenza sociale supera quello del diritto già perduto con il referendum di 39 anni fa sulla contingenza.
Oggi è necessario fare chiarezza sul pericolo rappresentato dal percorso referendario sulla base della esperienza del referendum sulla contingenza.
Occorre riaffermare la necessità del conflitto sociale come metodo di conquista e riconquista dei diritti del mondo del lavoro dipendente, rifiutando il modello di democrazia borghese che di buon grado accetta le sfide nella quiete delle urne perché sa di potere contare sulle capacità di manipolazione dell’opinione pubblica attraverso il controllo di tutti i mezzi di informazione.
È dovere dei comunisti sapere trarre esperienza dalla storia per non ripetere errori di ingenuità.
Immagine: Istituto Centrale per gli Archivi, Public domain, via Wikimedia Commons
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