di Adriana Bernardeschi
Il genocidio sionista in Palestina e la strategia di guerra totale della Nato sono il colpo di coda dell’imperialismo occidentale morente. È necessario riconnettere lotta di classe, mobilitazione per la pace e vertenze sociali, oltre le ipocrisie liberal, contro la repressione e il modello di società della destra.
Il genocidio in atto in Palestina compie un anno. I dati Ocha di oggi portano la quota di morti nella striscia di Gaza a 41.689, con quasi due milioni di persone sfollate. Secondo un rapporto Oxfam diffuso ieri, fra le vittime 6.000 sono donne e 11.000 bambini: il numero più alto rispetto a qualsiasi conflitto degli ultimi 20 anni, considerando lo stesso lasso di tempo. Queste cifre, già di per sé agghiaccianti, non comprendono le circa 20.000 persone non identificate, disperse o sepolte sotto le macerie. Uno studio pubblicato pochi mesi fa su «Lancet» ha stimato che il numero reale di morti, considerando anche quelle indirette causate dalla drammatica situazione umanitaria e sanitaria prodotta dalla distruzione sistematica delle infrastrutture civili, potrebbe superare i 186.000.
Questa aberrazione è andata avanti e sta proseguendo in diretta streaming: nonostante la (dis)informazione mainstream e le sue manipolazioni, arriva agli occhi della gente un susseguirsi di immagini raccapriccianti alle quali quasi ci si abitua, nello straniamento provocato da una percezione di “distanza” fra noi e quell’inferno sulla terra.
Ma questa distanza è un’illusione: il mondo intero sta prendendo fuoco, un fuoco appiccato dalla bestia morente dell’imperialismo occidentale che ha bisogno della guerra come del pane.
La guerra in Ucraina, iniziata con il colpo di Stato del 2014 a regia Usa e portata avanti per otto anni dalle milizie neonaziste del governo illegittimo di Kiev con le violenze in Donbass, sotto il silenzio complice del mondo occidentale, e proseguita con l’operazione speciale russa scientemente provocata e cercata dagli Usa attraverso il metodico inficiamento di ogni tentativo di risoluzione diplomatica e il disattendimento sfacciato dei pochi accordi fatti, ha compiuto unulteriore salto di qualità con la recente risoluzione del Parlamento europeo che autorizza l’uso delle armi fornite da paesi occidentali in territorio russo – avvenimento che ha messo in luce la pochezza di una sinistra più “liberal” che “radical”, paladina dei diritti civili ma completamente subalterna al potere che nega quelli sociali, ipocritamente sostenitrice di un pacifismo astratto di facciata ma prona ad accettare la guerra come elemento strutturale del sistema.
In pochi giorni, al sistematico genocidio in Palestina si sono aggiunti gli attacchi israeliani al Libano e alla Siria, anch’essi portati avanti nel più sfacciato sprezzo del diritto internazionale, con metodiche criminali sostenute dal senso di impunità generale dettato dal doppio standard occidentale in materia di azioni di guerra, classificate come “invasioni” o, al contrario, come “autodifesa” in base ai propri interessi politici ed economici.
Infine, pochissimi giorni fa, i razzi iraniani su territorio israeliano, risposta prevista e quasi scontata dopo le violente azioni militari da parte di Israele nei paesi adiacenti e dopo che sono stati assassinati Ismail Haniyeh e Hassan Nasr Allah… risposta voluta e cercata perché si è ritenuto vantaggioso un allargamento del conflitto.
In questo scenario apocalittico, al quale si innesta, nei paesi occidentali, una stretta repressiva di tutti i sommovimenti sociali e del dissenso sotto ogni forma – si pensi, in Italia, al nuovo disegno di legge sulla sicurezza, il 1660, che colpisce il conflitto sociale in tutte le sue sfaccettature e ci proietta in uno stato di polizia –, la lotta di classe fatica a svegliarsi dal torpore.
Per la verità, lo sdegno per il genocidio è stato molto vistoso, tenendo anche conto del ruolo nefasto dell’informazione mistificata a fare da freno alle coscienze. E infatti la repressione ha assunto forme violente che non si vedevano da alcuni decenni. Tuttavia, a fronte di questo coraggioso movimento pro-Palestina, in cui gli studenti hanno avuto il ruolo maggiore, permane una difficoltà di fondo a sviluppare una lotta di insieme che coniughi la battaglia per la pace a quella di classe a tutto tondo: contro lo sfruttamento e la precarizzazione del lavoro, contro la militarizzazione dei territori, delle istituzioni preposte all’istruzione, dei confini che respingono i migranti, contro lo scempio ambientale, contro lo smantellamento dei servizi pubblici a beneficio degli interessi economici transnazionali, contro le sanzioni autolesionistiche alla Russia che stanno gettando i paesi dell’Unione Europea nella deindustrializzazione e nella recessione.
Come ha detto Antonio Mazzeo in un’intervista per il nostro giornale che verrà presto pubblicata, siamo di fronte a un tentativo di disarticolazione del conflitto sociale, reso innocuo perché fatto a brani.
La nostra risposta, dunque, non può che essere un impegno a riarticolare, riconnettere i pezzi, fare rete, promuovere azione solidale fra i diversi soggetti conflittuali, fra le istanze apparentemente territoriali ma che hanno una logica globale, tenere tutto insieme perché solo così si può tener testa a un sistema di salvaguardia di interessi imperialistici transnazionali che non disdegna di rigurgitare la sua finta democrazia borghese mostrando l’altra faccia della medaglia, quella che noi abbiamo conosciuto nel Ventennio ma che può prendere innumerevoli forme aggiornate.
Questo dunque ciò che dobbiamo fare, trovando una buona dose di coraggio che i tempi duri richiedono.
Ritornando alla Palestina, non si può tacere su tutta un’area di “sinistra” che ha assunto fin dal 7 ottobre dello scorso anno toni insopportabilmente paternalistici sulla Resistenza di quel popolo, toni dettati da un’abitudine al ragionamento eurocentrico, o forse sarebbe meglio dire occidente-centrico, toni supponenti di presunta superiorità in termini sociali e di democrazia. Ecco quindi che sì, si è condannato il massacro a Gaza, ma rimarcando una forte condanna a Hamas, peraltro in spregio di una sproporzione di vittime che rende questo bisogno di condanna risibile se non offensivo per le vittime stesse e sotto l’accoglimento acritico dell’informazione del regime sionista. Si sostiene il popolo palestinese ma si fanno mille distinguo sulle varie “aree ideologiche” della sua Resistenza, storcendo il naso su quelle meno occidentalmente accettabili perché di stampo islamico o con caratteristiche meno affini al nostro modello di “democrazia”. Senza minimamente comprendere che certe correnti più estreme hanno potuto diventare egemoni perché le altre sono state abbandonate dal mondo “unipolare” intero, soprattutto dopo la caduta dell’Urss. Questi distinguo non solo fanno male alla causa palestinese, ma avvelenano anche la battaglia complessiva antimperialista e anticapitalista, già frammentata da tempo, ne ottundono la potenza, disarticolano, appunto.
Noi saremo in tutte le piazze dove si lotta contro la guerra, contro le contraddizioni di questo modello sociale ed economico che massacra la classe lavoratrice, che nega un futuro alle nuove generazioni, che ricorre ormai quasi solo alla violenza per sopravvivere. Scendere in piazza per la Palestina, come abbiamo fatto in ogni città, ogni settimana, per tutto questo anno di genocidio, comprende tutto questo.
Aspettiamoci ostacoli ardui alla nostra lotta: il disegno di legge 1660 sulla sicurezza cui accennavo all’inizio, nella sua azione fortemente repressiva in tutti gli ambiti della società, strangola fortemente gli spazi democratici di espressione del dissenso e del conflitto sociale, anche nelle forme più pacifiche. Chi fa un sit-in, chi protesta davanti al cancello di una fabbrica, che compie un atto dimostrativo non violento, rischia il carcere. E lo stato di polizia che queste norme vogliono ratificare e potenziare è quello in cui è nato il divieto della questura alla manifestazione che era stata organizzata unitariamente per oggi a Roma: un atto gravissimo e un campanello di allarme che prefigura scenari molto bui per la libertà di espressione garantita anche dalla nostra Costituzione. Viene spontaneo pensare al fatto che nella repubblica nata dalla Resistenza i fascisti possono liberamente manifestare e celebrarsi in via Acca Larentia, mentre viene impedito a chi si oppone al genocidio sionista e fascista di scendere in piazza. Mi sono imbattuta, a questo riguardo, persino in un comunicato di Amnesty International (consideriamo anch’essa antisemita o esagitata?) che ha preso posizione sulla vicenda spiegando come “il diritto di protesta è protetto da diverse disposizioni sui diritti umani” e “gli standard internazionali … specificano che le restrizioni necessarie dovrebbero essere ‘neutrali rispetto al contenuto’”, ossia non sono le parole d’ordine della protesta a poter essere addotte a causa del divieto, e che “Questi principi non sembrano essere stati rispettati nel prendere questa decisione di diniego della piazza.”
Viene dunque negato un diritto fondamentale, ma la nostra lotta di liberazione deve continuare e continua.
Per citare e correggere un’affermazione recente, noi siamo dalla parte degli oppressi, e in questo momento gli oppressi sono i palestinesi.
Riferimenti:
ochaopt.org/content/reported-impact-snapshot-gaza-strip-2-october-2024
oxfamitalia.org/documento/gaza-un-anno-dopo/
thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(24)01169-3/fulltext
amnesty.it/dichiarazione-sul-divieto-di-manifestare-il-5-ottobre-a-roma-per-la-palestina/
Immagine: mozalbo, CC BY-SA 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0>, via Wikimedia Commons
Lascia un commento