Servizi pubblici: per quanto ancora potremmo definirli tali?

di Federico Giusti

Tra tagli alla sanità e cultura della performance oggi la Pubblica Amministrazione è in crescente difficoltà.

A volte tornano: Renato Brunetta

Nella relazione annuale sui servizi pubblici, il presidente del Cnel Renato Brunetta giudica alquanto carente “la cultura della manutenzione”, presentando un quadro con molte ombre soprattutto in merito ai processi innovativi giudicati improcrastinabili per la Pa italiana e rispetto ai quali i ritardi sono evidenti.

Ma le innovazioni negli ultimi vent’anni hanno avuto ben poco spazio nella Pa, se non in un’ottica aziendalista, senza mai porsi l’obiettivo di migliorare e accrescere le prestazioni del servizio pubblico erga omnes.

A sua volta, il ministro Zangrillo auspica che la Pa nel suo complesso proceda sulla strada della modernizzazione “adeguandosi a nuove esigenze” non meglio precisate.

Quando viene asserito di mettere al centro dell’operato pubblico la persona, si intraprende una strada impervia, un po’ come accaduto con il privato sociale con la cessione al mondo cooperativo di innumerevoli servizi un tempo a gestione diretta. E se guardiamo ai salari del terzo settore e alle sue condizioni lavorative, si capisce la ragione per la quale molti servizi siano stati demandati alle cooperative (bassi salari, contratti sfavorevoli, orari decisamente più lunghi).

Il rilancio e la valorizzazione del settore pubblico dovrebbero partire da ben altri presupposti, ossia affrontare i servizi nel loro complesso, servizi poi non prettamente individuali ma collettivi, rivolti a utenze variegate ma pur sempre di massa.

Cosa significa allora mettere al centro la persona? Ipotizzare servizi individuali quando invece la carenza riguarda l’intera Pa e in particolare settori come la ricerca e la sanità?

Parlateci della sanità pubblica

Il settimo Rapporto della Fondazione Gimbe andrebbe scaricato e letto in ogni casa; se l’ambito familiare oggi fosse incline non ai processi di alienazione ma al confronto tra i suoi membri sarebbe anche l’occasione per confutare innumerevoli luoghi comuni sull’operato del governo.

Il Rapporto ci restituisce una fotografia impietosa del Servizio Sanitario Nazionale, nell’arco di un decennio, tra il 2010 e il 2019 “tra tagli e definanziamenti sono stati sottratti al SSN circa € 37 miliardi; il fabbisogno sanitario nazionale (Fsn) è aumentato di soli € 8,2 miliardi, con un tasso di crescita inferiore a quello dell’inflazione”.

E, giusto per comprendere la direzione dell’autonomia differenziata, ove si parla dei Livelli Essenziali di Assistenza (Lea) troviamo scritto: “Il tanto atteso aggiornamento degli elenchi delle prestazioni non è stato contestualmente accompagnato dall’aggiornamento delle tariffe delle prestazioni di protesica e specialistica ambulatoriale, rendendo impossibile l’esigibilità dei nuovi Lea su tutto il territorio nazionale”.

Ci sono forse troppi sprechi e inefficienze a ogni livello del Ssn? Senza dubbio sì, ma la minor offerta di prestazioni sanitarie riguarda in particolare le prestazioni di maggiore efficacia e urgenza oltre a tutte le attività indispensabili in materia di prevenzione.

La tendenza diffusa è stata quella di indirizzare i cittadini non solo verso la sanità privata, ma anche a dotarsi di assicurazioni private e forme di sanità integrativa, indirizzando così quote crescenti di denaro pubblico ai privati. E queste soluzioni si si sono dimostrate fallimentari se pensiamo che in un solo anno abbiamo 600mila cittadini in più che rinunciano a curarsi per ristrettezze economiche arrivando alla non certo invidiabile cifra di 4,5 milioni tra uomini e donne.

Nell’immaginario collettivo è ancora forte l’immagine dell’aumento della spesa sanitaria negli anni del Covid, eppure da anni ormai sono ripresi i tagli e solo nel 2023 la spesa per la prevenzione è calata del 18,6%.

Citiamo a tal riguardo un passo estrapolato dal capitolo iniziale del Rapporto Gimbe: “All’avvio della XIX Legislatura, con la Legge di Bilancio 2023 il governo ha aumentato il Fsn di € 2,15 miliardi per il 2023 (di cui € 1,4 miliardi assorbiti da maggiori costi dovuti alla crisi energetica), di € 2,3 miliardi per il 2024 e di € 2,6 miliardi per il 2025. Cifre irrisorie, anche in considerazione dell’inflazione, che a settembre 2023 era del 5,7%. Infine, la Legge di Bilancio 2024 ha previsto un aumento del Fsn di € 3 miliardi per il 2024, di € 4 miliardi per il 2025 e di € 4,2 miliardi per il 2026. Tuttavia, oltre € 2.400 milioni saranno destinati al doveroso rinnovo contrattuale del personale sanitario e gli incrementi previsti nel 2025 (+1%) e nel 2026 (+0,15%) sono talmente esigui che non riusciranno nemmeno a compensare l’inflazione, né l’aumento dei prezzi di beni e servizi. In altri termini, nonostante il netto incremento del Fsn nel 2024, nella Manovra 2024 non si intravede alcun rilancio progressivo del finanziamento pubblico. Una tendenza confermata nell’aprile 2024 dal Documento di Economia e Finanza (Def) dove il rapporto spesa sanitaria/Pil si riduce dal 6,4% del 2024 al 6,3% nel 2025-2026 e al 6,2% nel 2027, ben al di sotto del valore prepandemia del 2019. Inoltre, il Piano Strutturale di Bilancio di medio termine (2025-2029), approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 27 settembre, ha rivisto al ribasso le previsioni sulla spesa sanitaria nonostante le misure previste per il potenziamento del Ssn: infatti, il rapporto spesa sanitaria/Pil scende dal 6,3% del biennio 2024-2025 al 6,2% nel 2026 e 2027. Al fine di invertire questa tendenza, si sono moltiplicati i segnali istituzionali: la Corte dei Conti, la Corte Costituzionale e l’Ufficio Parlamentare di Bilancio rilevano continuamente il sottofinanziamento del Ssn; ben 5 Regioni e successivamente anche le opposizioni hanno presentato disegni di legge per aumentare il finanziamento pubblico almeno al 7% del Pil. Anche lo stesso Ministro Schillaci ha dichiarato che il 7% del Pil è il livello minimo sul quale attestarsi per il finanziamento della sanità pubblica”.

Detto in estrema sintesi, l’Italia in rapporto al proprio Pil spende meno di tanti altri paesi europei. Se rapportassimo la spesa sanitaria al PIL, solo per tornare ai livelli del 2019 (6,4%), l’aumento della spesa dovrebbe essere di ben 2,8 miliardi nel 2025, di 4,3 nel 2026 e 5,6 nel 2027.

La Sanità pubblica non si è mai ripresa dai poderosi tagli del decennio che va dal 2010 al 2019 che vengono impietosamente riassunti in questi termini: “Oltre € 37 miliardi: circa € 25 miliardi nel periodo 2010-2015 in conseguenza di tagli effettuati da varie manovre finalizzate a risanare la finanza pubblica del Paese; oltre € 12 miliardi nel periodo 2015-2019 quando al Ssn sono state assegnate meno risorse rispetto ai livelli programmati, scaricando sulla sanità il contributo alla finanza pubblica delle Regioni. Di conseguenza, nel decennio 2010-2019 il Fsn è aumentato di soli € 8,2 miliardi, crescendo in media dello 0,9% annuo, tasso inferiore a quello dell’inflazione media annua pari a 1,2%: in altre parole nel decennio 2010-2019 l’incremento del Fsn non ha nemmeno compensato la perdita di potere di acquisto”.

Se poi guardiamo agli interventi di quest’anno, si capisce che gli aiuti (si fa per dire) sbandierati a favore del personale sanitario sono in realtà un cavallo di Troia per la tenuta del Ssn, infatti il personale sanitario incentivato a attività aggiuntive beneficia di un’aliquota unica al 15% sulle prestazioni supplementari, ma tale defiscalizzazione è a carico del Fsn (fondo sanitario nazionale). E le risorse previste per la manovra di Bilancio del 2025, incluse le spese per i rinnovi dei contratti scaduti da tre anni, saranno a dir poco così esigue da non compensare l’aumento dell’inflazione e il rincaro dei beni e dei servizi.

I blocchi delle assunzioni e l’aziendalizzazione delle scuole hanno lasciato una scomoda eredità

Dopo anni di blocco delle assunzioni e della contrattazione, la Pa ha organici inadeguati e buste paga leggere. Avere allontanato l’uscita dal lavoro con la Fornero ha salvaguardato le casse pubbliche, come un grande aiuto viene rappresentato dal ritardo nell’erogazione del Trattamento di Fine Servizio, lasciando la forza-lavoro in balia dei prestiti bancari solo per avere accesso a un diritto costituzionale.

E poi cosa intendiamo per “sviluppare progetti innovativi” quando in molti uffici e servizi non si riesce a investire in processi tecnologici e si lesina perfino sulla concessione della modalità lavorativa agile?

Nei vari comparti della Pa il numero dei precari è ancora assai elevato e a tal riguardo ci sono anche richiami della Ue sul diverso, e iniquo, trattamento riservato proprio al personale non di ruolo nella scuola.

Dopo anni di decrescita è ripresa a salire la speranza di vita; rispetto a qualche anno fa sono cresciuti i diplomati e i laureati, ma da qui a ipotizzare una vera inversione corre grande differenza. Se si considerano occupati anche quanti lavorano pochi giorni all’anno, le statistiche non possono essere prese sul serio. I divari di genere, poi, per quanto ne dicano al governo, sono ancora elevati e superiori alla media Ue.

Ma avere conseguito un diploma o una laurea non significa costruire dei percorsi lavorativi attinenti al titolo di studio, e anche questo punto viene deliberatamente taciuto. Non basta qualche docente o rettrice o preside in più per dichiarare di avere superato i divari di genere.

E i diritti sociali non sono mai stati deboli come oggi, anzi sono addirittura scomparsi in ogni forma rivendicativa di carattere sociale.

Dopo la pubblicazione del rapporto Gimbe sulla sanità arriva una sorta di mezza ammissione di Brunetta laddove dichiara che “le risorse finanziarie dedicate agli obiettivi di sostenibilità dell’Agenda Onu 2030 sono spesso inferiori alla media europea, soprattutto nel settore della sanità, dove, nonostante la spesa pubblica sia aumentata dal 2020, rimane tra le più basse d’Europa”.

Senza un servizio sanitario efficiente, la spesa delle famiglie va a beneficio del settore privato e della sanità integrativa; la spesa, poi, per l’istruzione continua a essere inferiore, e non di poco, rispetto alla media europea.

La retorica della manutenzione strutturale

Si parla quindi con approssimazione del “processo di irrobustimento delle amministrazioni pubblichequando manca personale in ogni comparto e soprattutto in quello sanitario.

Non è dato sapere cosa invece intenda Brunetta per “rinnovata cultura della manutenzione”. Il valore sociale dell’intervento pubblico viene svalorizzato da innumerevoli decisioni, dai ritardi cronici per la realizzazione di nuovi ospedali, nuove scuole, per restituire laboratori e palestre moderne alle giovani generazioni.

Le responsabilità della mancata manutenzione infrastrutturale è invece risultato di scelte errate e di lungo periodo, basterebbe vedere lo stato in cui si trova la rete idrica nazionale, ricordare i doppi turni, mattina e pomeriggio, in alcune regioni del Sud e non solo, la mancanza di spazi nell’edilizia scolastica, l’assenza di un piano di edilizia popolare (l’ultimo risale a oltre sessant’anni fa), l’idea stessa di rigenerazione urbana che costruisce una idea di città a uso e consumo della speculazione immobiliare o comunque del privato.

Capiamo invece dalle parole di Brunetta che siamo di fronte a una sorta di abdicazione del pubblico, tanto che si parla di rinnovate logiche di Public Private Partnership (Ppp) o si ipotizza di affidare la cura manutentiva alle Camere di commercio.

Non siamo davanti al rilancio dell’intervento pubblico, ma piuttosto alla sua progressiva marginalizzazione.

Immagine: Foto di Frantisek Krejci da Pixabay

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