Il gruppo Fedrigoni (già Cartiere Miliani di Fabriano) annuncia la chiusura dell’azienda e il licenziamento di 195 operai

di Carlo Zampetti *

Tra continui processi di privatizzazioni, svendita delle maggiori aziende italiane all’estero e smantellamento industriale generale, la crisi delle Cartiere Miliani e la prospettiva di un nuovo colpo alla classe operaia.

“Strano: l’espressione usata anche da Severino” disse Guglielmo.
“La pergamena non sembrava pergamena… Sembrava stoffa, ma esile…” continuava Bencio.
“Charta lintea, o pergamino de pano” disse Guglielmo. “Non ne avevi mai visto?”
“Ne ho sentito parlare, ma non credo di averne visto. Si dice sia molto cara e fragile. Per questo la si usa poco. La fanno gli arabi, vero?”
“Sono stati i primi. Ma la fanno anche qui in Italia, a Fabriano…”

In questo breve passo tratto dal capolavoro di letteratura universale Il nome della rosa, Umberto Eco immortala la maestria degli artigiani fabrianesi che, già nel XIV secolo, realizzavano carta e carte speciali, che sono state apprezzate e utilizzate da artisti e poi, nei secoli successivi, da milioni di studenti in tutto il mondo. Chi non ricorda, da ragazzo, in tutta Italia, dalle scuole elementari (primarie) sino al liceo, passando per le medie, i magnifici e porosi fogli da disegno delle Cartiere Miliani di Fabriano, che raggiungevano anche i mercati internazionali?

Cosa sta accadendo alle storiche, prestigiose nel mondo intero, Cartiere fabrianesi? Un colpo terribile si sta abbattendo sui lavoratori delle Cartiere, delle loro famiglie e sull’intera popolazione fabrianese: il gruppo Fedrigoni ha annunciato la chiusura dello stabilimento di Fabriano, con il licenziamento di 195 lavoratori, una decisione che ha, infatti, creato grande preoccupazione nell’intera comunità, che inizia a mobilitarsi e a denunciare l’enorme gravità sociale della scelta distruttiva del gruppo Fedrigoni. 

Già negli scorsi giorni, una folta rappresentanza di lavoratori, in sciopero per 8 ore, ha organizzato un sit-in davanti a palazzo Leopardi, sede del Consiglio regionale Marche. Poiché da tempo, nel fabrianese, tra la vendita della grande azienda di elettrodomestici Merloni agli americani della Whirpool e la successiva, recente, autosvendita della Whirpool alla Beka turca, e ora l’annuncio della chiusura delle cartiere Miliani, “si sente suonare”, per l’intera popolazione del territorio, il “de profundis”, gli operai del sit-in di fronte all’ingresso del Consiglio regionale hanno piazzato una bara di cartone con incise sopra le date di nascita della storica cartiera fabrianese, 1264, e di morte, appunto il 2024. Sopra la bara i fiori donati, con ironia, rabbia e tristezza, dai 195 lavoratori che potrebbero perdere il posto di lavoro.

Significative le dichiarazioni del, grosso, picchetto operaio e dei dirigenti sindacali: “Non possiamo permetterci una simile deriva”, hanno dichiarato all’unisono Alessandro Gai (Fistel-Cisl), Carlo Cimmino (Slc-Cgil) e Valerio Monti (Uilcom-Uil). “Altre 195 famiglie senza lavoro, così la desertificazione del tessuto industriale del fabrianese si aggrava. Due anni fa Fedrigoni creò la società Giano per l’acquisizione delle Cartiere: alla luce di ciò che sta accadendo, ciò già significava che vi era sin da subito l’intenzione di arrivare a questa chiusura e al taglio di lavoratori. Fedrigoni non è più interessato al ramo produttivo della carta per fotocopie per ufficio e così via, ma preferisce andare su produzioni diverse, tenendo per ora le cosiddette ’carte speciali’, da disegno, filigranate. Fedrigoni, dunque, taglia uno stabilimento e mezzo su quattro; per ora sono salvi solo i due del maceratese, a Castelraimondo e a Pioraco, mentre quello di Fabriano (Vetralla) rischia di subire un forte ridimensionamento”.

Il picchetto operaio organizzato di fronte alla sede della Regione Marche ha accolto con un mare di fischi l’arrivo dei vertici della Fedrigoni, compreso Giuseppe Giacobello dalla casa madre di Verona, giunto per l’incontro con l’assessore al Lavoro della giunta regionale, di destra e a guida Fratelli d’Italia, Stefano Aguzzi. 

“Rispetto ad altre crisi industriali la diversità qui sta nel fatto che il gruppo era solido e poi all’improvviso hanno deciso di chiudere la sezione che loro chiamano ’ufficio’”, hanno precisato Daniele Bonafoni e Fabrizio Mei, membri della Rs di Fabriano per Cgil e Indipendente. “Stanno distruggendo un pezzo di storia della carta, avviata nella metà degli anni ’70. Le prime avvisaglie sono arrivate un paio di anni fa, poi le acque si sono calmate e infine il fulmine a ciel sereno. È tutto sbagliato, i tempi, i modi. È una scelta antioperaia”.

Il livello di gravità della crisi è rappresentato anche dalle dichiarazioni di alcune forti personalità del territorio. Ha affermato il sindaco di Fabriano, Daniela Ghergo, giunta di centro-sinistra: “Non possiamo accettare che Fabriano perda una tradizione secolare per logiche di profitto. Chiediamo che l’azienda si confronti in modo trasparente e che venga presentato un piano industriale credibile per la salvezza dei posti di lavoro”.

Di fronte alla crisi, anche il vescovo di Fabriano-Matelica, monsignor Francesco Massara, ha voluto rimarcare che la chiusura delle Cartiere avrà conseguenze non solo economiche, ma anche umane e sociali: “Chiudere le Cartiere significa privare le famiglie della loro dignità, perché il lavoro non è solo un mezzo di sostentamento, ma un diritto fondamentale. Come Chiesa, siamo vicini ai lavoratori e alle loro famiglie e continueremo a sostenere ogni iniziativa che possa salvare questi posti di lavoro”. Monsignor Massara, offrendo uno spaccato drammatico della crisi generale (prodotta anche dai processi di deindustrializzazione indotta dall’asse Stato e grande capitale italiano, a Fabriano come in gran parte del Paese) ha ricordato come, a livello locale, la Caritas stia già assistendo un numero crescente di persone in difficoltà economica e ha espresso preoccupazione per l’aumento della povertà che potrebbe derivare da ulteriori licenziamenti.

L’assessore regionale al Lavoro, Stefano Aguzzi, ha avuto il coraggio di affermare, dopo l’assenza totale della Regione Marche nella crisi delle Cartiere: “Non possiamo permettere che un simbolo come le Cartiere Miliani scompaia. La Regione è pronta a fare la sua parte”. E gli operai si chiedono, “quale parte”, quella sino ad ora svolta e diretta solamente ad assistere silenziosamente alla rovina?

È doveroso contestualizzare, seppur brevemente, le vicende di cui parliamo. Fabriano è (ma sarebbe più esatto dire era) una ridente città di trentamila abitanti in provincia di Ancona, ai confini tra Marche e Umbria.

Non è nota solo per le Cartiere Miliani; nel secolo scorso, infatti, ha visto un notevole sviluppo il settore dell’elettrodomestico a opera della famiglia Merloni. Piccole e medie industrie, disseminate non solo a Fabriano ma anche nei paesi limitrofi, compresi quelli umbri. Questo modello, che per antonomasia è appunto chiamato modello marchigiano, ha creato la discutibile figura dell’operaio metalmezzadro (dopo otto/nove ore di catena di montaggio il tempo libero, compresi i fine settimana o le ferie, li passava spesso ad accudire i campi) ma allo stesso tempo ha arginato parzialmente il depauperamento di quel territorio creando sviluppo anche per l’indotto e un relativo benessere.

Da una ventina di anni questo modello, per colpa della globalizzazione, come recita il mainstream, è entrato in crisi. È il mercato, bellezza. Stabilimenti chiusi, società acquisite da gruppi stranieri, delocalizzazioni, centinaia di posti di lavoro persi. L’incubo della miseria è diventato reale.

In questo contesto, il licenziamento di 195 lavoratori delle Cartiere è un colpo letale per la già debole economia del territorio.

Le storiche Cartiere Miliani furono fondate da Pietro Miliani nel lontano 1792. È quasi pleonastico ricordare i prodotti realizzati negli anni: dalle carte filigranate agli album da disegno, dalle carte per banconote a quelle per la musica, ecc., apprezzate, come si diceva prima, in tutto il mondo. Nel 1978, l’Istituto poligrafico dello Stato diventa l’azionista di maggioranza acquistando il 98,6% delle azioni. Nei primissimi anni del duemila, in seguito alla scandalosa ondata privatizzatrice che ha colpito i vari governi che si sono succeduti dagli anni Novanta, le Cartiere furono cedute al gruppo Fedrigoni che, a sua volta, dal 2017, passa a un fondo americano.

A questo punto è doveroso aprire una discussione su quanto è accaduto nel bel paese sulla questione delle privatizzazioni dopo Tangentopoli. Un noto ministro delle Finanze del maggior partito del secondo dopoguerra, Ezio Vanoni, non uno statalista convinto, dichiarò che era opportuno l’intervento dello Stato in settori strategici e l’Iri era vista come uno strumento di progresso economico, utile per l’Italia in quel periodo storico. Lo Stato proprietario si limitava ad assegnare alle sue aziende linee guida e sufficienti finanziamenti. Fu un percorso di rapida emancipazione: nel 1987 il Pil italiano aveva superato quello del Regno Unito, portando l’Italia alla quinta posizione tra le grandi potenze economiche mondiali. Nel 1990 si registrò un ulteriore progresso, l’Italia aveva raggiunto la quarta posizione tra le potenze industriali del mondo.

Fin dai primi anni ’90, le dismissioni di patrimonio pubblico comunque non hanno intaccato la consistenza delle partecipazioni statali, la cui quota di occupati sul totale nazionale era del 13,5 % nel 1993, contro 13,4 % in Francia, 8,3 in Germania, 4,3 in Gran Bretagna. Questo quasi monolitico strumento della politica economica italiana fu a un certo punto messo in discussione dal governo Amato, presentato a novembre 1992, attraverso un piano che si centrava specialmente sulla realizzazione di una massiccia campagna di privatizzazione. Iniziò un periodo di privatizzazioni selvagge, discutibili e duramente criticate, qualcuno giunse ad affermare che quelle furono delle vere e proprie svendite, finalizzate alla eliminazione economica del principale competitore di Germania e Francia. Basti riflettere su un dato emblematico, ovvero nel 1992 l’Italia era ancora il primo produttore industriale d’Europa. Considerata pari a 100 la produzione industriale della Germania, si registrava un incremento di quella italiana, tra il 1992 e il 1995, che passava da 105 a quasi 120, favorita anche dalla svalutazione della lira. Il nostro Paese si giovava di un armonioso sistema fatto di partecipazioni statali, imprese private spesso sostenute da fondi pubblici e una enorme rete di piccole imprese, alle quali si affiancava un terzo settore sempre più dinamico. Senza tenere in alcun conto i dati sopra esposti, in modo del tutto irrazionale, tra il 1991 e il 2001 è stato realizzato il grosso delle privatizzazioni di aziende pubbliche, soprattutto per quelle del gruppo Eni, di cui Goldman Sachs, protagonista onnipresente nei mercatini delle dismissioni pubbliche, acquisì l’intero patrimonio immobiliare, e per le controllate dall’Iri.

L’Eni, dopo la sua trasformazione in Spa nel 1992, anno in cui chiudeva il bilancio con quasi 1.000 miliardi di perdita, aveva ricominciato a generare utili, quasi 500 miliardi nel 1993, oltre 2.500 nel 1994, 3.215 nel 1995, l’anno in cui iniziava la privatizzazione dell’azienda. Si immagini quale beneficio finanziario avrebbero potuto apportare talune aziende, privatizzate con troppa leggerezza, alle casse dello Stato: solo Eni, nel quadriennio 2007-2010, ha generato utili per 29.521 milioni di euro. Sommando soltanto i risultati di esercizio del quadriennio 1997-2000 di 18 tra le migliori società ex proprietà delle partecipazioni statali si ottiene un utile netto totale di €107.070,066 milioni, che avrebbe rappresentato certamente un sollievo non da poco per il bilancio di uno Stato che non riesce ancora a raggiungere il pareggio di bilancio, costretto ad attuare manovre fortemente depressive, le quali non potranno che peggiorare la situazione dei sui conti dal lato delle entrate fiscali.

È più che opportuno aprire una seria indagine su quanto è avvenuto in Italia in tema di privatizzazioni post-Tangentopoli e, se del caso, trovare il coraggio e l’orgoglio di istituire tribunali speciali perché, se quanto scrive Danilo Stentella, nel 2015, sul quotidiano indipendente «L’Indro» dal quale sono stati estrapolati i dati e alcune considerazioni fosse corretto, si tratterebbe della più grande truffa di tutti i tempi, o della più alta concentrazione al mondo di imbecilli al potere in un sistema democratico. 

È figlia di queste logiche la triste fine delle Cartiere Miliani di Fabriano.

Per la cronaca è bene ricordare che la sezione di Rifondazione Comunista di Fabriano nel 2002, quando si stava praticando la svendita delle Cartiere al gruppo Fedrigoni, mise in campo alcune iniziative per tentare, quantomeno, di arginare la privatizzazione ma fu lasciata quasi completamente sola dal resto delle forze politiche, dalle organizzazioni sindacali, dalla cittadinanza. 

Ora, come sempre, i comunisti saranno in campo e il Movimento per la Rinascita Comunista sarà attivamente a fianco dei lavoratori in lotta.

*Dirigente comunista storico area di Fabriano/Ancona; già vicesindaco di Serra San Quirico (area del fabrianese); coordinatore MpRC Fabriano.

Immagine: Theluoz, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0&gt;, via Wikimedia Commons

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