di Francesco Galofaro *
La crisi del gruppo Stellantis vista da Torino.
C’è ancora qualcuno convinto che John Elkann sia italiano, che il gruppo Stellantis sia una gloria locale da tutelare, da inserire nella lista Unesco, e da sostenere a spese dell’erario? Lui lo è senz’altro: nel presenziare a una riunione di dirigenti, il 16 ottobre all’auditorium del Lingotto, ha rivendicato la responsabilità del suo gruppo nei confronti della comunità locale e ha invitato tutti a evitare le polemiche sullo stabilimento Mirafiori, chiuso fino a novembre, forse fino a dicembre, chissà. Ad applaudirlo c’erano destra e sinistra, incarnate dal governatore, Cirio, e dalla vicesindaca di Torino, Favaro.
Sono solo un modesto scienziato della comunicazione, non mi intendo di economia né di politica e lascio volentieri ad altri il compito di spiegare in che cosa consista lo “spirito Fiat” evocato da Elkann; né mi soffermo sull’eleganza mondana dei partecipanti – la sinistra in doppiopetto, la destra in gessato blu. Nel mio piccolo, mi limito a porre una domanda: avete notato che, man mano che invecchia, John Elkann ricorda sempre più un alieno? La pelle diafana dell’amministratore infaticabile che non conosce spiagge o raggi Uva non si confonde col colorito dell’arricchito milanese dalla pelle color dattero; ricorda piuttosto quella dei replicanti Nexus 6 del film Blade Runner. I ricci capelli, più ritirati di un tempo, sembrano uno zerbino posticcio e lasciano ampi spazi vuoti – come lande desolate – in un volto che appare ormai troppo piccolo per essere umano. I Wittgenstein, grandi magnati europei dell’acciaio, hanno generato un filosofo e un pianista eccezionali; gli Agnelli hanno fatto di più: hanno donato all’umanità il primo alieno a capo di una multinazionale cosmopolita.
Cosa sia la crisi Stellantis, vista dalle strade, l’ho capito solo quando mi sono trasferito a Torino. Prima la Fiat era solo un’entità astratta, lontana, guidata da arpagoni miserabili che, di quando in quando, chiudevano i cancelli per riscuotere le decime dal governo di turno. Per chi vive qui è diverso: molti genitori dei compagni di classe di mia figlia lavorano e vivono a Mirafiori. Ai compleanni si parla del futuro dell’auto elettrica e della concorrenza dei cinesi. Qualcuno, per tempo, manda un curriculum alla Lavazza, perché in azienda tira una cattiva aria.
Quando vai al bar trovi due giornali: «la Stampa», di proprietà degli Agnelli, che costa un euro e settanta, attacca il governo della destra burina, dei traffichini, degli imprenditori privi di quarti di nobiltà; «Torino cronaca», fondato da Beppe Fossati (scuola Indro Montanelli) costa sessanta centesimi, riporta efferati omicidi e attacca il Comune per lo spaccio di droga ai giardini pubblici, definiti “toxic park”. «La Stampa» si rivolge alla sinistra pensante, che vive nella Ztl, è a favore degli “uteri in affitto” e tifa per Kamala Harris. Il lettore di «Torino cronaca» è un qualunquista interessato a beatificazioni, foto scollacciate riprese da Instagram e al traffico nel caos. Eppure …
Eppure, «La Stampa» descrive la riunione al Lingotto come una serata mondana, trionfale, incorniciata dagli applausi dei direttori, e sostiene che la grande presenza di lavoratori torinesi allo sciopero del 18 ottobre dà ragione a Elkann, quando dice che c’è un legame inscindibile tra la Fiat e il territorio. Invece, «Torino cronaca» dà i numeri: consegne in calo del 20% rispetto al 2023, 100 mila vetture in meno solo nel mercato nordamericano, minacce di stop, oltre che a Mirafiori, anche a Pomigliano, a Termoli, a Pratola Serra. Come i giornalisti dei film, uomini tutti d’un pezzo che fumano sigari, portano bretelle e maniche arrotolate e inchiodano il potere alle proprie responsabilità, «Torino cronaca» ricorda che Elkann non ha dato vere risposte rispetto alle prospettive di Mirafiori. «La Stampa» commemora fantozzianamente la “messa di trigesima” per la morte di Marella Agnelli; su «Torino cronaca» leggiamo che, quando Elkann vuole provare il legame tra la Fiat e il Paese ricorda la marcia dei 40.000 e come Romiti abbia sconfitto i suoi lavoratori. Quei lavoratori che – come scrive il giornalista – oggi chiedono solo di poter lavorare.
Dunque, per tornare a quel che scrivevo in apertura: John Elkann non è italiano; è un alieno. Sottostare al ricatto dei Rizzante e dei Tavares non è “difendere un’azienda italiana”; il governo dovrebbe sforzarsi di rappresentare i lavoratori, in questa partita. Stellantis chiude lo stabilimento di Mirafiori, ma a giugno 2024 ne ha aperto uno a Tychy, in Polonia, dove produce le auto elettriche del suo marchio cinese Leapmotor perché i costi sono dimezzati rispetto all’Italia. Dunque, Stellantis non è più italiana di una qualsiasi azienda cinese, ma non vuole la concorrenza di uno stabilimento cinese in Italia. Allora, perché non aprire uno stabilimento di auto elettriche cinesi in Italia, che faccia da hub per l’Europa e che occupi 10.000 persone, magari negli stabilimenti abbandonati dalla Fiat? Certo, questo sarebbe contrario agli interessi di Stellantis; che questi coincidano con quelli del Paese, resta da dimostrare.
*Centro Studi “Domenico Losurdo”
Immagine: Marco Alfa, CC BY-SA 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0>, via Wikikimedia Commons
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