a cura della redazione
Chi si oppone alla retorica patriottica del 4 novembre non rifiuta l’amore per il proprio paese, ma lo riconfigura in un rifiuto verso le strutture che promuovono la guerra e la disuguaglianza. Il concetto di “unità nazionale” deve essere reinterpretato gramscianamente come strumento di liberazione e giustizia sociale.
Dopo le due guerre mondiali, i conflitti che attraversano il nostro pianeta non sono mai stati così estesi e sanguinari. Dalle guerre di inizio secolo agli scenari nell’Europa orientale, fino al genocidio in corso in Palestina che ha esteso il conflitto in Medio Oriente, la “guerra mondiale a pezzi” rischia di diventare guerra mondiale tout court.
Il 4 novembre viene celebrata la “Festa delle Forze Armate e dell’Unità Nazionale”, una commemorazione che appare, superficialmente, come un’occasione per onorare i sacrifici dei soldati caduti durante la Prima guerra mondiale, mandati in realtà al macello per gli interessi padronali, e affermare l’orgoglio nazionale, ma che mira a consolidare, attraverso un’astratta e pretestuosa “unità nazionale” (incensata peraltro da chi promuove l’Autonomia differenziata alimentando le disuguaglianze fra Regioni o l’asservimento dell’Italia al tornaconto dell’imperialismo americano o dell’Unione Europea) declinata secondo gli interessi di un potere politico che maschera le proprie contraddizioni sotto il velo della retorica patriottica.
Tale declamazione nazionalista funziona come strumento di egemonia della classe dominante che tiene a freno la presa di coscienza da parte della classe degli sfruttati della stessa realtà del loro sfruttamento, occultando il conflitto di classe.
La retorica ufficiale dipinge le forze armate come guardiane della libertà e della democrazia, ma omette ogni considerazione sulle reali dinamiche di potere che portano a conflitti e disuguaglianze.
Il culto delle forze armate e il rispetto per la gerarchia non portano infatti a una vera coesione sociale, ma a una subordinazione delle masse, preparandole ad accettare il ruolo di “carne da macello” in nome di interessi ben lontani dalla loro realtà, primo tra tutti il mantenimento (anzi, il progressivo inacerbimento) dell’ordine costituito.
Per questo, per noi il 4 novembre non c’è niente da festeggiare. Gli oltre dieci milioni di morti del Primo conflitto mondiale meritano, al contrario, lutto, memoria e indignazione. Alla difesa della patria e alla conseguente esaltazione del ruolo delle forze armate, che troppo spesso sono servite per giustificare le peggiori aggressioni, preferiamo l’impegno per espellere la guerra dalla storia. Non vogliamo assistere impotenti a queste nuove “orrende carneficine” la cui responsabilità ricade sulla Nato, sugli Usa e su Israele, ma anche sull’Unione Europea, con la sua ignavia, che aumenta le spese militari e ricorre alle tecnologie duali a fini di guerra – non dimentichiamo il ruolo dell’intelligenza artificiale nell’accrescere il numero di vittime civili.
Non ci sembra casuale quanto avvenuto nei giorni scorsi con la celebrazione della fascistissima battaglia di El Alamein. Il ministero della Difesa ha celebrato i soldati italiani caduti in guerra d’Africa, soldati che combatterono a fianco della Germania nazista, ma che omettendo questo fatto storico possono essere inseriti nel Pantheon degli eroi nazionali. Per il ministero, i soldati italiani che furono sconfitti a El Alamein “hanno sacrificato la loro vita per la nostra libertà”. Ma i soldati italiani che combatterono a El Alamein furono mandati a morire in Africa dal fascismo che pochi anni prima aveva fatto ricorso ai gas contro la popolazione civile nelle colonie in Libia e in Etiopia, dove la popolazione autoctona si era ribellata all’occupazione militare italiana.
Ormai si alimenta una confusione costruita ad arte per rimuovere le fonti storiche e dare adito a letture agiografiche e di esaltazione a prescindere dell’operato delle forze armate, non importa il contesto in cui abbiano combattuto e sotto quale bandiera. Da anni, in una Repubblica nata dalla Resistenza e che ha l’antifascismo come suo elemento fondante, si tagliano fondi all’Anpi e ai percorsi didattici e di studio sulla Resistenza italiana al nazifascismo, vengono esaltati quanti combatterono per cause spregevoli.
L’esaltazione delle forze armate italiane si unisce a un’opera di revisionismo, di esaltazione delle virtù eroiche dei militari italiani, senza mai riconoscere i dati storici e le responsabilità: l’uso dei gas, il colonialismo, l’occupazione militare, lo sfruttamento di quei territori e le atrocità commesse dagli “italiani brava gente” verso popolazioni inermi, giustificate da un razzismo che, come tutti noi possiamo constatare, non è mai stato estirpato del tutto dal senso comune.
Decontestualizzare singoli episodi permette di minimizzare o occultare operazioni ben più gravi che vanno dal revisionismo, che vorrebbe riscrivere la storia del passato, fino all’affermazione dei disvalori nel tempo presente. L’ennesima celebrazione dell’eroismo dei soldati italiani alleati del nazifascismo fa parte di quella grande e sistematica opera di rimozione che oggi favorisce i processi di militarizzazione della scuola e dell’università ed esalta l’innovazione tecnologica che dovrebbe essere rivolta solo all’ambito civile senza formule artificiose funzionali ad ampliare la ricerca di nuovi ed efferati sistemi di guerra.
Non siamo disposti a subire celebrazioni ufficiali che servono a farci abituare all’idea della “normalità” e dell’inevitabilità della guerra, a delineare come positiva per le giovani generazioni la prospettiva dell’arruolamento, a promuovere la subordinazione delle spese sociali a quelle militari, attraverso una mistificazione anche linguistica che nel recente passato ha ribattezzato le guerre “missioni umanitarie”, mentre oggi si avvale di tecniche di giustificazione di ormai innegabili atti di guerra imperialista e neocolonialista con l’uso delle fake news e dell’etichettatura denigratoria dei paesi non allineati, dipinti sempre come “terroristi”.
Utile in questo senso ricordare quanto emerso dal recente vertice dei Brics, tenutosi a Kazan, la cui dichiarazione conclusiva, oltre a chiedere un cessate il fuoco “immediato, completo e permanente” nella striscia di Gaza, e a riconoscere le misure della Corte internazionale di giustizia conseguenti il procedimento legale avviato dal Sudafrica, assume l’impegno alla cooperazione e alla risoluzione pacifica dei conflitti e delle controversie internazionali e segnala esplicitamente il tema della prevenzione dei conflitti armati: “Ribadiamo il nostro impegno per la risoluzione pacifica delle controversie attraverso la diplomazia, la mediazione, il dialogo inclusivo e le consultazioni in modo coordinato e cooperativo e sosteniamo tutti gli sforzi che favoriscono la risoluzione pacifica delle crisi. Sottolineiamo la necessità di impegnarci in sforzi di prevenzione dei conflitti, anche affrontandone le cause profonde. Riconosciamo le legittime e ragionevoli preoccupazioni di sicurezza di tutti i Paesi. Facciamo appello alla protezione del patrimonio culturale, in particolare nelle regioni colpite da conflitti, per prevenire la distruzione e il traffico illecito di beni culturali, che è un fattore fondamentale per preservare la storia e l’identità delle comunità colpite”.
Nel qui e ora, di fronte a questa ricorrenza deleteria, facciamo nostre tutte le iniziative che esprimono il dissenso e la presa di distanza da essa, come l’appello che l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università di Pisa ha lanciato alle realtà sociali, sindacali e politiche, a docenti, genitori e studenti per azioni di diserzione rispetto alla legge sul 4 novembre e per costruire una piazza in opposizione alla guerra, agli striscianti processi di militarizzazione dei territori.
Come comunisti, siamo consapevoli che la guerra esterna si unisce alla guerra interna, quella combattuta contro gli oppositori politici, sindacali e sociali, perché una delle conseguenze dei conflitti è rappresentata proprio dalla contrazione degli spazi di agibilità collettiva ricorrendo a campagne di criminalizzazione costruite ad arte. Il ddl 1660 sulla sicurezza è una concreta minaccia alle libertà democratiche attraverso una azione fortemente repressiva sul conflitto sociale. Non esiste percezione reale della pericolosità di questo decreto che riguarda ogni agire conflittuale in seno alla società, comprese le lotte contro le guerre imperialiste.
A ciò si aggiunga il codice di comportamento nella Pubblica amministrazione applicato ad arte per tacitare ogni voce critica e di dissenso rispetto all’operato del governo e allo “stato di guerra” all’interno delle scuole e delle università.
“Al momento di marciare molti non sanno / che alla loro testa marcia il nemico. / La voce che li comanda / è la voce del loro nemico. / E chi parla del nemico / è lui stesso il nemico.” (Bertolt Brecht).
Immagine: disegno di pubblico dominio tratto dalla rete
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