Salario, scala mobile, riduzione d’orario

a cura del Dipartimento nazionale lavoro MpRC

L’esigenza del superamento dell’attuale e nefasta fase “concertativa” del sindacato confederale e la priorità della ripresa del conflitto capitale-lavoro.

La situazione dei salari in Italia è disastrosa; negli ultimi 40 anni il salario medio, nel nostro paese, che agli inizi degli anni ’90 era al di sopra della media europea, è piombato molto al di sotto, agli ultimi posti circa, pari alla Spagna e al di sopra solo di Portogallo e Grecia.

Se si confronta lo stipendio medio del 1990 e quello del 2020 l’Italia è l’unico paese in Europa che ha visto la sua entità diminuire del 2,9%, tutti gli altri paesi hanno registrato una crescita, quella più bassa è stata della Spagna dove, però, lo stipendio medio è cresciuto del 6,9%: come si vede la differenza tra l’Italia ed il paese con la minore crescita in Europa è del 10%.

Ma, in realtà, la situazione è molto peggiore di quanto può apparire da questi primi dati, perché il salario medio è calcolato da Eurostat con un metodo che altera la percezione della realtà: infatti, per esemplificare, se prendiamo un part-time al 50%, il metodo di calcolo dell’ente statistico europeo moltiplica il suo valore per due, come se fosse a tempo pieno e usa tale valore per calcolare la media.

Ben più significativo è il documento che ha elaborato la Cgil, utilizzando i dati dell’Inps: infatti, se per Eurostat il salario medio Italiano sarebbe al di sopra dei 38 mila euro lordi, per i dati Inps, nel 2022, era di 24.864 euro, questo perché l’Inps fa il calcolo sui salari effettivamente percepiti, per cui, nel caso dell’esempio di prima del part-time al 50%, l’Inps calcola solo lo stipendio effettivamente ricevuto, che è la metà di quello “teorico” calcolato da Eurostat.

Se si approfondisce l’osservazione si scopre che la situazione è ancora peggiore: per i 17 milioni di lavoratori del settore privato la media salariale è di soli 22.839 euro, questo dato così basso si spiega con i 7,9 milioni di lavoratori discontinui (tra cui gli stagionali) e 2,2 milioni di part-time.

In termini di stipendio questo significa che ci sono 5,7 milioni di lavoratori al di sotto degli 11.000 euro lordi annui (circa 850 euro netti al mese) ed altri 2 milioni al di sotto dei 17.000 euro lordi (circa 1.200 euro netti al mese).

Questo significa che un terzo dei lavoratori del settore privato ha un reddito mensile inferiore agli 850 euro ed un altro 12% è al di sotto dei 1.200 euro, cioè il 45% dei lavoratori del settore privato, in Italia, percepisce uno stipendio inferiore ai 1.200 euro. 

I dati appena citati si completano considerando che 2,4 milioni di lavoratori hanno un reddito sotto i 5000 euro annui (11,5% dei lavoratori italiani) e tra di loro 1,8 milioni sono retribuiti al massimo per 3 mesi, cioè si tratta di lavoratori stagionali.

Come abbiamo visto, questi sono dati del 2022, ma nel 2023, a fronte della forte inflazione e di aumenti salariali minimi, la situazione è ulteriormente peggiorata.

Emerge un quadro salariale complessivo tragico che riguarda tutti i lavoratori italiani, pubblici e privati, a tempo indeterminato e precari, ed è evidente che, prima di tutto, questo è il risultato della logica concertativa, che sta caratterizzando i sindacati confederali da quasi 40 anni in qua, una logica che si dimostra, in modo eclatante, completamente fallimentare.

Infatti, basta guardare il grafico dell’andamento del salario medio in Italia dal 1990 ad oggi per vedere che non ci sono stati aumenti significativi, né con i governi cosiddetti “amici” (cioè di centrosinistra) né con quelli di destra, quindi i lavoratori devono pretendere che la concertazione venga abbandonata e si apra un ciclo di lotte per un consistente incremento salariale, generalizzato, per tutti i lavoratori italiani.

Questo è il secondo aspetto importante che emerge dalla grave situazione in cui siamo: non è possibile che la questione salariale si possa risolvere categoria per categoria, nei singoli contratti; anche questa strada ha ampiamente dimostrato, negli ultimi decenni, di non portare risultati, ed è quindi necessario che tutti i lavoratori e tutti i sindacati aprano una fase di forte conflitto sociale e di scioperi con l’obiettivo di un consistente aumento salariale per tutti, che riporti i salari italiani almeno al di sopra della media europea.

Ma non c’è solo la questione salariale in campo, oggi, per i lavoratori del nostro paese, c’è anche la questione dell’inflazione.

Con l’abolizione della scala mobile, avvenuta ormai molti anni fa, i salari sono rimasti completamente indifesi rispetto all’inflazione.

Questo fatto è risultato estremamente evidente con la grande fiammata inflazionistica del 2022-23, determinata in larga misura da un’azione speculativa che ha portato ad un abbattimento molto forte dei salari, dato che, in Italia, gli adeguamenti sono stati minimi, i più bassi in Europa (per capirci, ribadendolo, la metà di quelli spagnoli), ma mentre i lavoratori dipendenti si impoverivano pesantemente, praticamente tutte le principali aziende italiane hanno registrato profitti da record, mai visti da molti anni a questa parte, dalle banche alle aziende energetiche, ma anche tutte le altre aziende, manifatturiere e non. I giornali di queste ultime due settimane sono pieni di articoli che esaltano i “risultati eccezionali” dei profitti realizzati dalle aziende e il grande aumento dei dividendi percepiti dagli azionisti.

Ancora una volta una parte importante del Pil prodotto nel nostro paese è stato tolto ai lavoratori per darlo agli imprenditori e agli azionisti.

Si poteva fare diversamente? Certamente! 

Si potevano limitare gli aumenti speculativi e frenare, così, l’inflazione, oppure adeguare i salari all’inflazione riducendo i profitti speculativi delle imprese e delle banche, che non sarebbero certo “fallite”, ma avrebbero visto solo diminuire i loro super profitti, mentre il governo in carica, come altri suoi predecessori, si è solo preoccupato di “impedire la crescita dei salari per non alimentare l’inflazione”, ma i salari non alimentano l’inflazione, semmai, cosa che non succede più da anni, la rincorrono dopo che si è già realizzata.

Anche quest’ultima esperienza disastrosa per i lavoratori e i ceti popolari, quella della forte fiammata inflazionistica del 2022 e 2023, dimostra che è necessario riconquistare un meccanismo automatico di recupero dell’inflazione per i salari e le pensioni, la famosa scala mobile.

Oggi solo due categorie di lavoratori hanno mantenuto un meccanismo automatico, per quanto non adeguato a recuperare totalmente l’inflazione, nei loro contratti: si tratta dei metalmeccanici e dei bancari.

Non è pensabile che questo possa valere solo per due categorie che, evidentemente, hanno più forza di contrattazione, ma qualunque sindacato che voglia sinceramente rappresentare il complesso del mondo del lavoro dovrebbe porsi il problema di aprire una vertenza complessiva per il ripristino di un meccanismo automatico di recupero dell’inflazione, per tutti i lavoratori e i pensionati.

Va ricordato che l’origine di questa rovinosa situazione, sia per quanto riguarda il salario che per la scala mobile, va rintracciata nell’Assemblea nazionale dei delegati sindacali di Cgil, Cisl e Uil di Roma, del 1978 (la cosiddetta svolta dell’Eur), in cui Luciano Lama dichiarò, per la prima volta, che il salario non poteva più essere considerato una variabile indipendente. Da quel momento le rivendicazioni dei lavoratori iniziarono ad essere subordinate alle esigenze delle imprese ed alla situazione economica “generale” del paese.

I contratti, per una fase, furono firmati sulla base della cosiddetta “inflazione programmata” che è sempre risultata significativamente inferiore a quella reale, contribuendo, così, ad una forte riduzione del salario reale dei lavoratori.

Senza contare il fatto che l’inflazione “ufficiale” è calcolata come la media degli aumenti di tutta una serie di prodotti, senza alcuna distinzione tra quelli fondamentali, come i generi alimentari, i costi energetici, i costi dei trasporti, della sanità, dell’istruzione ecc. e quelli di altri prodotti marginali, pur sapendo che gli aumenti dei generi fondamentali gravano molto di più sui redditi più bassi, determinando un impoverimento molto più marcato per questi settori sociali rispetto ad altri.

Altri meccanismi che sono stati introdotti, quanto meno per alcune categorie di lavoratori, si sono dimostrati una vera e propria “presa in giro”, come quello della “vacanza contrattuale” che assegna, provvisoriamente, ai lavoratori cui è scaduto il contratto una cifra pari circa ad un terzo della “inflazione ufficiale”, che abbiamo, peraltro, visto come viene calcolata.

Quanto detto fino ad ora evidenzierebbe la necessità di un profondo cambiamento, diremmo un ribaltamento, delle politiche salariali in particolare dei sindacati confederali, ed in primo luogo della Cgil, cosa di cui ancora non si vede traccia, se non in alcuni proclami verbali che negli ultimi anni hanno cominciato ad essere enunciati ma, come già abbiamo detto prima, non bastano le parole, né i “tavoli di confronto” con i vari governi. La gravissima situazione che, sommariamente, abbiamo descritto non si può modificare, e infatti, da molti anni, non ha evidenziato nessun segnale di modifica, se non con l’apertura di una vasta stagione di lotte che veda scendere in campo tutto il complesso del mondo del lavoro e non solo singole categorie.

Arriviamo al terzo aspetto, fortemente collegato ai due precedentemente trattati: quello della riduzione dell’orario di lavoro.

Qualcuno potrebbe dire: ma come, non solo volete gli aumenti salariali e la scala mobile, ma pure la riduzione dell’orario di lavoro, e noi rispondiamo: certamente! E vi dimostriamo perché non solo sarebbe pienamente realizzabile, in contemporanea con gli altri due aspetti già citati, ma sarebbe assolutamente doverosa, stanti le condizioni attuali dei lavoratori italiani.

Infatti, se guardiamo le ore lavorate mediamente in un anno dai lavoratori italiani vediamo che sono, secondo i dati Ocse, 1.699, mentre sono 1.490 in Francia (circa il 12% in meno) e 1.349 in Germania (circa il 20% in meno), cioè i lavoratori tedeschi lavorano, in media, 8 ore in meno alla settimana rispetto a quelli italiani. 

Eppure l’economia tedesca, con salari molto più alti dei nostri e con molte meno ore lavorate, è sempre stata una economia molto più forte, e in crescita, rispetto a quella italiana, fino a quando non è scoppiata la guerra in Ucraina, poiché da quel momento sono entrati in campo altri fattori, che non hanno rapporti con quelli che stiamo esaminando, d’altronde lo stesso ragionamento vale, anche se in misura un po’ minore, per la Francia.

Ma non è solo per questo che si dovrebbe porre la questione della riduzione dell’orario di lavoro in Italia; come abbiamo visto, in sostanza, i salari nel nostro paese sono rimasti sostanzialmente fermi dal 1990, ma non è successo così per la produttività, che è molto aumentata. Infatti, il numero dei lavoratori nei vari settori economici è molto diminuito, anche se con intensità diverse da un settore all’altro, ma le risorse derivanti da questi aumenti di produttività sono totalmente finite nelle tasche dei padroni, vi è stato cioè solo un aumento dei profitti.

Quindi, una riduzione dell’orario di lavoro che ci porti, per lo meno, al livello della Francia non è assolutamente una pretesa esagerata, e si deve aggiungere alle due già viste dell’aumento generalizzato dei salari e della scala mobile, ma tutto ciò può essere possibile solo se si mettono in campo tutte le forze dei lavoratori italiani e tutti i sindacati che si possono aggregare su una piattaforma che raggruppi i tre obiettivi che abbiamo delineato.

Immagine: Le Petit journal. Supplément du dimanche, Public domain, via Wikimedia Commons

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