“Nec spe nec metu”

di Angela Fais

È il primo romanzo di Michelangelo Severgnini edito da Gagio edizioni nel dicembre del 2021, e che nel 2023 si è aggiudicato il Primo premio per la Microeditoria di Qualità.

In realtà Michelangelo Severgnini è prima di tutto un musicista. Ma negli anni si esprime anche e soprattutto come regista, noto per avere avocato a sé il grande carico della controinformazione relativa alle politiche migratorie e a tutti i reali retroscena che il mainstream ci cela.

Questo è un romanzo ambientato a Napoli nel 2011 e racconta le vicende di tre ragazzi; ciascuno di essi a suo modo è vittima delle grandi vicende politiche che restano sullo sfondo delle loro storie: la storia di Habib, uno studente universitario, che lascia intravedere la situazione politica dei paesi arabi, della Tunisia in particolare; quella di Corradino che, per inseguire il grande mito oramai troppo inflazionato del Nord che offre occupazione, emigra per poi decidere di tornare deluso nella sua Napoli, e quella di Aygul che arriva dall’est, anch’essa studentessa all’università, costretta a misurarsi con una grandissima condizione di precarietà.

Possiamo definirli dei “Vinti” per dirla con Verga: ciascuno è in fuga e privato di poter coltivare qualsiasi progettualità in una prospettiva in cui a mancare non è soltanto la speranza ma persino la paura, talmente tanta è la rassegnazione e la povertà materiale in cui essi sono gettati.

Dal momento che Severgnini è innanzitutto un musicista, e che tra l’altro in questo libro riserva alla musica un ruolo speciale giacché per mezzo di una serie di espressioni ricorrenti, quasi in uno stile formulare, introduce dei brani durante la narrazione che il lettore potrà ascoltare grazie a un QRcode inserito nel corpo del testo, possiamo definire il suo romanzo una vera e propria polifonia caravaggesca a tre voci, intrecciando esso le storie dei tre protagonisti. Non solo perché in si svolge in quella che forse è la città caravaggesca per eccellenza, Napoli appunto, con la sua architettura barocca e i suoi marcati chiaroscuri in cui luce e ombra dialogano facendo emergere forti le vicende di Habib, Corradino e Aygul; ma anche perché ci rimanda alla profondità di tutta la sua storia dal momento che i tre sono dei personaggi che per la loro cruda intensità potrebbero essere benissimo dei personaggi delle tele di Caravaggio che in fondo è stato anche un narratore perché ripensa e stravolge tutta l’iconografia delle Sacre Scritture. E con la sua pittura rievoca l’incanto che egli trova tra gli uomini e sui volti del popolo e, andando oltre le convenzioni, da la precedenza a una empatia molto forte proprio al pari con quanto accade con i nostri personaggi.

È un libro intenso, fitto di passioni e di sofferenze consumate ai margini della società; che ci parla con un linguaggio altrettanto intenso e quasi corporeo, materico e potentemente evocativo proprio grazie a una forte componente linguistica dialettale che ci consegna a questa dimensione viva e molto empatica. A proposito del linguaggio che l’autore sceglie e della scelta linguistica del dialetto possiamo dire che mettere in questione la lingua grammaticale è un lavoro politico fortissimo, perché è sulla lingua che si fonda la struttura del potere. E questo può esser considerato un libro molto “politico” a cominciare dalla figura di Aygul, la protagonista del romanzo, che porta incontro un femminile molto forte e altrettanto ribelle. Anche lei infatti contesta il potere, che è personificato da John, un militare americano, affascinante e bellissimo, molto galante che è quasi una presenza inquietante perché è lì ogni qual volta che Aygul è in difficoltà; è sempre pronto ad aiutarla quando lei non è nelle condizioni di rifiutare l’aiuto e sa che questi “aiuti” non sono senza condizioni. D’altronde è nota la natura degli aiuti degli americani, che aiutano in caso si presenti la necessità e in assenza di questa essa viene creata ad arte per aiutare e vincolare. In questa storia si legge la nostra condizione di subalternità agli Usa, quasi come questa storia fosse una cartina tornasole del fatto che noi di fatto siamo una colonia, un protettorato americano. Così come si legge della crisi economica che affligge le economie del Sud Europa e di una politica monetaria che le penalizza. Ci lascia un finale surreale che racchiude tutta la rabbia e la ribellione degli oppressi nei confronti del potere e dei dispositivi con cui esso controlla e opprime coloro che per una ragione o per un’altra restano ai margini della società.

Lascia un commento

Sito web creato con WordPress.com.

Su ↑