di Fabrizio Fasulo e Giacomo Sferlazzo
Le narrazioni di destra e sinistra liberali italiane riguardo al tema delle migrazioni sono accomunate dal comune carattere emergenziale, e negli anni, la questione migratoria è stata sempre proposta come un fenomeno eccezionale destoricizzato, privo di cause sociali su cui poter intervenire e piuttosto tratteggiato sul modello di un evento catastrofico naturale. L’emergenzialità è stata così elevata a schema di governo. Le politiche di frontierizzazione e di militarizzazione dei territori non sono dunque che forme reattive a stati di eccezione indotti e voluti, conseguenti a scelte e a politiche condivise da tutta la classe dirigente nazionale ed europea. Un’organizzazione politica che si prefigga di dare unità e visibilità politica agli interessi sociali subalterni entro l’attuale composizione di classe non può eludere la questione migratoria, e deve occuparsene ponendo al centro le questioni anticoloniale e antimperialista, sottraendola alle ottiche ristrette della cronaca e dell’emergenza continua, e collocandola invece entro la nascente fase multipolare, con la consapevolezza che la razionalità di governo ordoliberista, fondante la governance in generale e quella delle migrazioni nello specifico, si sviluppa all’interno del paradigma unipolare.
La questione delle migrazioni costituisce certamente uno dei temi centrali della fase storica inaugurata a partire dalla fine della Guerra Fredda, cioè dall’affermarsi egemone del modello unipolare. Dollarizzazione, finanziarizzazione, controrivoluzione neoliberale, subordinazione della politica e delle società democratiche alle oligarchie internazionali dei mercati, guerre imperialiste ed egemonia unipolare statunitense costituiscono i diversi piani attraverso i quali ha preso forma ciò che viene sbrigativamente chiamato globalizzazione.
Uno dei principali risultati dell’egemonia unipolare statunitense e del “mercato globale” è stato sicuramente il grande incremento dei flussi migratori. Un movimento che intenda, in Italia e in Europa, affrontare la contemporaneità dal punto di vista dei gruppi sociali subalterni, che sappia raccogliere la sfida di rilanciare un protagonismo di classe e patriottico per un movimento operaio all’altezza del XXI secolo, deve essere in grado di collocare la questione migratoria entro una cornice che tenga adeguatamente conto della complessità del fenomeno in questione.
Priorità assoluta dovrà intendersi quella di sottrarre la questione migratoria sia allo sguardo ristretto della cronaca, sia all’ottica strumentale del paradigma emergenziale. L’emergenza, sia essa umanitaria o securitaria, si è infatti imposta quale filtro narrativo, interpretativo e performativo attraverso i quali il sistema mediatico e politico italiani hanno non solo costruito il senso comune sulla questione, ma anche concretamente agito a sovradeterminare il fenomeno stesso. Destra e sinistra liberali italiane hanno fatto ricorso a narrazioni sulle migrazioni apparentemente divergenti, ma accomunate dal comune carattere emergenziale, nonché da una complessiva continuità delle politiche concrete.
Uscire dall’emergenza, dunque, anche intendendola per ciò che è stata, vale a dire un dispositivo di governo. Negli anni, infatti, la questione migratoria è stata sempre proposta come un fenomeno eccezionale destoricizzato, privo di cause sociali su cui poter intervenire e piuttosto tratteggiato sul modello di un evento catastrofico naturale. L’emergenzialità è stata così elevata a schema di governo, a dispositivo di riferimento della razionalità politica delle élite dominanti nell’epoca della controrivoluzione neoliberale e della crisi delle democrazie. Da tale punto di vista la questione migratoria è stata uno dei suoi campi di applicazione più performanti. L’eccezionalità di una migrazione proposta come qualcosa di deterministico e di depoliticizzato ha così permesso di giustificare l’offerta politica liberale quale sua “ovvia” reazione, legittimando le risposte agli stati di eccezione che ne sono derivati.
Retoriche e narrazioni dominanti non tematizzano mai né le cause delle migrazioni né tanto meno le leggi e gli istituti normativi che le regolamentano: elementi, questi ultimi, che determinano però proprio le forme, ormai tristemente note, attraverso le quali le dinamiche migratorie, in quanto fenomeno storico e sociale, vengono a manifestarsi.
Le politiche di frontierizzazione e di militarizzazione dei territori vanno in tal senso interpretate come forme reattive ad emergenze e a stati di eccezione indotti e voluti, conseguenti a scelte e a politiche condivise da tutta la classe dirigente nazionale ed europea.
Il ricorso al modello emergenziale nella gestione “ordinaria” dei flussi irregolari marittimi ha invece consentito, negli anni, lo sviluppo e l’intensificazione della militarizzazione dei territori e dei dispositivi gestionali dei flussi, dando vita così al processo di “frontierizzazione”. La “frontiera” va intesa come dispositivo politico in grado di performare pratiche di subalternità indotta ed esclusione sociale a partire da una legittimazione di disuguaglianze sancite dal potere politico e dai suoi asset decisionali. Le emergenze sono tra le condizioni privilegiate che hanno consentito di produrre “frontiere”, cioè slittamenti oligarchici e autoritari del sistema politico che si esplicano in politiche securitarie e/o di militarizzazione, di esclusione, di svuotamento di democrazia sostanziale e formale, di erosione di diritti reali e di cittadinanza concreta. Il tutto sempre giustificato come risposta a stati di eccezione e a situazioni d’emergenza “extra-ordinarie”. Alcune delle forme assunte dalla frontierizzazione sul versante delle migrazioni sono state quelle della militarizzazione del Mediterraneo e dei territori che malauguratamente si ritrovano a ospitare le “succursali” di tale dispositivo politico (Ventimiglia, Lesbo, Lampedusa etc….). In tali contesti, alla privazione di diritti a danno dei migranti fa il paio il parallelo stravolgimento delle relazioni sociali, ambientali e territoriali per le popolazioni locali.
Oltre a ciò si è assistito negli anni al diffondersi di una galassia di strutture, integrate entro un vero e proprio indotto nel tessuto economico della società (si pensi al sistema delle Cooperative e al Terzo Settore con i loro addentellati col sistema politico dei partiti); tali realtà assolvono il compito di istituzionalizzazione dei soggetti migranti che entrano a farne parte, oltre a fungere da vere e proprie articolazioni del dispositivo emergenziale – Hot Spot, Centri di Prima Accoglienza (Cpa), Centri Accoglienza Straordinaria (Cas), Centri di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr). Ma l’emergenza come stato d’eccezione piega a sé anche il diritto: si pensi per esempio alla detenzione amministrativa, prevista già in via straordinaria dalla legge Martelli e poi definitivamente introdotta come procedura ordinaria dalla legge Turco-Napolitano.
A tal riguardo non si può trascurare il ruolo svolto dalle normative nazionali ed europee sulle migrazioni, che producono alcune delle condizioni affinché i flussi migratori assumano le forme dell’immigrazione “irregolare”. Negli anni sono state scientemente approvate leggi che hanno nei fatti reso impossibile un ingresso regolare per coloro che sono alla ricerca di un lavoro. Ciò ha permesso di avere assicurata una costante “irregolarità” in grado di garantire l’applicabilità reiterata del paradigma emergenziale, con tutte le conseguenze relative al mutamento di assetto postdemocratico delle società.
Tali norme hanno però anche determinato l’esistenza di una quota maggiormente subalterna dell’esercito di manodopera di riserva, ricattabile e privo di diritti perché irregolare: in tal modo si è alimentata la spirale verso il basso dei salari e la competizione orizzontale interna alla forza lavoro, contribuendo così, dal versante migratorio, alla più generale politica deflazionistica dei salari.
Le norme nazionali vanno inquadrate entro il più ampio quadro di riforme ordoliberiste della controrivoluzione liberale. A tal proposito l’accordo di Schengen è stato uno dei passaggi necessari affinché il capitale internazionale continuasse il suo processo di concentrazione grazie alla liberalizzazioni nella circolazione di merci, servizi e capitali e, al tempo stesso, affinché la classe dei lavoratori si disgregasse e si atomizzasse, divenendo “mobile” nel caso dei lavoratori “interni” e “migrante” nel caso dei lavoratori “esterni”.
Col definirsi dell’area Schengen e del mercato interno europeo i lavoratori extracomunitari cominciavano a trovare sempre maggiori difficoltà a entrare regolarmente in Europa, a causa dell’istituzione della politica dei visti, stabilita proprio da Schengen. Tutte le scelte dell’Ue sono andate nella direzione di creare due tipologie di lavoratori: un lavoratore comunitario, mobile, con pochi diritti e bassi salari e un lavoratore migrante, extracomunitario, senza diritti, criminalizzato, sottopagato e clandestino. Questi due “eserciti” di lavoratori spesso sono stati messi in competizione alimentando la cosiddetta “guerra tra poveri”.
Una volta posta in essere questa categoria di “irregolare”, vi sono state fatte poggiare le narrazioni emergenziali funzionali sia al definirsi delle politiche di frontierizzazione, sia all’autoreferenzialità delle retoriche interne al circuito del consenso dei partiti italiani.
Contrariamente al senso comune diffuso, fondato sulla ricorrente narrazione secondo cui l’Unione Europea lascerebbe sola l’Italia nell’affrontare il problema migratorio, se c’è un dato che una forza comunista deve riuscire a denunciare e a porre in primo piano è proprio come non vi sia “aspetto delle migrazioni che non sia minuziosamente regolato, gestito e controllato”1. Il caos è dunque solo apparente. L’obiettivo è infatti la produzione di subalternità e il rafforzamento delle politiche oligarchiche. Ciò che va però sottolineato è proprio la natura di un tale minuzioso controllo.
Quello migratorio si presenta infatti come uno dei campi sui quali maggiormente si è espressa la razionalità del governo globale nei decenni della controrivoluzione neoliberale. Le migrazioni sono cioè state uno dei terreni privilegiati sui quali si è consumato il cambio di paradigma che ha segnato la fase unipolare: il superamento della multilateralità, con le sue regole e istituzioni internazionali, con il conseguente passaggio dal governo internazionale alla governance internazionaledei movimenti migratori. Caratteristica della governance è quella, a differenza del governo, di coinvolgere anche soggetti informali e non-governativi oltre a quelli istituzionali tradizionali, garantendo così a tutti quegli organismi, espressione delle oligarchie economiche, di disporre delle proprie “teste di ponte” entro i processi decisionali. Altro elemento fondamentale è che il paradigma unipolare della governance, per la sua stessa composizione allargata a soggetti formalmente non-politici, sfugge al sistema di selezione democratica basato su partecipazione, elezioni ed in generale su procedure democratiche di equilibrio tra rappresentati e rappresentanti.
Le migrazioni sono dunque state una delle direzioni di proiezione e di avanzamento della razionalità di governo unipolare del neoliberalismo. Una direzione di proiezione che ha dislocato e reso disponibile e subalterna una grande quota di forza lavoro, accrescendo enormemente il potere del capitale nella sua costante lotta contro il lavoro. Tale razionalità ha assunto i caratteri della governance: cioè di una forma altamente demofobica di organizzazione del potere che consente l’ingresso dei privati nella gestione di ciò che è pubblico, dà vita a tendenze autoritarie e procedure opache2, i cui attori sono sempre meno eletti e che globalmente è in grado di erodere e svuotare la sostanza democratica delle società3.
Un’organizzazione politica che voglia lavorare a dare unità e visibilità politica agli interessi sociali subalterni entro l’attuale composizione di classe non può dunque eludere il rapporto con la tematica delle migrazioni. Nel farlo deve sottrarla alle ottiche ristrette della cronaca e dell’emergenza continua. Deve invece collocarla, in possesso di uno sguardo ad ampio raggio, entro la nascente fase multipolare, con la consapevolezza che la razionalità di governo ordoliberista, fondante la governance in generale e quella delle migrazioni nello specifico, si sviluppa all’interno del paradigma unipolare. Occorre dunque impegnare il corpo del movimento in un processo di elaborazione e consapevolezza che sia in grado, sulla questione migratoria, di saper attingere multidisciplinarmente da diversi e variegati contributi scientifici, riorientandoli e declinandoli secondo lo sguardo degli interessi di classe e dei ceti subalterni.
Vanno poste al centro le questioni anticoloniale e antimperialista, collocandole entro il momento storico del multipolarismo nascente. Compito non semplice ma che deve avere metodologicamente un proprio punto fermo nell’apertura ai punti di vista, alle narrazioni e agli interessi delle popolazioni e delle organizzazioni del Sud Globale, lavorando a un’alleanza di questi interessi con quelli delle grandi masse popolari del Nord Globale, sempre più schiacciate dal tallone di ferro della finanziarizzazione e della controrivoluzione neoliberale. Occorre sostenere i processi di autonomia e sovranità politica ed economica dei paesi del Sud Globale: nella consapevolezza che la fase multipolare offre sponde sicuramente migliori per tali dinamiche, che sole possono rallentare l’emorragia umana da queste società. Si deve lavorare in vista di un’alleanza internazionalista a favore delle dinamiche di sviluppo sovrano dei paesi del Sud Globale, dei loro mercati interni, delle loro culture: a favore della fine delle ingerenze e delle destabilizzazioni ma a sostegno di relazioni paritarie basate sul reciproco vantaggio.
Parallelamente, all’interno dell’Ue, vi è l’esigenza che il punto di vista del “lavoro migrante” entri a far parte della più ampia composizione politica della classe lavoratrice e del blocco sociale subalterno. In tal modo si darebbe una base sociale concreta e dialettica alla lotta al razzismo, sottraendola all’agenda liberale e alla sua strumentalizzazione moralistica. Nel contempo andrebbe rilanciata – come base per far emergere le contraddizioni dell’irriformabile sistema comunitario europeo – la prospettiva della regolarizzazione dei viaggi. Chi si sposta in cerca di lavoro deve poterlo fare legalmente, senza dover restare confinato nelle gabbie salariali di un solo paese, senza alimentare lo scontro orizzontale interno alla classe lavoratrice, ma essendo libero di muoversi, come portatore di diritti, entro il territorio comunitario. Ciò porrebbe al centro il ruolo attivo e diretto delle normative comunitarie ed europee nel produrre l’attuale situazione di irregolarità, decostruendo le narrazioni emergenziali dominanti e denunciando così le responsabilità di tutte le classi dirigenti liberali degli ultimi decenni.
Note:
1 I. Gjergji, Sulla governance delle migrazioni. Sociologia dell’underworld del comando globale, Franco Angeli, Milano 2016, p. 16.
2 Cfr. S. George, The Rise of Illegitimate Authority and the Threat to Democracy, in «Journal of Australian Political Economy», n. 72, 2013, p. 5.
3 Cfr. C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003.
Immagine: https://www.ammiragliogiuseppedegiorgi.it/mc/477/mare-nostrum
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