di Federico Giusti
Studiosi vicini a Confindustria scoprono le contraddizioni del sistema economico e l’arretratezza del panorama aziendale italiano.
La nostra riflessione parte da un articolo di Riccardo Gallo, pubblicato sul sito del quotidiano di Confindustria, e da alcune ricerche raccolte dall’università La Sapienza di Roma come Osservatorio sulle imprese. Già il titolo dell’articolo (“Quel travaso pazzesco di ricchezza dal lavoro al capitale”), che per altro riassume i contenuti di un saggio universitario, merita attenzione dacché certe tesi sono state avanzate, pur con analisi e conclusioni assai diverse, in ambito marxista guadagnandosi accuse di pedanteria da parte sindacale o critiche ingenerose di un approccio teorico e dogmatico. La contraddizione tra capitale e lavoro oggi viene in parte riscoperta da studiosi di area confindustriale per denunciare l’arretratezza del capitalismo italiano, la sua sostanziale inadeguatezza nell’affrontare le prossime sfide. E queste posizioni arrivano, non casualmente, dopo la pubblicazione del “Rapporto sulla produttività” di Mario Draghi che contesta la gestione capitalistica della Ue degli ultimi anni dimenticando, magari, che le politiche di austerità per lustri sono state da lui stesso suggerite.
Da molti anni contestiamo la progressiva erosione del potere di acquisto salariale, erosione iniziata con la fine della scala mobile e forse ancor prima con la politica dei sacrifici nella seconda metà degli anni Settanta, abbiamo denunciato le logiche perdenti della contrattazione di secondo livello in deroga ai contratti nazionali e assai propense a scambiare piccole porzioni salariali con aumento dei ritmi e della produttività.
Negli ultimi 40 anni i governi sono stati ciechi e sordi, servili al grande capitale forse in misura maggiore del passato, quando i grandi gruppi industriali dettavano la linea agli esecutivi. Ma, rispetto a 40 anni fa, oggi non esiste alcun gruppo industriale interamente pubblico, se non alcune imprese di armi che vengono sostenute come fiore all’occhiello dell’imprenditoria italica.
La classe padronale ha sempre cercato e ricevuto il sostegno statale (negli ultimi anni anche attraverso la riduzione del cuneo fiscale introdotto dal governo Draghi) alle imprese, oggi si scopre quanto avevamo detto e ridetto inascoltati perfino dai sindacati rappresentativi, ossia che gli utili azionari e i profitti delle aziende determinano l’arricchimento crescente dei padroni, senza i dovuti investimenti per accrescere la competitività delle imprese.
In sostanza, dovremmo fare un salto di qualità rifiutando l’utilizzo dei concetti padronali, la competitività è un’arma con la quale si sono ottenute deroghe peggiorative rispetto ai contratti nazionali, favorendo il secondo livello di contrattazione. Al contempo, sempre in nome della produttività, hanno indebolito il potere di acquisto (anche attraverso regole capestro a determinare gli importi degli aumenti contrattuali o cavandosela con 12 euro al mese di indennità di vacanza contrattuale, che poi sono somme già computate nei futuri rinnovi dei Ccnl), riducendo al contempo il potere di contrattazione sindacale.
In Italia, per accrescere la competitività delle imprese, hanno portato avanti un’opera di smantellamento delle conquiste passate, ma non prima di avere trasformato le privatizzazioni nella panacea di ogni male, da qui sono partite le delocalizzazioni produttive, la riduzione degli organici, l’erosione dell’acquisto salariale, l’aumento dei carichi di lavoro e il diffondersi della precarietà.
Allo stesso tempo, le condizioni di vita e di lavoro sono andate progressivamente a deteriorarsi: è indubbio l’indebolimento delle misure in materia di prevenzione, salute e sicurezza nelle aziende pubbliche e private. Per questo, utilizzare concetti quali produttività, competitività e merito rappresenta non solo un errore politico, ma anche una mera subalternità ideologica e politica all’avversario di classe, una sostanziale débâcle del movimento operaio e sindacale.
Queste premesse sono indispensabili per analizzare i contenuti dell’articolo sopra menzionato di cui citeremo due passaggi:
“Il travaso di ricchezza dal lavoro al capitale è stato pazzesco. I soci hanno prelevato come dividendi l’80% degli utili netti e hanno lasciato il 20% come autofinanziamento di nuovi investimenti, quando invece a loro per primi dovrebbe convenire far crescere il capitale nella propria impresa. Oltretutto, gli avari investimenti delle imprese sono stati solo per il 40% materiali nelle fabbriche e per il 60% finanziari in partecipazioni”.
“Dallo studio della Sapienza emerge comunque che le società industriali godono in media di un’eccellente efficienza di gestione e un’ottima salute patrimoniale e finanziaria. Per esempio, negli ultimi quattro anni, la copertura delle scorte si è aggirata sempre intorno a 75-80 giorni, la dilazione a clienti intorno a 65 giorni, quella ottenuta dai fornitori intorno a 80 giorni. L’indice secco di liquidità è rimasto sempre pari a un ottimo 0,9, con un record di 0,93 nel 2020, dopo l’immissione nel sistema di una massa di moneta eccessiva, non impiegabile. Il rapporto tra debiti finanziari e capitale netto è rimasto sempre pari a un più che buono 0,7”.
Siamo, quindi, in presenza di un capitalismo finanziario che per sua natura è assai incline alla distribuzione degli utili tra gli azionisti in un Paese nel quale la forbice sociale è divenuta sempre più larga, un capitalismo che pensa solo alle magnifiche, si fa per dire, sorti del grande capitale ma assai poco incline agli investimenti; si privilegia, insomma, l’aspetto speculativo rispetto a quello industriale, da qui arriva la proposta alle aziende di rischiare e indebitarsi per finanziare i processi innovativi e tecnologici.
Se la critica investe, tuttavia, la classe imprenditoriale per una sorta di disaffezione al rischio di impresa, non si prende atto della realtà degli ultimi decenni nei quali, invece, sono state proprio le associazioni datoriali a battere cassa per ricevere continui aiuti pubblici (anche attraverso la generosa concessione degli ammortizzatori sociali sotto la minaccia dei licenziamenti), senza per altro offrire nulla in cambio. I tagli al cuneo fiscale permettono alle aziende, ma a carico dei contribuenti, di evitare aumenti salariali e contrattuali. Detto in poche parole, se i salari recuperano potere di acquisto, in piccola parte, è merito della fiscalità generale e non dei padroni, dei loro processi innovativi e dei rischi che non corrono, scaricando gli oneri sulle casse statali.
La perdita di competitività del nostro Paese deriva dai mancati investimenti datoriali; tuttavia, l’ammissione di colpa meriterebbe un drastico cambio delle politiche confindustriali, di cui non vediamo invece traccia. Infatti, sono proprio i padroni a esigere ancora oggi la riduzione delle tasse e una presenza soft dello Stato nell’economia, salvo poi scoprire che, senza il generoso aiuto pubblico, i capitani di impresa non avrebbero affrontato la crisi del 2008 e quella pandemica.
Il mercato del lavoro è arretrato, scrive Gallo, ma questi evidenti ritardi erano stati ravvisati fin dai primi anni Novanta, quindi una scoperta tardiva e funzionale a esigere dallo Stato un impegno economico diretto per creare nuove competenze tra i lavoratori, competenze che dovrebbero invece scaturire da una rinnovata gestione della produzione da parte aziendale.
La tardiva ammissione del sopravvento del capitale finanziario sul lavoro serve semplicemente per battere cassa alle porte statali rimuovendo, allo stesso tempo, le cause del problema, suggerendo soluzioni che scaricano sul pubblico l’onere degli investimenti, senza la possibilità dello Stato, sempre in nome del libero mercato, di determinare atti di indirizzi e controlli di sorta, atti per altro in aperto contrasto con le norme designate dalla Ue. Dietro all’idea di cambiare gli assetti contrattuali si cela, poi, un altro obiettivo assai pericoloso, ossia quello di porre fine a istituti contrattuali nazionali, per lasciare alla contrattazione di secondo livello il compito di determinare gli importi delle buste paga, sapendo che questa scelta aumenterebbe le disuguaglianze economiche e sociali, accrescendo al contempo il potere datoriale.
Laddove, invece, si suggerisce la necessità di “rivedere salari e stipendi” arriviamo a soluzioni fallimentari, almeno per gli interessi delle classi subalterne, per esempio trasformare il salario in variabile dipendente dai profitti di impresa, per poi erodere e ridurre ai minimi termini lo stesso contratto nazionale.
Un’altra soluzione all’orizzonte, che ci riporta alla Germania, è quella della partecipazione dei lavoratori ai successi della gestione economica, magari trasformandoli in azionisti con quote irrisorie, ma sufficienti a scongiurare sul nascere ogni elemento di conflittualità rispetto al capitale. L’idea, per dirla in altre parole, è quella di scaricare sulla forza lavoro parte degli oneri di impresa salvo, poi, demandare allo Stato politiche attive in materia di lavoro a uso e consumo delle aziende.
Riferimenti:
Quel travaso pazzesco di ricchezza dal lavoro al capitale – Il Sole 24 ORE
Immagine: scan by Norbert Kaiser, Public domain, via Wikimedia Commons
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