di Andrea Molteni
Riprendiamo questo articolo, pubblicato dall’Osservatorio carcere e territorio di Milano sui propri canali, che offre un’utile spunto alla riflessione su una questione, quella carceraria, spesso trascurata dai vari ambiti dell’impegno politico, nonostante si susseguano fatti di cronaca agghiaccianti, sotto il silenzio quasi totale dei media mainstream.
Siamo rimasti ancora una volta attoniti di fronte all’ennesima morte insensata e inaccettabile avvenuta nel carcere milanese di San Vittore. Youssef Mokhtar Loka Barsom è morto nella sua cella incendiata, senza che gli agenti intervenuti potessero salvarlo. Youssef aveva solo 18 anni e già una vita di difficoltà e sofferenze alle spalle.
Youssef è solo l’ultimo di una insopportabilmente lunga – davvero troppo lunga – lista di persone morte in carcere quest’anno: 180 secondo il conteggio di Ristretti Orizzonti. Settantatré di loro sono morte per suicidio accertato, un numero già di per sé impressionante a cui andrebbero aggiunti i probabili suicidi, registrati sotto un’altra voce, e i tentativi di suicidio. Il giorno precedente alla morte di Youssef un uomo detenuto anch’egli a San Vittore aveva tentato il suicidio inalando gas dal fornelletto in dotazione. Pochi giorni dopo un altro ragazzo, nello stesso reparto di Youssef, ha incendiato il materasso nella propria cella finendo ustionato in ospedale.
È davvero finito il tempo degli eufemismi: il carcere, questo carcere sovraffollato e spietato, uccide. Uccide la speranza, uccide le persone.
Troppi morti di questi anni sono giovani e giovanissimi. Tutti con storie familiari e sociali travagliate alle spalle, molto spesso con vissuti di grave sofferenza, anche mentale. Perché erano in carcere? Perché hanno potuto suicidarsi nelle strutture che dovevano “custodirli”? Perché non siamo più capaci di affrontare diversamente una questione giovanile che, evidentemente, è sfuggita totalmente alle maglie della cura familiare, scolastica, sociale, sanitaria?
Mentre ci interroghiamo sul fallimento evitabile delle politiche sociali e giovanili veniamo a sapere, ma speriamo di essere smentiti, che sempre più spesso giovani detenuti nel carcere minorile Cesare Beccaria vengono trasferiti, al compimento della maggiore età, in istituti penitenziari per adulti, in barba al diritto e al buon senso, e in spregio del nome stesso di quell’istituto. Anche la situazione del carcere minorile è allo sbando, come si è purtroppo visto negli ultimi mesi, con le indagini in corso per episodi di violenza e maltrattamenti ai danni dei ragazzi detenuti, con le rivolte, gli incendi nelle sezioni detentive e nelle celle, le evasioni, gli atti di autolesionismo.
Di nuovo: non è più tempo di eufemismi.
Basaglia, di cui stiamo ancora celebrando il centenario, diceva che i manicomi erano istituzioni della violenza. Quella violenza oggi si è del tutto travasata dentro l’istituzione carceraria.
I provvedimenti presi o paventati dal governo non sono solo insufficienti, ma pesano come macigni su una situazione già insostenibile, in nome di un malinteso senso della giustizia, di una retorica giustizialista che serve solo a compattare intorno a un nemico, debole e senza voce, un diffuso disagio a cui non si è capaci di dare nome e risposte concrete. Si tratta di una ragione politica fondata sulla rabbia e sul nemico: le donne incinte che devono finire in galera, fregandosene dei figli che lì nasceranno e cresceranno per i primi fondamentali anni della propria vita; i giovani raccontati come violenti e ingestibili, magari minori stranieri non accompagnati a cui non si sanno o vogliono offrire prospettive di integrazione e un’idea di futuro; i disperati che commettono reati dettati dalla loro difficile situazione e che, non avendo casa, famiglia, risorse su cui contare per una misura alternativa, finiscono in galera; le persone con problemi di abuso di alcol e sostanze, che magari finiscono per essere i terminali sfruttati della catena dello spaccio. La propaganda ci consegna così un perfetto capro espiatorio, costruito attraverso retoriche con la bava alla bocca, che si avventano, mai sazie, su quei pochi casi di reati molto gravi e violenti che magari occupano le pagine dei giornali per molti e molti giorni, sfruttando un diffuso voyeurismo del macabro.
Finito il tempo degli eufemismi è ora di tornare al coraggio delle parole giuste.
La prima è “amnistia”: cioè ammettere l’impossibilità di governare l’istituzione penitenziaria nelle condizioni in cui versa oggi e ribadire il primato della dignità umana sul desiderio di vendetta sociale anticipando la fine della pena per chi, in ogni caso, è destinato a uscire dal carcere nei prossimi anni. La seconda è “giustizia”: correttamente intesa, innanzitutto, come giustizia sociale prima che penale; vuol dire, per esempio, garantire l’accesso alle misure alternative anche a chi non ha le risorse economiche per “potersele permettere”. La terza è “depenalizzazione”: la saggezza politica di sfrondare un codice penale ipertrofico da tutti quei reati, accumulati nel tempo, per cui il carcere e la giustizia penale non rappresentano una soluzione e di investire invece in politiche sanitarie, sociali e giovanili, che sono più efficaci e meno costose. Poi, ancora, “emergenza”: quella in cui versa l’istituzione penitenziaria, che andrebbe affrontata per quello che è, con mezzi e azioni straordinarie e urgenti, come si fa quando ci si trova di fronte a una catastrofe. Infine, “compassione”: da opporre all’indifferenza generale in cui si sta compiendo questa inaudita strage carceraria.
Immagine: Foto di Michael Jasmund su Unsplash
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