Il buon cinema italiano

Campo di battaglia e Vermiglio

di Laura Baldelli

Il cinema italiano al Festival internazionale del Cinema di Venezia 2024 ha presentato due film che raccontano la storia degli italiani nello sfondo delle due guerre mondiali. Infatti, Campo di battaglia di Gianni Amelio ci racconta la Grande Guerra attraverso gli ospedali dove i soldati feriti dalle nuove armi di distruzione di massa, appena in grado di stare in piedi, venivano rispediti al fronte e nelle trincee, anche se non erano in grado di combattere; Vermiglio di Maura Delpero è ambientato in Trentino durante la Seconda guerra mondiale. In entrambi i film non ci sono immagini di guerra, piuttosto le conseguenze nella vita quotidiana sociale e individuale, rifuggendo quella guerra-avventura che il cinema ha costruito nel nostro immaginario collettivo; entrambi hanno scelto una narrazione dal tempo disteso, consona al vissuto temporale dell’epoca, che oggi non sappiamo neanche immaginare, tanto siamo intrappolati nel vortice del tempo della modernità.

Campo di battaglia è un film d’ispirazione letteraria, che trae idea dal romanzo di Carlo Patriarca La sfida e dal racconto di Federico De Roberto La paura; firma la sceneggiatura lo stesso Amelio con Alberto Taraglio, partecipa alla produzione anche Rai Cinema, la fotografia di Luan Amelio Ujkaj svolge un ruolo spazio-temporale così intenso da portarci indietro in un’epoca lontana più di 100 anni e, per la prima volta, il direttore della fotografia sperimenta il digitale con la camera Alexa 35 e molte riprese sono state girate con la camera in spalla come nel cinema classico. Ujkaj ha un sodalizio professionale con Amelio che dura da molti lavori, tanto che le ambientazioni vengono scelte assieme dopo i sopralluoghi.

La storia racconta, nello sfondo del primo conflitto mondiale, i temi dell’orrore della guerra tra mutilazioni e traumi emotivi, le differenze e le ingiustizie tra le classi sociali, il fanatismo bellico spacciato per patriottismo, il ruolo dei medici e della medicina nel rapporto con il potere politico; ma la guerra scatena e inasprisce anche competizioni e conflitti personali come accade ai due medici protagonisti, amici e compagni di studi che lavorano nello stesso ospedale militare, ma con visioni del mondo e della cura molto lontane: il primo, accecato dal nazionalismo imperialista, combatte le diserzioni rispedendo al fronte tutti i soldati feriti, anche se non idonei, mentre l’altro cerca di favorirne l’esonero, aggravandone le condizioni, pur di salvarli dalla morte certa. Gli attori Gabriel Montesi e Alessandro Borghi sono straordinariamente intensi, immersi nei sentimenti dei valori morali e politici dell’epoca: dal fanatismo guerrafondaio alla coscienza che si ribella allo sterminio di massa, dove i proletari sono carne da macello, con un doloroso travaglio interiore che comunque porta ad una specie di martirio. Il film racconta anche della “febbre spagnola”, l’epidemia dell’influenza che attraversò l’Europa, causando milioni di vittime anche dopo la guerra e che oggi vengono conteggiate tra i morti causati dal conflitto. Quella pandemia fu negata, nascosta e affrontata senza mezzi, anche la denominazione “influenza spagnola” fu inadeguata, visto che la Spagna non era coinvolta nel conflitto e molto probabilmente il morbo arrivò dopo l’entrata in guerra degli Usa. Amelio, anche in questo film, riproduce la dimensione claustrofobica, che caratterizza i suoi lavori, con l’ambientazione nell’ospedale militare e la segregazione dei malati di febbre spagnola nel rifugio-prigione segreto. Non è un film bellico, è un film storico, ad alta tensione drammatica.

La prima comunicazione di massa manipolò e occultò le verità per direzionare le coscienze, così la prima guerra fotografata e filmata fu oggetto di controllo con pesanti censure in tutte le cosiddette democrazie liberali; purtroppo, anche dopo le nuove democrazie post-Seconda Guerra mondiale, l’informazione non ha avuto spazi di verità e l’Italia con i suoi misteri e segreti di Stato ha ostacolato e ostacola la realizzazione della propria democrazia compiuta.

Cambiando epoca, Vermiglio è altrettanto un film non bellico, ma storico e drammatico, ambientato tra le nevi di Vermiglio, un piccolo paese in val di Sole in Trentino, caro alla regista perché luogo della sua famiglia paterna. La guerra è fuori campo, ma incombe come nel film di Zurlini Il deserto dei Tartari, tratto dalle atmosfere dell’omonimo romanzo di Buzzati, dove il nemico è invisibile, ma condiziona la vita.

Tutti hanno tirato in ballo L’albero degli zoccoli di Olmi ma, oltre l’uso del dialetto, non ci sono punti d’incontro, mentre si avvicina alle molte tematiche storico-sociali della cinematografia di Giorgio Diritti. Vermiglio è un lavoro complesso perché la forza della sua narrazione sta nel muoversi tra la pace e la guerra, tra la paura e la tranquillità, tra il consapevole e l’inconscio, tra la realtà e il sogno, tra la vita e la morte, tra la valle e le cime, tra la libertà e le costrizioni socio-politiche. Le atmosfere delle immagini sono il risultato della fotografia di Mikhail Krichman, che rifiuta le immagini cartolina delle Dolomiti, mentre dà realismo alle scenografie di Zito e Pirra; il montaggio sostiene la regìa della Delpero che è riuscita a dirigere attori professionisti del calibro di Tommaso Ragno, assieme a quelli presi dalla strada e soprattutto ai bambini. La fonetica dialettale, la presa diretta audio, le musiche popolari e le incursioni delle arie delle opere liriche ne fanno una colonna sonora fedele anche alla ricostruzione filologica ed entrano a far parte del “lessico familiare”.

Vermiglio è un film duro, senza perdere la tenerezza, perché al centro ci sono i sentimenti in tutte le loro espressioni di adulti e bambini, ponendo l’attenzione privilegiata sulla condizione femminile dell’epoca. Tutto il film ha una dimensione intima, dove le vicende umane sono frutto delle convenzioni sociali e questo ne fa una forza perché evoca la nostra memoria collettiva, grazie a un lavoro di complessa ricostruzione filologica e storico-antropologica.

Forse, l’apprezzamento più bello arriva dalle parole di Isabelle Huppert, presidente della giuria a Venezia, quando ha annunciato l’assegnazione all’unanimità del Leone d’argento, sottolineando che l’italianità non c’entri proprio nulla, perché il premio è meritato per la grande capacità della regista di “aver portato la poesia in immagini”. La poesia intesa come profondità, non come sentimentalismo romantico. La Delpero, invece, ha sottolineato quanto siano stati importanti i finanziamenti pubblici della Regione autonoma Trentino Alto Adige e di Rai Cinema, che hanno affiancato l’esordiente Cinedora, fondata dalla stessa regista per essere libera di fare un cinema indipendente da vera autrice. Un film costato 4 milioni di euro, che il cinema industriale non saprebbe realizzare.

La regista non ha mancato di dire quanto sia stato difficile lavorare e accudire sua figlia neonata, anche lei protagonista nel film, e che ancora come un tempo, proprio come nel film, quanto le donne non siano sostenute da tutta la società nella maternità e nella propria realizzazione. Figure di donne bellissime nel film, composte ma risolute, addolorate ma reattive, disperate e coraggiose intorno al padre-patriarca-marito-maestro di scuola, interpretato da Ragni, attore magistrale nell’esprimere il carisma austero e severo del comando, che mai sfiora la violenza e la tirannia, muovendosi in un crinale difficilissimo.

Vermiglio sarà meritatamente il film italiano agli Oscar 2025, una soddisfazione per una regista che non è figlia d’arte, che ha iniziato tardi a 28 anni a fare cinema, dopo gli studi letterari e successivamente quelli cinematografici; per giunta, i primi lavori sono stati i documentari, ma ha seguito le sue inclinazioni, procedendo con maturità alla scoperta dei propri talenti, rispettando le proprie esigenze di racconto.

Infatti, Vermiglio nasce da un sogno che ispira il proprio racconto familiare, che è il racconto della generazione dei nostri nonni, dei nostri genitori, non è un film personale è corale come la storia che racconta: è un pezzo importante di storia italiana, le nostre radici, la nostra identità. Bisogna conoscerle per crescere e cambiare il mondo.

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