Alla sorgente del riscaldamento globale e dell’inquinamento

di Mario D’Acunto

Il riscaldamento globale è un prodotto del modo di produzione capitalistico caratterizzato dalla doppia contraddizione capitale-lavoro e capitale-natura in quanto i rapporti di produzione e i rapporti di proprietà concorrono al doppio sfruttamento della forza-lavoro e delle risorse naturali. Le emissioni di gas serra si sono accentuate in modo massiccio negli ultimi cinquant’anni, anche in seguito alla rottura unilaterale da parte degli Usa degli accordi di Bretton-Woods, che da allora hanno legato stretto l’emissione di dollari ai combustibili fossili generando quel signoraggio del dollaro che ha visto aumentare di pari passo la quantità di dollari circolanti nel mondo e la concentrazione di gas serra. L’unica soluzione per affrontare il riscaldamento globale è superare il modo di produzione capitalista e affermare una produzione orientata ai bisogni e non al profitto.

La cronaca ci presenta disastri ambientali ormai con cadenza quasi giornaliera, in questi giorni la tempesta Boris, dopo aver inondato mezza Europa si è scatenata in Emilia Romagna, in molti casi nelle stesse zone già colpite da una devastante alluvione del maggio 2023. La prossima devastazione dovuta alle modifiche del clima potrà avvenire in qualsiasi area del paese, probabilmente in quelle stesse zone devastate (Sicilia, Sardegna) da una siccità che ha messo in ginocchio allevatori e contadini. Del resto è ormai esperienza comune che i cambiamenti delle temperature possono passare da picchi record o abbassarsi drasticamente in poche ore.

Negli ultimi sei o sette anni, dopo che per circa mezzo secolo gli avvertimenti della comunità scientifica sul riscaldamento globale sono stati del tutto ignorati, il termine cambiamento climatico è diventato patrimonio pubblico anche dei grandi Fondi di Investimento come BlackRock, o abbiamo visto Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, annunciare fantomatici programmi di Green Economy. Del resto l’auto elettrica è stata eletta a livello planetario simbolo di una ipotetica transizione ecologica. Gli allarmi sul clima dei soggetti appena citati sono sempre accompagnati dalla richiesta di consumare prodotti green rendendo implicito il concetto che la lotta al cambiamento climatico dipende dalle scelte dei singoli consumatori.

Ciò che invece è successo è che il clima è entrato nello scontro (per ora economico) con l’emergere della Cina o di paesi come l’India che hanno avuto un ruolo fondamentale nella filiera produttiva per molte multinazionali di matrice Usa ed Europea. La green economy rappresenta una sorta di tentativo di sostituire i dazi bloccando i prodotti che hanno un valore incorporato generato da aziende non europee o statunitensi. Ma se la green economy è una fake economica, e i meccanismi di decarbonizzazione sono impossibili da realizzare, gli effetti del riscaldamento globale sono anch’essi una fake?

No, assolutamente. I cosiddetti 1.5 gradi di aumento delle temperature medie a livello globale sono un dato altamente sottostimato che nasce dalle negoziazioni all’interno dell’Ipcc (International Panel on Climate Change), una struttura dell’Onu che mette insieme governi e scienziati. In realtà studi molto rigorosi della comunità scientifica segnalano aumenti di temperatura medi in molte aree del globo pari a circa 5 gradi centigradi. La questione allora è: se il riscaldamento globale è una terribile realtà con cui dobbiamo fare i conti, da dove nasce il problema? 

Uno degli indicatori comunemente accettati è l’emissione di gas serra, quali l’anidride carbonica, CO2 oggi con una concentrazione media di 417 ppm, oppure il metano, che ha oltre un fattore serra decine di volte superiore all’anidride carbonica ed è responsabile per circa il 30% dell’effetto serra combinato da parte dei vari gas emessi. Inoltre, al di là del riscaldamento globale, su cui giustamente si sono accesi i riflettori dell’opinione pubblica, ci sono aspetti a esso collegati di cui non si discute a sufficienza. Uno dei prodotti che nasce dalla trasformazione dei combustibili fossili è la plastica, un materiale artificiale con proprietà straordinarie ma che viene usato in modo massiccio e improprio e disperso dopo un solo utilizzo, che rappresenta uno dei fattori di rischio maggiori per la salute degli esseri viventi. Presente ormai sotto forma di micro e nanoplastiche, abbiamo ormai ognuno/a di noi nel nostro sangue tracce pericolose di plastica, il cui uso insensato rappresenta un pericolo di cui si parla ancora poco proprio a causa del fatto che gli interessi dei grandi fondi di investimento non contemplano questa minaccia.

I meccanismi della crescita dei gas serra negli ultimi cinquant’anni sono stato descritti nel mio recente libro Capitalismo, finanza riscaldamento globale, il cui sottotitolo non a caso è Transizione ecologica o transizione al socialismo?. In questo testo dimostro come il signoraggio del dollaro, quale testimone della produzione capitalista degli ultimi decenni, sia uno dei meccanismi che stanno alla base dell’accelerazione dell’emissione gas serra. Dunque se il modo di produzione capitalista deve essere messo sul banco degli imputati, l’interpretazione di tale modo di produzione da parte degli Stati Uniti per mantenerne l’egemonia e controllo ha rappresentato un enorme catalizzatore di modifiche ambientali e climatiche. 

In breve le tappe di tale crescita possono essere così descritte. 

Il 15 agosto 1971 gli Stati Uniti chiudono in modo unilaterale gli accordi di Bretton Woods, un sistema di tipo gold exchange standard, basato su rapporti di cambio fissi tra le valute, tutte agganciate al dollaro, il quale a sua volta era agganciato all’oro, in pratica un sistema di cambi fissi tra le trentacinque valute più importanti dei paesi occidentali, che dalla fine della seconda guerra mondiale avevano regolato gli scambi commerciali evitando che interventi sulle singole valute potessero creare degli squilibri, per esempio delle svalutazioni competitive. Sebbene il sistema fosse dollarocentrico, per cui i commerci internazionali avvenivano soprattutto in dollari, non a caso, i prezzi delle materie prime, come il petrolio, erano espresse in dollari, la rottura di questi accordi permisero all’imperialismo di matrice Usa di agganciare il dollaro non più all’oro (come previsto dagli accordi di Bretton Woods) ma al petrolio e ai combustibili fossili in generale. Il processo fisico di scambio dollaro-oro o dollaro-petrolio è evidente, l’oro è un metallo di puro riferimento di valore, le cui riserve sono limitate e crescono lentamente, il petrolio, invece con le sue enormi riserve permette di essere estratto, di essere utilizzato per far funzionare la società e controllato. Infatti, in quanto elemento energetico, chi ne possiede le riserve permette di controllare le economie dei paesi che non ne hanno. Non a caso, all’inizio degli anni ’70, i due principali estrattori di greggio sono gli Usa e l’Urss, seguiti da Arabia Saudita, Iraq, Kuwait, Emirati Arabi Uniti. Quello che infatti successe, come prima conseguenza della rottura degli accordi di Bretton Woods, fu la crisi petrolifera di fine 1973, che impose ai paesi europei di pagare una bolletta energetica fino ad allora piuttosto marginale generando così una inflazione di background che andò a incidere il regime di piena occupazione che aveva caratterizzato le economie dei paesi del blocco Nato nei due decenni e mezzo post seconda guerra mondiale. Da allora i processi di precarizzazione del lavoro saranno una costante per le economie più avanzate. 

Un’altra conseguenza è stata quella di un utilizzo sempre più massiccio dei combustibili fossili come uniche fonti energetiche per un pianeta che negli ultimi cinque decenni ha visto crescere la popolazione mondiale, ha visto emergere nuove economie energivore come quelle tradizionali più avanzate, ha visto crescere il consumo di merci sempre più complesse il cui impatto di emissioni serra è più elevato, infine ha visto il sistema di produzione capitalistico creare sprechi assurdi dovuti ai connotati della produzione orientata al profitto, caratterizzata dall’anarchia produttiva volta alla massimizzazione del prodotto in presenza di un processo distributivo non adeguato. Per fare un esempio, in agricoltura si produce quotidianamente cibo per dodici miliardi di persone, tuttavia quasi metà di questo cibo non viene utilizzato, ma distrutto. A fronte di una popolazione mondiale di otto miliardi di individui, quasi un miliardo di abitanti del pianeta non hanno accesso sufficiente al cibo, o, addirittura soffrono la fame. Per produrre tutta questa quantità di cibo, si utilizzano il 70% dei combustibili fossili e circa l’85% delle risorse idriche del pianeta. Le derrate alimentari vengono quotate nella borsa di Chicago e vengono vendute e comprate dalla speculazione finanziaria in media sette volte prima che queste vengano movimentate per raggiungere le destinazioni di trasformazione. 

La massiccia emissione di gas serra si è accompagnata quindi anche alla massiccia emissione di dollari quale valuta di scambio internazionalmente accettata. Questa enorme emissione di dollari (come ebbe a dire il segretario del tesoro John Connely, “il dollaro è la nostra moneta ma il vostro problema” riferendosi al resto del pianeta) ha imposto al mondo il signoraggio all’economia degli Stati Uniti, che ha regolato l’economia del mondo almeno fino alla crisi del 2007-2008, con il processo di allargamento delle filiere produttive che va sotto il nome di globalizzazione. A difesa di questi interessi, un esercito e un apparato industriale-militare che sostiene settecento basi militari in ottanta paesi. 

Quindi il problema del riscaldamento globale è l’irrazionale sistema capitalistico di produzione, che essendo orientato ai profitti non tiene conto del processo distributivo relegando a un ipotetico demiurgo, il mercato, la riequilibratura tra domanda e offerta tramite i prezzi di scambio. 

L’unica possibile soluzione ad affrontare il problema del riscaldamento globale è quello di cambiare modo di produzione. Avere una produzione orientata ai bisogni invece che alla realizzazione del profitto fine a sé stesso. Per raggiungere questo tipo di produzione occorre che la collettività controlli i mezzi di produzione, pianificando la produzione in modo razionale decidendo cosa produrre e in che quantità gestendo le risorse in modo sensato realizzando un corto circuito tra produzione e distribuzione. Solo attraverso una economia pianificata di questo tipo possiamo affrontare le notevoli sfide che il riscaldamento globale e l’inquinamento del pianeta ci pongono e che non sono più derogabili. Lo sforzo dovrà essere quello di superare il modo di produzione capitalistico e realizzare un disegno di società più giusto e razionale, possiamo chiamarlo come vogliamo, ma che invariabilmente contenga in sé il controllo sociale dei mezzi di produzione. 

Immagine: Timothy Akolamazima, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0&gt;, via Wikimedia Commons

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