di Laura Baldelli
Intervista a Giovanni Matarazzo su come la fotografia sociale sia un antidoto all’egoico selfie e ai canoni estetici consumistici.
La fotografia sociale può essere anche una fotografia militante, in quanto testimonia, denuncia, dà un contributo al cambiamento di mentalità e come scrisse la fotografa francese Gisèle Freund: “Per la prima volta la fotografia diventa un’arma nella lotta per il miglioramento delle condizioni di vita degli strati poveri della società”.
È doveroso ricordare i precursori: il fotoreporter Jacob Riis, verso la fine del XIX secolo, ne fu il pioniere, utilizzando la fotografia come mezzo di ricerca sociale; nel 1890 affermò: “Una metà del mondo ignora come vive l’altra metà”, tratta dal suo libro fotografico How the other half lives, dove racconta anche con articoli la miseria, le disuguaglianze dei bassifondi di New York.
Ricordiamo anche Lewiss Hine, sociologo e fotografo che credeva nell’educazione come strumento di trasformazione sociale e la fotografia come strumento di conoscenza. Il suo lavoro di denuncia, svolto con degli stratagemmi per poter entrare nelle fabbriche, fu a disposizione della Commissione nazionale dei comitati dei lavoratori e per la Commissione d’inchiesta sul lavoro minorile. La preziosa documentazione fu fondamentale al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’immigrazione e l’orrore dello sfruttamento di due milioni di bambini e bambine nelle fabbriche americane, nelle piantagioni e nelle miniere, per soddisfare le richieste del boom economico. Il lavoro fotografico di Hine sembra davvero ancora oggi “un’epica del lavoro”.
Fotografi al servizio di una causa: mostrare la drammaticità delle condizioni delle vittime del capitalismo della rivoluzione industriale, per risvegliare le coscienze e creare una coscienza collettiva.
Le loro foto dimostrano la potenza della fotografia come strumento di denuncia, contraddistinguono un’epoca, costituiscono un vero e proprio “testo fotografico”, hanno un incommensurabile valore storico in quanto ci permettono di ripercorrere fotograficamente le grandi trasformazioni sociali.
La fotografia sociale, grazie ai pionieri, diventò primario strumento di conoscenza e in continuità con il lavoro dei precursori, ricordiamo due fotografe eccezionali: Dorothea Lange e Mary Ellen Mark.
La prima, in viaggio dalla California all’Arizona, documentò con umanità e rispetto la grande depressione degli Usa, creando immagini iconiche del mondo rurale di un’epoca in crisi economica, un contraltare al mondo metropolitano delle città statunitensi; l’altra fotografò i movimenti di liberazione delle donne e dei diritti delle persone omosessuali, dando voce a chi non aveva opportunità per parlare di sé, soprattutto va ricordato, come un saggio fotografico, il lavoro sui bambini di strada di Seattle.
Per tutto il ’900 la fotografia ha avuto un ruolo sempre più dominante, e come fotografi militanti vanno ricordati gli italiani Uliano Lucas e Dario Coletti per la documentazione sociale sul lavoro in Italia. La fotografia sociale ha creato memoria storica e grazie agli archivi fotografici possiamo ripercorrere altre epoche. La fotografia sociale merita un grande approfondimento dedicato, mentre questa sommaria premessa vuole essere solo una modesta introduzione all’intervista al fotografo contemporaneo, Giovanni Matarazzo, che si dedica a progetti fotografici su temi attuali, quali la migrazione, la disabilità e anche la narrazione autobiografia nei ritratti a persone comuni: tutto il suo lavoro è attraversato da una sensibilità empatica verso l’altro. Va ricordato anche che le Marche sono una regione che dedica spazi culturali alla fotografia diffusa sul territorio: Senigallia, Fermo e Montefano sono tre piccole cittadine dal fermento culturale con la memoria storica legata alla fotografia, in linea con la tradizione dei fotografi Mario Giacomelli, Mario Dondero e Arturo Ghergo.
Giovanni Matarazzo ha intrecciato crescita individuale, passione fotografica e impegno sociale e tre mostre personali segnano il percorso dei suoi ultimi anni che parte dall’ascolto di singole storie, passa per i “fuggitivi nel mondo”, fino a dare diritto di cittadinanza piena alle persone in difficoltà e alle famiglie che con amore se ne occupano. La fotografia di Matarazzo esprime cura verso l’altro, sia essa ascolto, restituzione di dignità, denuncia sociale: oltre la tecnica, la ricerca estetica, c’è tutta la sostanza di un pensiero etico.

D. La tua opera fotografica va oltre la tecnica e la ricerca estetica, è uno sguardo personale che guarda l’altro e il sociale, quasi come “spirito di servizio” che esprimi con i ritratti; come la definisci: fotografia militante, ricerca sociale, antropologica, umanistica, photo/storytelling? Soprattutto quale è stato il tuo percorso fino al pensiero che anima il tuo lavoro?
R. Sì, è vero: hai visto giusto, anche se per me questa è stata una scoperta tardiva. Quando ho iniziato a fotografare professionalmente a Bologna lavorai prima in uno studio pubblicitario di foto di moda e still-life, poi in uno studio di foto di arredamento e per l’automotive, specie per la Volvo. Tornato ad Ancona, mi specializzai in fotografia di opere d’arte come pittura, scultura, architettura e avevo, quindi, una concezione, commissioni e un obiettivo primariamente estetici.
Abbandonai questa professione quando cominciai a sentire “puzza di fotografia” con l’avvento del digitale, quando fare scatti accettabili era alla portata di tutti e molti si improvvisavano fotografi, ma anche grafici, illustratori, designer.
Per oltre dieci anni non ho toccato la macchina fotografica, dedicandomi ad altro. Quando il digitale diventò tecnicamente affidabile, tornai a fotografare, ma con un atteggiamento e una maturità nuovi. Oggi mi dedico a temi che abbiano una valenza sociale e che siano utili ai miei simili. La tecnica e l’esperienza sono gli elementi che, tanto più come “fotografo artigiano”, posso mettere a disposizione per la mia comunità per comunicare che cosa ho visto e “sentito” di una qualche situazione. Sono consapevole di avere le capacità tecniche per comunicare al meglio ciò che voglio dire e quindi non sono attratto solo da questioni estetiche, bensì dai soggetti che lascio che parlino attraverso la mia camera, che a volte è più saggia di me e mi fa scoprire solo a posteriori “cose” che non avevo neanche notato.
La macchina fotografica è il mio terzo occhio, il mio “braccio operativo”.
Non mi piace il termine “storytelling”, che ha oggi un’accezione di narrativa fatta per convincere, mentre una buona fotografia è fatta prima di tutto dall’etica, poi dall’estetica, dalla tecnica e soprattutto dall’empatia verso i propri soggetti. Ma la tecnica non deve essere sfoggio di capacità muscolari, quanto invece una padronanza del mezzo che permette di rendere al meglio il tuo sentire rispetto al soggetto; se poi traspaiono altre discipline e suggestioni, quali la fotografia militante, la ricerca sociale, antropologica, umanistica, allora penso che ci siano anche queste.

D. Ritieni che la fotografia abbia ancora il primato come strumento di conoscenza, nonostante il digitale abbia reso inflazionata la visualità?
R. Non credo che sia il digitale ad aver inflazionato la visione delle cose, ma l’uso che se ne fa, i mezzi che lo veicolano e le finalità. Ricordo che Cartier-Bresson fu molto severo verso la fotografia digitale (che non ha mai praticato): a lui spaventava la possibilità che un file potesse essere modificato e falsificato (vedi McCurry!). È quello che sta succedendo oggi con l’intelligenza artificiale: un pericolo epocale!
Ma per quel che riguarda il digitale, abbiamo in seguito visto, a esempio, foto magnifiche di Salgado, anche se poi i passaggi che Salgado applica dal digitale alla produzione di stampe analogiche, sono molto più complessi, articolati e consapevoli.
Più che il digitale, penso che oggi il pericolo maggiore sia la velocità di realizzazione e di fruizione delle immagini; siamo tutti coscienti che la velocità con cui realizziamo e guardiamo fotografie sia un pericolo, per la mancata accuratezza con cui si realizzano e per la poca attenzione che ogni foto necessita per essere guardata veramente. Questi sono i tempi della televisione, del web, della realtà aumentata: tutte tecniche “calde”, come direbbe McLuhan, che poco spazio lasciano alla fantasia e alla riflessione. La fotografia, specie quella in bianco e nero, è un medium freddo, che per essere apprezzata ha bisogno dell’apporto di chi guarda: sta al “riguardante” mettere quel tot di calore in più, affinché assolva alla sua funzione di strumento di conoscenza proprio perché s’impara e così ci rimangono dentro solo emozioni e sentimenti, che si condividono intimamente. Il resto sono caleidoscopi, slot machine che incidono in parti del cervello non utili alla nostra crescita.
Una fotografia è ferma: è lì perché ciascuno la guardi per il tempo che decide e se ne impadronisca. Questa è la sua forza e per questo ha ancora un suo significato, oggi, sia analogica che digitale.
D. Le tue mostre Qui e ora. Attraversando microcosmi del 2023, Fuggiaschi del 2024 e Il corpo s’offre. Corpi di/versi del 2024, hanno un filo conduttore, che definisco “una fotografia per riflettere”, lontana dal sensazionale, sembra un lavoro di sottrazione, come avviene nel testo poetico per arrivare al profondo, all’essenziale. Tu fai parlare i tuoi “protagonisti”, e non solo metaforicamente nelle foto, ora invece raccontaci il tuo lavoro di artista che ascolta, vede e ci offre il suo sguardo.
R. Sì, hai ragione, ma non mi definisco un artista, bensì un artigiano scrupoloso; per i motivi che cercavo di spiegare prima, rifuggo il sensazionalismo, il risultato facile su strade già tracciate, il successo. Per me, la parola “successo” è solo il participio passato della parola “succedere”. Mi piace che nelle mie foto, nei miei progetti succeda qualcosa, qualcosa che lasci una traccia per cui il soggetto e io usciamo da quell’esperienza diversi, spero migliori.
Hai citato tre progetti che mi stanno molto a cuore; sono tre ricerche personali e mostre come non ne ho mai fatte prima: Qui e ora è stata la mia primissima mostra personale, dopo ArtTaipei 2015, un’esposizione collettiva. Forse, fino a quel momento non sentivo di avere delle cose da esporre in una mostra solo personale. Qui e ora ha dato a me e alle persone ritratte e intervistate la possibilità di raccontarsi, di spogliarsi da paure, da ricordi oppressivi: sulla sedia su cui erano seduti, si sono fidati di me e mi hanno consegnato un fiume di ricordi, riflessioni, aspettative, che oggi si raccontano solo allo psicanalista o al confessore, difficilmente a un altro essere umano, tantomeno a un fotografo. Il messaggio che è arrivato a chi guarda è: “guardami: siamo simili, abbiamo più o meno gli stessi problemi. Perché non comunicarceli e rassicurarci?”.
Materiale prezioso… Alcuni mi hanno detto che è stata una delle esperienze più belle della loro vita. Ecco, questo per me è un successo perché ne siamo usciti entrambi vincitori, migliori, perché “qualcosa è successo”.
Lo stesso è accaduto per Fuggiaschi, dove ognuno è stato libero di interpretare il suo indossare un telo dorato, ovvero la coperta termica normalmente usata a protezione dei profughi; e ancor più ne Il corpo s’offre, che aveva come obiettivo non solo far conoscere all’esterno la realtà delle famiglie di disabili che ruotano intorno all’associazione Anffas, ma ancor prima, dare a queste persone la dignità che meritano. In questa occasione ho usato tutta la mia conoscenza tecnica di 50 anni di attività, affinché le foto fossero le “più” magnifiche possibili: magnifiche le pose, magnifiche le inquadrature, magnifiche le stampe in bianco e nero.
Alla presentazione della mostra invitavo i visitatori a soffermarsi su ogni foto affinché dialogassero con i soggetti, guardandoli negli occhi, decodificandone ogni minimo atteggiamento, ricostruendone le dinamiche di gruppo e di famiglia, comprendendo i messaggi che volevano dare: queste persone, che con la loro grande fatica di ogni giorno e la fatica per venire in uno studio improvvisato a mostrare i loro corpi, meritavano davvero il meglio.
Spero di esserci riuscito tanto quanto mi ero prefisso, le loro reazioni e quelle dei visitatori della mostra, mi confortano e mi rendono felice, anche se non tutti hanno capito la portata del vissuto dell’esperienza; infatti c’era chi entrava fugacemente e fugacemente usciva perché sentiva l’oppressione di quegli sguardi dritti in faccia e si intristiva; così quei visitatori sono usciti tali e quali a come sono entrati: distratti, impauriti, magari indignati: quella era la loro tristezza, la loro paura, la loro fuga, non quella dei soggetti fotografati, che hanno fatto da specchio superficiale. Chissà…
Grazie a Giovanni Matarazzo fotografo-artigiano.
Immagini: fotografie di Giovanni Matarazzo
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