Intervista ad Andrea Vento, ricercatore del Giga

di  Federico Giusti

“Negli Stati Uniti, non il ‘New Deal’, bensì l’economia di guerra del secondo conflitto mondiale portò il Paese fuori dalla decennale Grande Depressione.”

Abbiamo intervistato Andrea Vento, docente di geografia economica e geopolitica nelle scuole superiori e attivista del Giga, il gruppo degli insegnanti di geografia autorganizzati, in merito alla ricerca pubblicata nel blog di Giulio Chinappi in cui vengono analizzate le politiche economiche adottate negli Usa per l’uscita dalla Grande Depressione.

D. Andrea, vuoi entrare nel merito delle questioni cercando di fare chiarezza in merito alle politiche economiche adottate negli anni ’30 negli Stati Uniti?

R. È opinione diffusa e, peraltro riportata in molti libri di testo, che l’uscita dalla crisi del ’29 negli Stati Uniti sia avvenuta per mezzo delle politiche keynesiane del “New Deal” di Roosevelt che costituivano una rottura di paradigma rispetto alla precedente lunga stagione liberista. Infatti, con l’inizio della “Grande Depressione” innescata dal crollo della Borsa di Wall Street del 24 ottobre del 1929, il nuovo presidente democratico, Franklin Delano Roosevelt (1933-45), adottò fra il  1933 e il 1934 una serie di provvedimenti economici tesi ad aumentare la presenza dello Stato nell’economia, a disciplinare settori economici totalmente deregolamentati e a introdurre una riforma fiscale progressiva, passati alla storia come “Primo New Deal”. 

Una volta conseguiti i primi risultati, già dal 1934, il piano di Roosevelt iniziò però a incontrare crescenti resistenze sia da parte dei potenti trust economici e finanziari nazionali, che dal partito repubblicano e dai democratici conservatori, tutti contrari all’intervento statale nell’economia. Il doppio fuoco di sbarramento finì per imprimere un significativo depotenziamento al “New Deal” a causa di una serie di dichiarazioni di incostituzionalità, in merito ai provvedimenti economici adottati, emesse a cavallo fra il 1935 e il 1936 dalla Corte Suprema Federale, in maggioranza composta da giudici nominati dai precedenti presidenti repubblicani.

Da quel momento in avanti, il “New Deal” non sarà più in grado di determinare il profondo cambiamento nell’economia statunitense che era nei progetti di Roosevelt.

Tale depotenziamento spingerà poi Roosevelt a correre, in qualche modo, ai ripari facendo approvare dal Congresso il “Secondo New Deal”, una nuova serie di riforme economiche e soprattutto sociali, in considerazione del fatto che il provvedimento più importante risultò il Social Security Act, finalizzato all’istituzione di un sistema di sicurezza e di protezione sociale. La misura introduceva, infatti, l’erogazione di contributi in caso di disoccupazione, vecchiaia e disabilità, tramite un fondo finanziato dai datori di lavoro, dai lavoratori e con risorse del bilancio federale. 

La ripresa della produzione continuò anche nel corso del 1936 e nella prima parte del 1937 ma la mancata trasformazione del sistema produttivo e un settore statale troppo ristretto, non consentirono allo Stato di esercitare un’azione decisiva sull’intera economia federale. Ciò lasciò sostanzialmente invariato lo spazio di manovra alle grandi imprese nella ricerca dell’utile tramite la “razionalizzazione intensificata” dei fattori della produzione, determinando la ricomparsa degli squilibri fra il potere d’acquisto interno (la domanda) e l’offerta di beni, anche a seguito della riduzione della diminuzione della spesa pubblica federale che aveva portato quasi a sfiorare il pareggio di bilancio nel 1937. Inoltre, non essendo in quegli anni migliorato il livello della domanda internazionale, il progetto di dare nuova linfa alla ripresa della produzione finì per creare le potenziali condizioni per una nuova crisi. 

L’indice della produzione industriale Usa, dopo aver toccato ad inizio del 1937 il valore di 99, nei mesi successivi intraprese una nuova ricaduta fino a 66,5 determinando una nuova espansione della massa dei disoccupati che oscillò fra i 13 e 14 milioni di unità. L’economia statunitense scivolò quindi nuovamente in recessione nel secondo semestre del 1937, rimanendoci per 13 mesi consecutivi fino alla seconda metà del 1938. La produzione industriale subì un grave contraccolpo contraendosi di quasi il 30% e la disoccupazione dal 14,3% del maggio 1937 salì nuovamente al 19,0% del giugno del 1938, ritornando allo stesso livello del 1934.

Il governo statunitense a partire dalla primavera del 1938 fu costretto ad attuare un grande piano di acquisti per sostenere la domanda interna ed evitare un ulteriore aggravamento della situazione socio-economica, determinando un nuovo aggravamento del deficit federale che infatti tornò a superare i 4 miliardi di dollari nel 1939. 

L’economia statunitense non fu in grado fin o all’inizio del 1939 di trovare al suo interno la via d’uscita dalla crisi economica strutturale che l’attanagliava da un decennio e il New Deal non riuscì nelle finalità a causa delle resistenze di matrice economica, politica e giuridica che portarono al suo depotenziamento. 

Per fortuna siamo riusciti a reperire tutta una serie di dati economici e sociali affidabili contenuti in una saggio del 1955 sull’economia Usa del  geografo marxista francese, Pierre George, dal cui studio abbiamo ricavato queste evidenze.

D. Quindi dalla vostra ricerca emerge che il New Deal non risultò in definitiva l’elemento risolutore e che il ricorso all’economia di guerra sia stato nevralgico per le sorti dell’economia Usa?

R. Sì, dai dati in nostro possesso e che abbiamo pubblicato nel saggio, risulta che l’economia statunitense iniziò a risollevarsi e successivamente a svilupparsi solo quando l’amministrazione fu costretta a esorbitanti spese federali per sostenere lo sforzo bellico, sia in modo indiretto durante la prima fase del conflitto, ma soprattutto successivamente con il coinvolgimento diretto. Infatti, lo scoppio della Seconda guerra mondiale, il 1° settembre 1939, fornì una prima importante spinta all’economia statunitense grazie alle forniture militari, industriali e agricole destinate ai paesi europei alleati, e una successiva accelerazione dopo l’8 dicembre 1941 con l’ingresso nel conflitto. Gli incrementi maggiori riguardarono i comparti della cantieristica navale (+5.500%), dell’industria aeronautica (+1.300%) e della produzione di macchine utensili +650%), in quanto l’economia di guerra statunitense, principalmente a partire dal 1942, si concentrò sul ringiovanimento delle strumentazioni produttive, sull’ampliamento della base industriale e sulla realizzazione di una imponente flotta da trasporto. 

In sostanza, l’economia di guerra Usa conobbe in quegli anni un’eccezionale crescita tant’è che fra il 1939 e il 1944 la produzione nazionale quasi raddoppiò e la disoccupazione dal 14% del 1940 scese a meno del 2% nel 1943, con la forza lavoro impiegata che crebbe di oltre quindici milioni di unità in soli 5 anni. Gli Stati Uniti raggiunsero nel 1944 un livello di produzione industriale pari a 200 miliardi di dollari, dei quali, ben 98 miliardi risultavano frutto dell’imponente domanda federale comprendente anche la parte di aiuti destinati ai Paesi alleati in base agli accordi della legge “Prestiti e Affitti”, la “Lend-Lease Act”, che era stata approvata dal Congresso su input di Roosevelt l’11 marzo 1941, prima dell’ingresso diretto nel conflitto.

In quegli anni l’amministrazione federale anticipò 18 miliardi di dollari a scopi produttivi, una cifra enorme considerato che il valore dell’apparato industriale statunitense nel 1939 era stimato nell’ordine di 22,5 miliardi di dollari diventando, dopo lo scoppio della guerra, proprietaria di circa 3.000 officine e cantieri. La dinamica del ciclo economico risultò quindi strettamente interconnessa al livello degli acquisti statali, tant’è che il bilancio federale ne uscì fortemente dilatato e, al pari del deficit, il debito pubblico subì una rapida impennata più che triplicando dal 40% del Pil del 1938 ad oltre il 120% peraltro anch’esso in fase di rapida espansione. 

Un paradigmatico esempio di modello economico che alcuni oggi definiscono keyenesismo militare e che recentemente è tornato alla ribalta a seguito della guerra in Ucraina e non solo. 

D. secondo voi, quali lezioni possiamo trarre da questo studio? 

R. In primis che il liberismo genera forti squilibri economici che sfociano ciclicamente in crisi. Il capitalismo in versione lassez faire crea una situazione particolarmente propizia per le oligarchie produttive e speculative, le quali possono sfruttare a proprio vantaggio la deregolamentazione e lo spazio lasciato libero dall’assenza dello Stato sia come soggetto economico sia come capacità di indirizzo delle politiche economiche, di controllo e di redistribuzione della ricchezza tramite il Welfare state. Quando questa dinamica capitalistica sfocia inevitabilmente in crisi, a quel punto anche i liberisti più sfrenati auspicano l’intervento dello stato per rimediare ai danni economici e sociali, scaricando i costi dei loro profitti sulla collettività. La cosiddetta “privatizzazione degli utili e la socializzazione delle perdite”. Così è stato negli Usa dopo sia dopo la crisi del ’29 sia del 2008-9.

In secondo luogo, che il “New deal” raggiunse solo parzialmente i suoi scopi perché venne depotenziato dalla Corte Suprema e che nonostante gli interventi successivi dell’amministrazione Roosevelt, gli Usa scesero di nuovo in recessione a cavallo fra il 1937 e il 1938. Di questa ricaduta non tratta quasi nessun testo di storia. Quindi il “New Deal” arrestò la caduta e tentò la ripresa ma non la raggiunse in quanto depotenziato dal colpo di coda dei grandi trust statunitensi.  

Terzo, che l’economia Usa riuscì a riprendersi grazie all’imponente domanda pubblica in deficit e all’intervento dello Stato nell’economia per far fronte allo sforzo bellico. Quello che oggi viene definito Keynesismo militare, adottato gioco-forza a seguito della guerra mondiale, si rivelò determinante sia per l’uscita dalla Grande Depressione, sia per la vertiginosa crescita economica che impresse, lanciando gli Usa verso il ruolo di superpotenza globale, anche alla luce delle mancate distruzioni avvenute sul territorio continentale degli Usa. 

Quarto, come rileva puntualmente Pierre George, l’economia di guerra Usa comportò un enorme dispiegamento di lavoratori e militari, almeno 18 milioni, lasciando in eredità la complessa questione della loro riassorbimento nell’economia di pace della fase post bellica, insieme alla problematica conversione del mastodontico apparato produttivo creato durante il conflitto. Ciò che Pierre George definisce la “razionalizzazione” delle forze produttive, indotta dall’innovazione tecnologica, determinò una generale diminuzione delle ore di lavoro per unità di prodotto, con inevitabili riflessi negativi sui livelli occupazionali, rendendo più ardua l’opera di riallocazione della manodopera. Quindi, l’economia di guerra portò una enorme crescita ma lasciò anche significativi squilibri in eredità, fra cui la riconversione dell’apparato produttivo, la cui risoluzione non risultò particolarmente agevole, anche perché perseguita nuovamente sotto i dogmi liberisti, riesumati dal neo presidente Truman al termine del conflitto.

Per oggi abbiamo già toccato tutta una serie di questioni abbastanza complesse e ridefinito l’effettiva portata del New Deal e l’importanza dell’economia di guerra Usa del 1939-45 per l’uscita dalla Grande Depressione. Direi che se vi è interesse, per quanto riguarda i parallelismi e l’attualizzazione nella realtà odierna dell’economia di guerra, o neokeynesismo militare come oggi qualcuno la definisce, potremmo nuovamente discuterne a breve. 

Grazie Andrea, sarà interessante concludere il discorso approfittando della vostra disponibilità. Intanto rimandiamo il lettore volenteroso al saggio completo e assai documentato di cui forniamo nuovamente il link: https://giuliochinappi.wordpress.com/2024/09/11/leconomia-di-guerra-concetto-e-sguardo-retrospettivo-nel-contesto-del-caso-di-studio-degli-stati-uniti/.

Immagine: Howard R. Hollem, Public domain, via Wikimedia Commons

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