di Nanni Marcenaro
In questo mio breve articolo voglio cogliere l’occasione per mettere in luce un aspetto particolarmente significativo della Rivoluzione d’Ottobre, che raramente, se mai, viene discusso e che richiede di considerare questo evento da una prospettiva che ponga in primo piano la questione nazionale e coloniale.
La Rivoluzione d’Ottobre, infatti, non fu soltanto un momento di rottura radicale con le tradizionali modalità di organizzazione della società, dando vita in Unione Sovietica al primo Stato in cui la classe lavoratrice, per mezzo del Partito comunista bolscevico, entrava in controllo dei mezzi di produzione e dimostrava la potenza innovatrice e creatrice di un’economia pianificata che trasformava in poco più di vent’anni un Paese, perlopiù agricolo e pressoché digiuno di industria, in una delle prime potenze industriali del pianeta; con ciò mettendo i brividi a tutti i capitalisti e alle classi dirigenti di tutto l’Occidente liberale, di cui provocò la velenosa reazione ideologica e militare.
La presa del potere dei comunisti in Russia rappresentò anche uno snodo cruciale e fondamentale per un evento ben poco noto alla maggior parte delle persone e che, a mia conoscenza, soltanto il professor Domenico Losurdo nel suo Marxismo occidentale: come nacque, come morì, come può rinascere, chiama con il suo nome, sebbene si tratti sostanzialmente dell’evento nella cui cornice si sono svolti i fatti più importanti degli ultimi due secoli, ossia la grande “rivoluzione anticolonialista mondiale”, che Losurdo giustamente definisce “l’elemento di grandezza del Novecento”.
Non sono, certo, moltissimi in Occidente ad avere presente nei fatti concreti la realtà storica di questo movimento di liberazione dei popoli: essa, infatti, è mascherata in modo fraudolento dalla narrazione mistificatrice degli eventi, compiuta sistematicamente in tutte le arene pubbliche, dalle scuole di ogni ordine e grado ai più beceri programmi televisivi condotti dai Bruno Vespa e dai Paolo Mieli, che vogliono sempre presentare le dinamiche storiche che hanno prevalso nel plasmare gli eventi, in particolare della Seconda Guerra mondiale, secondo antitesi di comodo, definite immancabilmente come alternativa tra semplicistiche definizioni di “bene” e “male” che vanno a coincidere con il conflitto tra “nazifascismo” e “antifascismo” prima, e tra “democrazia” e “comunismo” dopo, e in cui all’Occidente e alla presunta democrazia liberale, che poi, come ancora il professor Losurdo mostra nel suo Controstoria del liberalismo, non è altro che “democrazia per il popolo dei signori”, tocca immancabilmente il ruolo di salvatore degli oppressi.
In questo modo, la stessa nozione di “colonialismo” dilegua nella mitologia posticcia dell’inarrestabile percorso del progresso della civiltà liberale e, da una parte, la questione coloniale, con tutta la mostruosità dell’assoggettamento e sterminio di interi popoli, con tutta la brutalità e la spietatezza delle politiche terroristiche con cui intere culture venivano e, anzi, vengono ancora oggi deumanizzate e cancellate, viene derubricata a bagattella di poco conto mentre, dall’altra parte, la questione nazionale viene demonizzata come residuo di un tempo passato e oscurantista che si deve abbandonare per il cosmopolitismo della cultura liberale anglosassone.
La questione nazionale e quella coloniale, infatti, sono i due cardini su cui si sviluppa l’intera rivoluzione anticolonialista mondiale, che non possono essere disgiunti l’uno dall’altro poiché si implicano a vicenda: sia Lenin, sia Stalin, che scrissero pagine illuminanti su questi temi, riconoscono che condizione preliminare perché si possano produrre le forze sociali che portino a una rivoluzione socialista, è l’affermazione del diritto all’autodeterminazione dei popoli. Questo diritto deve essere conquistato nella lotta per il riconoscimento dei popoli coloniali come nazione, appunto, con suoi propri caratteri culturali, che si costituisce come Stato indipendente, unendosi da pari a pari alla comunità mondiale delle nazioni. Come nazione paritaria, che non intende porsi come superiore alle altre, né si ritiene esserlo, i suoi appartenenti possono essere orgogliosamente patriottici, poiché non sono sciovinisti. Persino Hannah Arendt, ardente calunniatrice di Stalin, dovette riconoscere che quest’ultimo aveva offerto una soluzione completa alla questione nazionale.
Con il suo appello agli “schiavi delle colonie” di spezzare le loro catene e prendere nelle loro mani la propria sorte, Lenin e la Rivoluzione d’Ottobre avevano dato un impulso formidabile e decisivo a tutti quei movimenti di liberazione nazionale che, nel corso del secolo precedente, avevano invano tentato di trovare una chiave di volta per raccogliere le forze sufficienti a mettere in discussione il dominio coloniale degli europei nei loro Paesi. Come ho detto, infatti, l’Ottobre 1917 fu uno snodo cruciale della rivoluzione anticolonialista mondiale ma il suo inizio vero e proprio risale alla rivoluzione degli schiavi neri di Haiti, guidata al successo da Toussaint Louverture nel 1800, in seguito alla quale venne fondato il primo Stato indipendente di afro-caraibici liberi. Louverture è una figura dai contorni eroici e, sotto il suo comando, l’esercito di Haiti sconfisse anche le armate di Napoleone inviate, qualche anno dopo, per cercare di soffocare la rivolta.
Haiti rimase a lungo l’unico Stato indipendente guidato da ex schiavi, però la rivoluzione anticolonialista mondiale non si fermava e, scorrendo come flusso carsico nella dinamica dialettica del processo storico, si manifestava nella progressiva abolizione della schiavitù in tutti gli imperi colonialisti, in quanto misura di prevenzione verso altri tentativi come quello condotto con successo dagli ex schiavi del Paese caraibico, fino a ripresentarsi, infine, in modo clamoroso appunto, nella Rivoluzione dell’Ottobre 1917.
Quando, infatti, il regime zarista che era conosciuto popolarmente come “la tomba delle nazioni” – espressione spesso ricordata dallo stesso Lenin – crollò, simultaneamente decine e decine di nazioni si trovarono immediatamente libere dal giogo dello “sciovinismo imperiale grande russo” che le aveva assoggettate per generazioni e generazioni. La Rivoluzione d’Ottobre e i bolscevichi dimostrarono, con il solo esempio dell’avere avuto successo, cioè dell’avere rovesciato la monarchia e resistito all’assalto dei Paesi colonialisti nel 1921-1923, come ciò che i suprematisti europei raccontavano come stato di natura, a cui per volontà imperscrutabili bisognava piegarsi, con le buone o con le cattive, cioè il loro dominio, non fosse altro che una situazione contingente, storica, che poteva essere ribaltata avendo la meglio su chi da sempre si era considerato superiore per diritto, di nascita o divino.
Da questo punto di vista, perciò, la Seconda Guerra mondiale può essere vista, innanzitutto, come la storia di un conflitto che si sviluppa tra colonialismo e anticolonialismo: il progetto della Germania nazista, infatti, era – come riconosciuto da tutta la storiografia – quello di creare nell’Est europeo e in Russia il proprio “spazio vitale”, assoggettando i popoli slavi come schiavi, esplicitamente secondo l’esempio di quanto gli Stati Uniti d’America avevano compiuto nel secolo precedente con le popolazioni native americane e afro-americane. Hitler, infatti, era salito al potere dichiarandosi il campione della supremazia bianca in Europa e nel mondo, e nel suo Mein Kampf, dice esplicitamente che il “vessillo” della “lotta per il dominio ariano del mondo intero” verrà preso nelle mani della Germania da quelle degli Stati Uniti.
Nella prima metà del secolo scorso, infatti, gli Usa sono ben conosciuti come lo Stato razzista per eccellenza dove, ancora negli anni ’20, Ho Chi Minh, che le tesi di Lenin su questione nazionale e coloniale riempiranno di gioia e speranza, può testimoniare inorridito il linciaggio di un uomo di colore, fatto a pezzi e carbonizzato in mezzo a folle festanti di bianchi, uomini, donne e bambini che, magari, solevano anche portarsi a casa un qualche “souvenir” di tale orrore, domandandosi, con tutta la ragione: “È questa la civiltà?” avendo visto con i propri occhi la stessa politica terroristica condotta dai francesi sul suo popolo in quella che, allora, era chiamata Indocina.
Ma negli Stati Uniti, inoltre, ben fin addentro agli anni ’40, vigeva la più severa, restrittiva e repressiva legislazione razziale del pianeta, che i nazisti, come documenta in modo esemplare James Q. Whitman nel suo Il modello americano di Hitler, pubblicato in inglese nel 2017 per la Princeton University Press, presero di peso in larga parte per redigere le loro famigerate leggi di Norimberga del 1935; ma non così famigerate come la legislazione Usa che era talmente aspra che persino i nazisti si videro costretti ad adottarne una formulazione meno stringente di quella in vigore oltreoceano dove, per decenni, era già stata imposta una feroce politica di segregazione delle popolazioni afro-americane.
La storia del liberalismo, d’altronde, come avrete modo di verificare se leggerete il libro di Losurdo, non mente sulle paurose clausole di esclusione che definiscono la società dei “liberi” come “spazio sacro” nel quale solo la razza bianca può accedere, organizzata politicamente come “democrazia per il popolo dei signori” in cui alla classe lavoratrice non è riservato un trattamento molto diverso dalle “razze” considerate “inferiori”, ed è essa stessa, da eminenti pensatori “liberali”, catalogata come specie a se stante del tutto equivalente agli “Untermenschen”.
Una serie di studi storiografici basati su dettagliate e puntuali ricerche archivistiche, dopotutto, ha dimostrato senza ombra di dubbio che non solo, come è ben noto, fu Hitler a dichiarare guerra agli Stati Uniti, che non avevano affatto intenzione di impicciarsi nel conflitto europeo, scottati dagli esiti del primo conflitto mondiale, ma anche che le principali aziende capitaliste statunitensi, come General Electric, Ford, Ibm, Dupont, Standard Oil (Esso), Itt e altre, per mezzo delle loro consociate o filiali in Francia e Germania continuarono a rifornire l’apparato statale nazista di tutto il necessario allo sforzo bellico contro l’Unione Sovietica fino alla fine del conflitto, con un aumento sproporzionato delle forniture in particolare nel 1943, il tutto con la conoscenza e l’assenso dei più alti vertici delle istituzioni Usa, Roosevelt compreso, che già il 13 dicembre 1941 firmò una licenza espressamente mirata a eludere le restrizioni poste al commercio dal “Trading with the Enemy Act” emanato poco tempo prima.
Tutto l’Occidente capitalista aveva applaudito al coraggioso tentativo di Hitler e dei nazisti e, come documenta Michael Parenti nel suo Inventing Reality: the Politics of Mass Media, tutti i mezzi di informazione, in particolare statunitensi, elogiavano la dittatura hitleriana per il suo rigore nella repressione dei movimenti dei lavoratori e per la sua determinazione anticomunista. Questo non deve stupire, perché come dice giustamente Aimé Césaire nel suo fondamentale Discorso sul colonialismo del 1955, il vero crimine che “il borghese distinto, umanista”, e cioè liberale, “non perdona a Hitler” non è per nulla “il crimine contro l’uomo […] in quanto tale, ma il crimine contro l’uomo bianco” e quindi “il fatto di aver applicato in Europa quei trattamenti tipicamente coloniali” da riservare invece ai “popoli inferiori”, in modo del tutto conseguente alla tradizione e alla storia del liberalismo nel suo insieme come movimento culturale nel processo storico.
L’assalto delle armate hitleriane allo Stato degli operai e dei contadini fondato nell’Ottobre del 1917, dunque, si inserisce in un più ampio contesto che vede proprio negli eventi della Rivoluzione bolscevica l’inizio della sua dinamica dialettica, come aggressione colonialista dell’Occidente nel suo insieme, nel disegno dell’assoggettamento del mondo intero ai popoli bianchi europei, il cui dominio, nel 1941, risparmiava, appunto, soltanto l’Unione Sovietica.
Non può stupire, dunque, nemmeno che il grandioso trionfo di quest’ultima nella “Grande guerra patriottica”, appunto, abbia battuto la campana a morte per il colonialismo di stampo classico e abbia segnato il montare dell’onda di piena della rivoluzione anticolonialista mondiale, dilagata in tutta la sua potenza nella seconda metà del ventesimo secolo, con le vittoriose rivoluzioni prima in Cina, nel 1949, poi in Corea, nella resistenza all’invasione statunitense negli anni 1950-1953, e poi a Cuba nel 1959, in Vietnam e Laos negli anni ’70, e nelle molte difficili esperienze di lotta per il riconoscimento e liberazione nazionale in numerosi Paesi africani, così come nelle Americhe, in Nicaragua, in El Salvador, e infine in Venezuela dal 1999 in poi.
Dopo la fine del conflitto mondiale, infatti, tutti gli imperi coloniali del passato crollano sotto i colpi dei movimenti di liberazione nazionale, favoriti in questo, però, dall’interesse che gli Stati Uniti stessi avevano nel vedere tutti quei Paesi affrancati dal controllo diretto per mezzo dell’amministrazione coloniale degli europei: gli Usa cercano di approfittare dell’ormai perduta credibilità del colonialismo, e del rischio che insistere su di esso avrebbe inevitabilmente comportato, di fronte a un soggetto come l’Urss e a sempre più radicali e crescenti movimenti anticoloniali di liberazione nazionale di stampo spesso socialista, per farsi promotori di un’ingannevole politica di indipendenza degli Stati attraverso i quali imporre su di essi la loro autorità imperiale, nella forma del neocolonialismo, sistema di sfruttamento estremo che ancora oggi affligge moltissimi dei Paesi ex coloniali.
La “lotta ariana per il dominio del mondo intero” non si è ancora conclusa dunque, come è facile vedere proprio in questi anni, con il risorgere delle più distillate espressioni del liberalismo quando si trova di fronte alla minaccia di perdere la propria posizione dominante ed egemone, nella forma della sempre più marcata russofobia, o dei sottintesi razzisti del discorso pubblico in Occidente, che continua a volere evangelizzare il resto del mondo, però, non più esportando i dettami della Bibbia, ma quelli della democrazia liberale.
Ma nemmeno lo è la rivoluzione anticolonialista mondiale che, anzi, ha ormai assunto dimensioni globali, non si riduce più ad alcuni Paesi di stampo socialista che si oppongono, ciascuno a suo modo, alle politiche imperialiste e ai disegni neocoloniali, sostenendo, quando e dove è concretamente e politicamente possibile, qualsiasi movimento di liberazione nazionale, anche non socialista, e si è allargata, piuttosto, a numerosi Paesi dalle caratteristiche sociali e politiche anche estremamente divergenti che, tuttavia, sul principio della non interferenza negli affari interni di uno Stato straniero, e cioè trattandosi reciprocamente da pari a pari, sono disposti a collaborare sulla base del fatto che sono tutti Paesi ex coloniali, Russia inclusa, che ha vissuto la condizione di semicolonia nei terrificanti 15 anni seguenti alla demolizione controllata dell’Unione Sovietica.
L’eredità della Rivoluzione d’Ottobre, dunque, è ancora ben viva e le parole di Lenin risuonano nelle dichiarazioni delle istituzioni internazionali che i Paesi del Sud del mondo hanno fondato come risultato dialettico della rivoluzione anticolonialista mondiale, come naturalmente i Brics+, in un accorato richiamo allo spezzare le proprie catene, prendere nelle proprie mani le sorti del proprio Paese, e liberarsi della tutela indesiderata dello straniero a cui, in fondo, anche l’Italia, oggi e da molti anni, è soggetta.
*Coordinatore Liguria Movimento per la Rinascita Comunista
Immagine: Cuilomerto, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons
Lascia un commento