di Laura Baldelli
Il regista Francesco Costabile, ispirato da un episodio di cronaca, racconta una storia di ordinaria violenza familiare, istituzionale, sociale, generazionale, politica.
Familia è un film italiano, il secondo di Francesco Costabile, presentato allo scorso Festival cinematografico di Venezia nella sezione Orizzonti, un’opera coraggiosa per un racconto difficile di violenza familiare; è la violenza della società patriarcale già raccontata del regista Francesco Costabile nel suo primo film Una femmina,liberamente ispirato al libro-inchiesta Fimmine ribelli di Lirio Abbate, sulle donne calabresi vittime delle famiglie affiliate alla ‘ndrangheta.
Anche Familia nasce da una storia vera, liberamente ispirato al racconto autobiografico di Luigi Celeste, Non sarà sempre così, in cui l’autore racconta il parricidio verso il proprio genitore che picchiava la madre e terrorizzava i figli.
Il film ci rapisce, ci porta dentro la tragedia, con una narrazione di tensione dal ritmo di un thriller, grazie a soluzioni narratologiche originali anche dal punto di vista estetico, in cui la fotografia, il montaggio, la sceneggiatura ci immergono con tutti i nostri sentimenti in una storia di quotidiana violenza dalle inesorabili conseguenze psicologiche.
Gli attori sono straordinari, confermandoci l’intensità della recitazione di Barbara Ronchi, di Francesco Di Leva e dei giovani attori professionisti Francesco Gheghi, Tecla Insolia e Marco Cicalese, che delineano i propri personaggi anche solo con l’intensità degli occhi, dentro gli scarni dialoghi mozzati dalla paura e sopraffatti dalla rabbia, in un racconto secco e disturbante, dove ognuno fin da bambino ha dovuto fare i conti in solitudine con i propri indicibili dolori avvolti da paralizzanti paure e sensi di colpa, in una sorta di analfabetismo emozionale, che neanche l’immenso amore della madre può sanare, perché lei stessa è sommersa dalla paura e dal sacrificio, perché lasciata sola dalle istituzioni, incapaci di darle tutela, trincerate dietro fumose prassi burocratiche.
Il film, infatti, oltre che raccontare la tensione dell’inferno quotidiano, coraggiosamente mette in luce l’incapacità d’intervento delle istituzioni, siano esse forze dell’ordine, magistratura, servizi sociali, mostrandoci anche una realtà di violenza istituzionalizzata; ma non solo: spesso chi subisce violenza porta con sé ferite profonde per tutta la vita, perché accumula rabbia e ricerca paradossalmente come cura la stessa violenta autorità, occasioni violente per sfogare la propria rabbia e per questo il nostro protagonista, nel vuoto culturale ed etico della nostra società, colma di disvalori, si avvicina ai gruppi neofascisti, nella ricerca di una propria identità, di un esempio maschile, illudendosi di trovare sicurezze, ideali, amicizia, regole morali.
Nel film c’è una bellissima citazione cinematografica de I 400 colpi di Truffaut, la corsa nella fuga del protagonista-bambino, quando viene sottratto in modo violento alla madre dai servizi sociali, dopo aver assistito all’arresto del padre. Il film è stato ambientato e girato a Roma in tempi brevissimi, mentre il dramma si svolse a Milano, quasi a sottolineare quanto questi drammi siano ovunque in Italia; ma la storia di Luigi Celeste ha un lieto fine: in carcere ha ripreso gli studi e oggi è un tecnico della sicurezza, ha costruito la sua rinascita grazie anche a quelle istituzioni che non lo avevano protetto, ma che quando funzionano danno grandi risultati.
Infatti, quella violenza generazionale, che sembra aver messo radici nella nostra società, frutto del senso d’impotenza, dove il destino sembra sia sempre già scritto e inesorabile, sono stati sconfitti e davvero Non sarà sempre così, almeno per Luigi Celeste, ma ci vuole cura e progetto.
Ancora buon cinema italiano che attraverso arte e tecnica, racconta storie, fa riflettere, costruisce consapevolezza… lontano dalle “grandi, dispendiose e sopravvalutate bellezze di retorica e finta poesia” e ogni riferimento a… è voluto.
Immagine: foto tratta dal film Familia
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