Alessandro Valentini: il comunismo della nostra gioventù, l’odierna rivoluzione e la totalità della poesia

di Fosco Giannini

Poesie, con sottotitolo voluto dall’autore, Inattualità di un’antologia. Che “l’inattualità” sia un vezzo del Valentini poeta? L’uomo è stato un dirigente politico capace e scaltro: tutto è dunque possibile, persino il fatto che l’aver obliquamente utilizzato l’aggettivo “inattuale”, per la propria poesia, sia stato il meccanismo col quale si chiede la smentita. Infatti noi, che cadiamo nella trappola “valentiniana”, smentiamo “l’inattualità” della sua poesia, definendola di una attualità struggente, dolorosa, rivoluzionaria.

Alessandro Valentini, o il comunismo della nostra gioventù. Oppure, ora, il rivoluzionarismo della nostra “maturità”. “Anzianità” è ciò che occorrerebbe, per chi scrive e per Valentini, ma questo sostantivo femminile se ne va in giro come il signor Umberto D., come il Carlo Battisti di Vittorio De Sica nel film capolavoro del 1952, se ne va in giro con la sua eleganza evocatrice di morte e con al fianco la tristezza senza fine del cagnolino Flaik. Mentre a chi scrive e a Valentini gli anni passano reumatizzando le ossa, indebolendo la vista, ma irrobustendo l’animo rivoluzionario. Ciò potrà sembrare la stesura di biografie presuntuose. Sia quel che sia, ma è la verità.

Meglio maturità, dunque, ma fino ad un certo punto: non certo la maturità cedevole, rassegnata e disgraziata di un “papà Goriot”, ma piuttosto quella del tenacissimo “cacciatore” di marlin, Santiago, de “Il Vecchio e il mare”, “un uomo che può essere distrutto ma non sconfitto”. Ho accostato il profilo di chi scrive a quello di Valentini: se per chi scrive potrei essermi sbagliato, non mi sono sbagliato per Valentini, vecchio leone rivoluzionario, anche se (e rischiamo di sbagliare sia l’utilizzo della particella aggiuntiva “anche”, che di evocare maldestramente troppo antiche discussioni politico-teoriche), anche se “amendoliano”.

Ma chi è Alessandro Valentini e, in questo caso, il comunismo della nostra gioventù? È stato un importante dirigente romano e nazionale di tutta quella lotta (per molti versi eroica e oggi quasi dimenticata) che un’area di comunisti sostenne all’interno del Pci storico contro l’involuzione “socialdemocratica” dello stesso Pci, contro la svolta della “Bolognina” e contro lo scioglimento (condotto da Achille Occhetto e dai suoi complici di maggioranza) del più grande partito comunista dell’Occidente capitalistico.“Sandrone” (per la sua stazza) Valentini era uno dei giovani compagni di un’area complessiva, ideologicamente non sovrapponibile ma tenuta assieme dalla lotta comune contro la deriva politicamente e socialmente drammatica del Pci, costituita dal prestigioso gruppo leninista, rivoluzionario del milanese – Alessandro Vaia, Arnaldo Bera, Giuseppe Sacchi, Sergio Ricaldone- e da Armando Cossutta, Guido Cappelloni e tutta l’area “cossuttiana” del Pci. Chi scrive e diversi altri giovani (poi divenuti anche dirigenti nazionali del movimento comunista post-Pci), tra i quali anche il compagno Gianni Favaro, che oggi dirige il blog del Mprc sul quale, oltre che su «Futura Società», apparirà questa recensione, lottavano e crescevano politicamente assieme in quella stessa lotta che conduceva Valentini.

Nato nel 1951 a Roma, giornalista, saggista, dirigente nazionale di Rifondazione comunista e poi suo, formidabile, segretario regionale in Sardegna, “Sandrone” è un comunista in qualche modo “classico” o, quantomeno, appartenente alla quella grande “classicità” politica e culturale che ha segnato di sé molti dei dirigenti del Pci storico e che si caratterizzava per un tutt’uno dialettico tra la passione per la politica (per la rivoluzione) e per l’amore per la cultura (“per le idee”, diceva Gramsci), per la storia, la filosofia, la letteratura, la poesia.

Valentini, pur non avendo mai abbandonato o accantonato la riflessione politica “alta” (di grande valore è un suo recentissimo saggio dal titolo “Per un nuovo ordine multipolare, contro l’unipolarismo Usa e il dominio del capitale finanziario”, nel quale saggio, tra l’altro, scrive, con chiare risonanze “losurdiane”, alla Domenico Losurdo: “Per un soggetto politico rivoluzionario all’altezza del XXI secolo, non si può prescindere dalla lezione teorica e pratica marxista che ci viene oggi dall’Oriente, rispetto a un marxismo occidentale ingessato o mal interpretato, in una parola agonizzante”), pur non avendo mai rinunciato alla politica, Valentini molto si è dedicato, negli ultimi anni, alla poesia.

Rispetto a ciò: diversi mesi fa mi arriva un pacco, con mittente Alessandro Valentini e nel pacco due magnifici volumi, due raccolte di poesie scritte (scolpite? Lo diciamo per la materia “rocciosa” dei versi) da “Sandrone”.

A dimostrazione di quanto la vita politica (e la vita quotidiana) possano “cannibalizzare” un uomo, un dirigente, quanto possano, nella loro spietatezza, spegnere anche passioni e interessi, i due volumi di Valentini rimangono sul tavolo mesi e mesi, coperti e sopraffatti, a mano a mano, da altri libri, da altri, spesso pallosissimi, quanto inutili, saggi, articoli, documenti.

Finché un giorno mi arriva una telefonata da un vecchio compagno d’armi, uno dei nostri giovani della seconda metà e della fine degli anni ’80, uno dei “guerrieri” che avevano scelto il cammino, tutto controcorrente e controvento, tutto “a rimetterci”, della lotta contro l’involuzione moderata e poi persino “radical” e “liberal”, del Pci.

La telefonata – lunga, densa, da reduci, con gli spari di quel lontano fronte che riprendono a tuonare – mi fa riemergere dalla nebbia stantia del quotidiano, mi riporta alla densità delle cose di un tempo. E i miei occhi e le mie mani volgono, da soli, verso i due volumi di Valentini. Li dissotterro dalla copertura mortuaria degli altri libri e inizio a leggerli. In due giorni, tra luce e buio, li divoro. Con la voce di “Sandrone” e le sue movenze, non precisamente da ballerina di Degas, che ritornano vive dalla memoria.

Due volumi, dalle copertine di un giallo sobrio ed elegante (Edizioni Progetto Cultura), che chissà per quale misteriosa connessione mi rievocano direttamente “Sandrone” (un giorno ormai lontano lo avrò forse visto con un maglione giallo? Strano, ma non impossibile…), anche se l’eleganza ricercata non mi pare sia mai stata la “cifra” stilistica di Valentini, più un borgataro romano, fortunatamente, che un dandy dei Parioli.

Scabro, essenziale è il titolo del primo tomo (352 pagine): Poesie, con sottotitolo Inattualità di un’antologia. “Inattualità un par di palle”, avrebbe tuonato uno cattivo, ma con la franchezza della carta vetrata, come Carmelo Bene (c’entra qualcosa Carmelo Bene? Sì: nella poesia di Valentini vi è la stessa eleganza, corrosività, la stessa phonè della poesia reinventata, escogitata, dal più grande attore teatrale italiano e la poesia di Valentini sarebbe stato uno spartito ideale per il Carmelo Bene macchina attoriale). Che “l’inattualità” sia un vezzo del Valentini poeta? L’uomo è stato un dirigente politico capace e scaltro: tutto è dunque possibile, persino il fatto che l’aver obliquamente utilizzato l’aggettivo “inattuale”, per la propria poesia, sia stato il meccanismo col quale si chiede la smentita. Infatti noi, che cadiamo nella trappola “valentiniana”, smentiamo “l’inattualità” della sua poesia, definendola di una attualità struggente, dolorosa, rivoluzionaria.

Il secondo tomo dell’opera (285 pagine) ha come titolo (anch’esso secco e preciso come una pallottola, avrebbe detto, più o meno, Majakovskij) Poesie & poemetti e, per continuare la partita a poker, come sottotitolo Inattualità di un’antologia.

Che cos’è la poesia di Valentini? Affidiamoci, come overture, ad un brano della prefazione al primo tomo di Paolo Procaccini: “Immergersi nelle poesie di Sandro Valentini- scrive Procaccini – è un tuffarsi in un mondo di emozioni, luci, colori, gente diversa e spesso strana, potente e affascinante”. Chi scrive questa recensione si tiene un po’ alla larga dal fumo circense delle “emozioni, luci, colori”, sparso dal prefatore, ma di questi fa proprio il senso ultimo di ciò che è detto, il fatto cioè che un intero mondo salga sulla platea della poesia di Valentini e un altro intero mondo prema dietro le quinte. Valentini fa ribollire un paese intero, l’Italia; un mondo, un universo. Fa ribollire mondi materiali e immateriali, spezzoni emblematici della fase storica narrata, la storia nostra – appena passata o ancora in corso – e gli “stati emotivi” individuali e di massa di queste fasi. È uno storico “ribollir dei tini” da cui la realtà dell’“aspro odor dei vini” non va “l’animo a rallegrar”, ma – asseriamo noi – “la coscienza a fustigar”.

Prosegue, infatti, Procaccini nella sua prefazione: “La poetica del nostro Autore sviluppa in modo nuovo ed antico dei poemi in forma di racconti in versi, nei quali si disegnano pensieri, storie, brividi di gioie e dispiaceri a galla nell’oceano di vissute quotidianità”. “Il suo è un disegno – afferma Procaccini – che narra, parlando di sé, le speranze tradite di un’intera generazione…”.

E questa è la, vasta, parte “politica” (usiamo la parola “politica” per comodità espressiva, ma la qualità poetica dei versi di Valentini è lì a garantire che mai vi sia uno scivolamento verso la degenerazione di una “poesia politica” senza poesia). E l’altro “fronte” della poetica “valentiniana” è quello che, a ragione, Procaccini chiama “la vita amorosa, nel gioco dolce e amaro della seduzione”. E non poteva essere altrimenti: la poesia è il tutt’uno della vita, della lotta e dell’amore e “Sandrone” si muove sulle pagine in un’unica danza, cosi come si è mosso nella vita.

L’intero arco temporale ricoperto dai due volumi poetici va dal 1972 al 2018: un arco lungo, in qualche modo tutto raccontato e tenuto assieme dalla rievocazione e dalla decodificazione: usare la vanga della poesia per vedere cosa c’è sotto la coltre superficiale della terra.

In una meravigliosa poesia (a pagina 24 del primo tomo), “Casa mia”, Valentini scrive, tra l’altro: “Ora comprendo, caro Pasolini / il tuo desiderio di liberarti dall’ansia che rende così stupende queste notti antiche/ Anch’io mi rifugio (quando il fiume dei ricordi dilaga) / nella pace della mia casa/ al Gianicolo…”.E più avanti: “Nella mia casa…tutte le ore mi appartengono/ anche se, giorno dopo giorno consumo/ scellerata come una puttana/ ma bella più di una ballerina/ la vita…”E ancora avanti: “Ogni scaffale della libreria/ diviso intelligentemente per argomenti/ è un pezzo di me/…l’ultimo romanzo di Moravia/ un saggio di Amendola su “Rinascita” e una raccolta di poesie di Ginsberg…”. Così proseguendo: “Ora so, caro Pasolini, quale via prendere/ per raggiungerti alle Terme di Caracalla/…le strade di Roma sono le viscere dell’anima mia…”.

Valentini non è certo un poeta ermetico, non si “illumina d’immenso” e poi mette la penna a riposo, o spegne il computer. Le sue sono poesie/narrazioni che richiedono tempo e fedeltà alla poesia stessa. Sono lunghi “serpenti boa conscritor” che si snodano su vasti terreni e li raccontano: se rinunciamo alla pigrizia e alla disattenzione ai quali ci ha indotto il consumo colpevolmente reiterato delle merci del capitale, potremmo tornare, anche con Valentini, a godere della poesia come gli intellettuali, i contadini ed il popolo tutto della Russia dell’800, godevano leggendo Guerra e Pace di Toltsoj e i versi di Fet-Šenšin, come “le sartine francesi” (Gramsci) leggevano i feuilleton di Alexander Dumas o di Emile Zola, come gli operai inglesi del 1837 leggevano Olivier Twist di Charles Dickens.

Esageriamo, influenzati dalla vecchia militanza politica comune con Valentini? No: ciò che potrebbe indurre/indurvi a pensare all’enfatizzazione è la vecchia “galera” intellettuale e psicologica del “nemo propheta in patria”. Chi è Valentini? Ha pubblicato con Rizzoli, con la Feltrinelli (ormai alquanto sputtanata)? No: “solo” con Edizioni Progetto Cultura. È passato mai in televisione, Valentini? E allora, chi è? Ma potremmo ricordare che anche Guido Morselli, uno dei più grandi scrittori del ‘900 italiano (Un amore borghese, Il Comunista, Dissipatio H.G., Roma senza papa ed altri straordinari romanzi) non era conosciuto, come scrittore, nemmeno dai pochi amici che aveva, e che nessuna casa editrice, nemmeno Edizioni Progetto Cultura, aveva pubblicato una sua pagina prima della sua morte.

Non vi è la possibilità, senza violare uno spazio razionale, di citare ampiamente, come meriterebbe, la poesia di Valentini. Vi invito solo a leggerla, è meglio. Ma dei versi vogliamo regalarveli. Brevi parti della poesia “Non sono pentito”, pagina 24 del secondo volume: “Di che pentirmi? / Perché sono stato quello che sono stato? / Perché ho amato come ho amato? / Perché ho scritto poesie come le ho scritte? /…Di certo sono stato giacobino/ ho lavorato alla ghigliottina/ spettro mi sono aggirato sovversivo per l’Europa/ non nascondo d’essere stato bolscevico e soviettista/ storicista e togliattiano/… Di cosa dovrebbe pentirsi/ chi ha pisciato a via Frattina contro vento? / Tanti in questi anni si sono pentiti/ Vero: tanti hanno messo la testa a posto…”.

“Perché ho scritto poesie come le ho scritte?”, rimarca “Sandrone”. E come le ha scritte? Sotto quali influenze? Attingendo a chi? Giungendo a quale linguaggio? Sempre Paolo Procaccini scrive, nell’introduzione al primo tomo: “L’eco di Pavese e Pasolini è forte, ma non gratuito, mentre la beat generation, con Urlo di Ginsberg è più una condivisone che una citazione, mentre c’è un’affinità elettiva e una passione invincibile… che lo lega a Bukowski”.

Nella poesia di Valentini c’è anche, e spesso, la costruzione della poesia, del testo, attraverso forme grafiche geometriche, come nelle poesie di Guillaume Apollinaire, il grande poeta francese che dava luce al mondo attraverso la metafisica ed il surrealismo del Logos, della parola. Apollinaire che vivrà in Francia, a Parigi, dove troverà la morte nel 1918, essendo tuttavia nato a Roma, come Valentini. Certo, siamo materialisti, non crediamo ai destini incrociati e abbiamo persino timore del ridicolo: solo che ci piace ricordare che tra il Valentini “ingegnere grafico” della poesia e l’Apollinaire che costruisce i suoi versi come una sorta di un Antonin Gaudì della “Sagrada Familia” di Barcellona, c’è il nesso della romanità.

Pavese, Pasolini, Ginsberg, Apollinaire: tutte le influenze si incrociano in Valentini. Questo, in verità, non è il caos che si fa “ordine nuovo”, è solo l’intertestualità, quella “legge” della letteratura (e non solo) per la quale ogni poeta non è altro che l’estrema sintesi, consapevole o meno, di tutta la poesia che lo ha preceduto, e se ciò si negasse si rovinerebbe nel mito piccolo borghese della “totale originalità”.

Dopodiché, un poeta deve studiare molto, rifiutare la cazzata benedetto-crociana dell’“ispirazione”, leggere e amare tutta la poesia, per giungere ad un proprio linguaggio riconoscibile.

Ed è del tutto evidente che “Sandrone” molto ha letto e studiato, per giungere ad una poesia alla Valentini.

Ciao, Sandro!

Immagine: copertina libro Poesie. Inattualità di un’antologia di Alessandro Valentini – Edizioni Progetto Cultura

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