di Fosco Giannini
Nel romanzo di Mathieu Belezi, un’opera sorretta da un linguaggio sulfureo e rivoluzionario e edita dalla Feltrinelli, una denuncia senza reticenze dell’imperialismo francese in Algeria.
Cos’è l’arte se non il suo linguaggio? Il “contenuto” rimarrebbe sigillato in un sarcofago se il linguaggio non aprisse il varco e lo consegnasse al mondo. Così è stato per tutti, per tutte: dalla rottura “semantica” del tempo e dello spazio operata da James Joyce per evocare i grumi più oscuri e altrimenti indicibili del dolore umano, alla “deturpazione” del segno pittorico pedinata senza tregua da Edvard Munch, al fine di affrontare gli orrori della sua infanzia e della nostra vita; dal naïf tragico di Frida Kalo alle “Amalassunte” di Osvaldo Licini, così apparentemente evocanti il sereno lunare e in verità, attraverso la cassa di risonanza di un enigmatico linguaggio pittorico capace, senza proclami e sulla scorta della lezione di Charles Baudelaire, di scomporre il nome dell’Amalassunta (il Male e l’Assunta in cielo) riconsegnandoci il concreto, imperante, tutt’uno dialettico tra la nostra, disperata, tendenza all’innocenza e l’ancora inestinguibile pulsione al sangue, al tradimento di noi, al Male.
Nessuno dei “sentimenti” profondi di questi artisti sarebbe stato tratto dal pozzo nero dell’anima senza la carrucola di un nuovo linguaggio evocante.
Così è per lo straordinario romanzo di Mathieu Belezi, Attaccare la terra e il sole, appena uscito in Italia per i tipi della Feltrinelli. Nelle pagine, un linguaggio mai visto si muove come un nido di vipere, sibila tra le strutture letterarie, gracida come un branco di pipistrelli in volo, non concedendo nessun pertugio, nessuna indulgenza alla grammatica consunta, ma affilando ogni parola al fine di riesumare l’orrore dell’imperialismo francese in Algeria.
Quel colonialismo ferino che inizia sin dalla prima metà dell’Ottocento: nel 1830 le truppe francesi invadono e conquistano Algeri, allora sotto il dominio dell’Impero ottomano, per poi estendere il potere di Parigi sulle restanti comunità costiere. Impressionante è l’analogia storica tra la motivazione degli odierni stati imperialisti, dagli Usa, alla Gran Bretagna, all’Italia sino all’intera Unione europea, volti ad intervenire nel Mar Rosso e nel Golfo di Aden per “fermare la pirateria degli Houthi” (in verità per ripristinare pienamente il potere colonialista in quell’area strategica per le vie del mare e del commercio imperialista mondiale) e la motivazione del colonialismo francese della seconda metà dell’Ottocento, che interviene ufficialmente in Algeria per “combattere la pirateria dei berberi”, ma in verità per estendere la monarchia e soprattutto l’arrembante borghesia francese in Africa e conquistare le terre algerine, che si sapevano particolarmente ricche e fruttuose, specie per la coltivazione del cotone, merce ancora di grande valore, allora. Sull’onda della vittoria del 1830 e attraverso l’inestinguibile brama colonialista, la Francia punta poi alla conquista dell’intera Algeria, che rimarrà una colonia francese dal 1833 sino alla rivoluzione algerina del 1962, per oltre un secolo di spoliazioni, dittatura colonialista, repressioni, sangue e umiliazioni infinite inflitte al popolo algerino.
Come per tanta parte dell’esperienza storica colonialista, il paese occupante invia poi i propri lavoratori a costruire strade, dighe e infrastrutture, manda i propri contadini a coltivare le terre conquistate con le armi (la Francia del 1830, per conquistare Algeri, impiegherà 103 navi da guerra, 464 navi da trasporto, circa 40 mila soldati, 27mila marinai e 83 pezzi di artiglieria pesante, per una prima, vasta, strage di soldati e popolazione algerina). Cosicché Parigi (come avrebbe fatto il fascismo degli anni ’30 in Libia e in Etiopia) invia i propri contadini, dopo la conquista di Algeri, a coltivare le terre algerine, a “civilizzare” il Corno d’Africa. Con la peggiore soldataglia francese bretone, alsaziana e marsigliese (partita dal porto di Marsiglia con animo “buono” e cattolico e giunta ad Algeri con animo già assassino) a “proteggerli” dalle incursioni dei berberi ribelli.
È in questo passaggio storico che si muove il romanzo Attaccare la terra e il sole di Mathieu Belezi, nato a Limoges, nella Francia sudoccidentale, “cittadino del mondo”, tra gli Usa, il Messico, il Nepal, l’India, la Grecia, l’Italia, autore, tra l’altro, di Le pas suspendu de la revolte e Le petit Roi.
È dal porto di Marsiglia, dunque, che dopo la conquista di Algeri si imbarcano sulla fregata Labrador (“che ballava come una conchiglia”) 500 contadini francesi – famiglie intere, mariti, mogli, bambini – diretti verso le terre algerine incolte, accompagnati dai militari francesi.
Che struttura letteraria architetta Belezi, come fa procedere la storia? Lo fa affidando a due personaggi la narrazione degli eventi. Sèraphine, che è partita da Marsiglia con marito e figli col sogno di coltivare, per arricchirsi, le ricche terre algerine, racconterà la storia dei 500, disgraziati, contadini “imperialisti”, mentre il capitano della guarnigione che accompagna i contadini verso la colonia agricola racconterà le “imprese” sanguinarie dei suoi soldati contro i berberi ribelli e contro la popolazione algerina.
Il linguaggio che viene affidato a Séraphine e al capitano è infernale, sulfureo, incandescente, esattamente speculare all’orrore imperialista in corso, esatta proiezione semantica del sole bruciante, della terra secca e incoltivabile, dell’aria di fuoco algerina, dei visi arsi, calcinati, dei ribelli berberi, dello scatenato “animus pugnandi” dei soldati gallici, dell’animo terrorizzato dei contadini francesi.
È, appunto, il linguaggio rivoluzionario e straniante, (capace, senza “preliminari”, nella sua peculiarità, di introdurci all’inferno) di Joyce, di Munch, di Frida Kalo, di Osvaldo Licini.
Il governo francese “regala” magnanimamente ai propri contadini sette ettari di terra algerina da coltivare. Ma Séraphine e le altre contadine francesi, dopo le prime, immense, difficoltà, l’impossibilità di organizzarsi in quella terra straniera dove sono state inviate come animali da tiro e dopo lo scoppio di un colera senza medici e senza medicine, fanno presto a capire che il colonialismo francese ha lo stesso, duro, volto sia per il perseguitato popolo algerino che per il proletariato francese. E dirà, Séraphine: “La giustizia è una parola inventata dai ricchi per calmare la collera dei poveri”.
Belezi utilizza un aforisma di Claude Lévi-Strauss per incorniciare il proprio romanzo, per definire il modo in cui l’occupazione colonialista francese deturpa il mondo algerino: “Una civiltà proliferante e sovraeccitata turba per sempre il silenzio dei mari”.
I sette ettari di terra donati da Parigi, due ettari per famiglia, si rilevano duri, incoltivabili per il lungo tempo in cui sono stati incolti; il sole è cocente e il freddo, di notte, è tagliente; i “paysan” sono senza un tetto, senza un riparo, solo alcune tende militari, senza acqua, senza cibo, accerchiati dai leoni, dalle pantere, dai serpenti, dalle vipere cornute, dai predoni del deserto, dal colera che li decima, dai berberi ribelli che non pensano ad altro che a tagliar loro la gola, appena possibile. I contadini provenienti da Marsiglia in cerca di fortuna, trovano anch’essi la cruda follia dell’imperialismo. E devono appunto, per sopravvivere e ribadire la speranza, “attaccare la terra e il sole”, come preannuncia il titolo del romanzo.
Scriverà Séraphine, dopo alcuni giorni dall’arrivo in Algeria: “Per dieci giorni è stato così, con la pioggia che cadeva senza fine sulla nostra colonia che era ormai ridotta ad un mucchio di tende fradice sul punto di volare via sotto i colpi di mazza del vento, e che bisognava continuamente rammendare e fissare perché non crollassero nel fango infetto, tra la nostra urina e la nostra merda…Santa, santissima madre di dio, perché?”. E il perché sta tutto nella natura del colonialismo, francese o non francese, parimenti feroce con il proprio popolo che col popolo occupato, col popolo algerino.
La seconda voce del romanzo è quella del capitano dei soldati francesi inviati per proteggere le spalle ai contadini.
Il capitano è un veterano del colonialismo francese e ha già da tempo seccato ed inferocito il proprio cuore cattolico e imperialista, ha interiorizzato l’“esigenza” della crudeltà per tenere a bada i popoli conquistati. Ora, deve insegnare ai soldati giovani come giungere alla ferocia e all’autoassoluzione, in nome della patria. Ricorderà alla truppa che “ormai sono quindici anni che squarcio i ventri dei popoli con la mia baionetta, ne avrò sbudellati a migliaia, e chi mi assolve è Parigi”. “Noi non siamo angeli! Cazzo, mi sentite quando dico che non siete angeli?”. Perché gli angeli non possono servire la patria.
Nel giorno di Natale, il capitano e la sua truppa, in cerca di caldo, di cibo e di donne algerine da violentare, attaccano un “fondouk” (un edificio, un magazzino) e un soldato racconta: “È con rabbia più cristiana del solito che attacchiamo il “fondouk”, con le pupille dilatate, le narici palpitanti, i monconi dei denti scoperti, come zanne pronte a mordere, ci precipitiamo sotto il portico e le nostre baionette infilzano le grida dei petti impotenti…”. Poi sarà la tortura contro i “burnus”, gli algerini del “fondouk”, la richiesta, senza via di scampo, di consegnare le donne algerine ai soldati francesi, che non possono restare soli a Natale; la terrorizzata resistenza degli arabi e la loro decapitazione sotto le sciabole, il tradimento dell’arabo più debole che rivela il luogo dove le donne sono nascoste, la sua decapitazione dopo il tradimento, mentre parte una pattuglia verso i luoghi nascosti delle donne, che saranno violentate per alcune notti e alcuni giorni, per la fase natalizia, quando anche ai macellai francesi pare si stringa il cuore, sino al successivo assassinio di ogni “femmina”. “Normalità” colonialista francese in Algeria che si perpetuerà in ogni tempo. Ben prima e ben oltre il Natale.
Come il linguaggio tagliente di Joseph Conrad in Cuore di tenebra, (linguaggio ridotto all’osso, spogliato da ogni retorica residua di quel romanzo cavalleresco-cortese che, con altre e infide forme, per troppo tempo si protrae nella letteratura borghese occidentale), come la lingua di Cuore di tenebra, trasmuta la sanguinaria e tenebrosa ossessione del commerciante Kurtz per l’avorio in metafora dell’imperialismo belga in Congo, così il linguaggio di zolfo di Mathieu Belezi in Attaccare la terra e il sole spoglia senza reticenza alcuna l’imperialismo francese dei suoi stracci luridi, rivelandolo nella sua turpitudine senza fine ai senza coscienza.
Alla fine del romanzo, Séraphine, sconfitta dalla terra e dal sole di Algeria, abbattuta come un uccello del deserto dalle stesse menzogne di Parigi, si imbarca sul Sinai, il piroscafo per Marsiglia. La speranza è verso il ritorno. Ma si esce dall’inferno, se lo hai attraversato? Vale per tutti. Anche per lei, ormai consapevole di ciò che ha vissuto e di come Parigi l’abbia usata contro il popolo algerino. E affermerà, infine, colma di paura e di vergogna: “Devo dirlo? Non sono mai tornata in Algeria, nemmeno per recuperare i corpi di quelli che avevo tanto amato”.
Mi è capitato giorni fa di parlare di letteratura, felicemente sorpreso, con una ragazza di quindici anni, figlia di una mia grande amica e tanto appassionata e intelligente da dare speranza al nostro futuro, tanto luminosa da rendere davvero brutti i nostri pregiudizi sulle nuove generazioni. Alla fine, ho voluto, con tutta l’umiltà del caso, proporle la lettura di alcuni romanzi che non conosceva ancora e che, pur arricchendole l’animo, non avrebbero resa “pesante” l’estate: Uomini e topi, di John Steinbeck, Canne al vento di Grazia Deledda, Il vecchio e il mare, di Ernest Hemingway, Che fare?, di Nikolaj Černyševskij.
Ecco, se questa ragazza del futuro mai mi leggesse, le consiglierei vivamente di leggere anche Attaccare la terra e il sole.
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