di Francesco Fustaneo
A fronte della violenta repressione in atto contro chi manifesta contro il genocidio a Gaza e dell’imbavagliamento dei media per censurare la verità su quanto è in atto (dal 7 ottobre 163 giornalisti che documentavano sul campo sono stati uccisi – ndr ), al Congresso, Netannyahu proclama che “finirà il lavoro” venendo applaudito sia dai repubblicani che dai democratici.
Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, reduce dal suo discorso applauditissimo al Congresso a Washington del 24 luglio, ha avuto la certezza di avere ancora tanti estimatori negli Usa; questo nonostante il massacro ancora in corso condotto ai danni dei palestinesi, di contro, abbia fatto perdere crediti non solo al suo governo ma all’intera nazione di Israele, dinnanzi a larga parte del mondo.
Prima del suo intervento, circa duecento persone erano state arrestate per aver protestato all’interno dell’edificio della Cannon House.
“Manifestare all’interno degli edifici del Congresso è illegale”, scriveva la polizia del Capitol sulla piattaforma social “X”, ammonendo i manifestanti filopalestinesi che inscenavano proteste contro il discorso che Netanyahu avrebbe poi tenuto lo stesso pomeriggio.
Incurante della propria politica spietata di apartheid, della barbara repressione che si sta portando avanti praticamente nel silenzio, perché giornalisti e media (è bene ricordarlo), sono stati di fatto silenziati in Palestina, Netanyahu, con la sua faccia di bronzo, nella sede del massimo organo legislativo statunitense, ribadiva la tesi dello scontro tra civiltà o meglio a suo dire “tra barbarie e civiltà”. “Per far trionfare le forze della civiltà, America e Israele devono stare insieme. Perché quando stanno insieme, succede una cosa semplice, noi vinciamo e loro perdono. E noi vinceremo.”
Insomma, Netanyahu ha pubblicamente ricordato al mondo come Israele sia fedele alleato degli Usa e che non si tirerà indietro dal portare a termine quella che è divenuta la sua crociata.
“Non avrò pace fino a quando tutti gli ostaggi non saranno a casa”, ha poi aggiunto, ricordando che “135 li abbiamo riportati a casa”. “Una di loro, Noah Agarmani, è qui insieme a mia moglie Sarah”, ha affermato ancora il premier israeliano. Non poteva mancare l’appello poi a inviare finanziamenti e al ricevere ulteriore sostegno militare: “dateci i mezzi e più velocemente finiremo il lavoro”.
Il copione recitato, in sostanza, è quello a al quale ci ha abituato in tutti questi mesi: la guerra a suo dire continuerà “finché non avremo distrutto le capacità militari di Hamas e il suo dominio a Gaza e non avremo riportato a casa tutti i nostri ostaggi”. In merito alla sua visione di quello che succederà dopo il conflitto, ha parlato di una Gaza smilitarizzata e de-radicalizzata. “Israele non vuole rioccupare Gaza” ha affermato “ma per il futuro dobbiamo mantenere il controllo della sicurezza per prevenire la rinascita del terrore, per assicurare che Gaza non rappresenti mai più una minaccia per Israele.” Non è mancata la sua stoccata rivolta a chi protesta contro Israele, concretizzatasi nell’accusa di stare con gli assassini di Hamas e dunque di “stare con il male”.
Anche l’evento appena menzionato ci conferma che i repubblicani sono, in linea di massima, estremamente compatti nell’appoggiare le politiche di Netanyahu (che auspicherebbe, anche se ovviamente non può formalmente esternarlo, una vittoria di Trump); invece, non si riscontra un’eguale compattezza nel fronte democratico. Alle volute defezioni di alcune decine di deputati democratici che hanno rifiutato di assistere al suo discorso, si è aggiunto il commento al vetriolo dell’ex speaker della Camera, Nancy Pelosi, che ha bollato quello del premier israeliano come “ il peggiore discorso al Congresso pronunciato da un leader straniero”. Ciò non deve sorprendere. Non è un mistero, infatti, che diversi esponenti democratici, a maggior ragione in un periodo come quello odierno, collocato temporalmente alla vigilia delle elezioni presidenziali, siano preoccupati di come possa reagire una parte del proprio elettorato: è risaputo che soprattutto i giovani (e al loro interno prevalentemente gli studenti universitari) e ovviamente le minoranze di religione islamica siano sulla questione palestinese in posizione antitetica a quella dell’attuale amministrazione a guida (uscente) Biden, che seppur mimando il proverbiale uso del bastone e della carota con Israele, ha di fatto avallato l’orrore in corso.
Per concludere, vale la pena citare, per la forte simbologia del gesto, il momento che ha visto protagonista la deputata Rashida Tlaib: mentre tanti suoi colleghi si alzavano per applaudire, lei rimaneva seduta esibendo un piccolo cartello con le scritte “WAR CRIMINAL” (criminale di guerra) e “GUILTY OF GENOCIDE” (colpevole di genocidio)”.
La storia lo ricorderà (forse…)
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