Nelle periferie non c’è bisogno di “ordine” ma di giustizia sociale

di Federico Giusti

I recenti fatti del quartiere Corvetto a Milano, dove è scoppiata una rivolta dopo che un giovane di origini egiziane è morto in seguito a un inseguimento delle forze dell’ordine per aver forzato un posto di blocco, ci portano a riflettere su quali siano le cause del cosiddetto “degrado”, e su come queste forme di ribellione siano l’unica voce a disposizione di chi vive nella marginalità. Questa voce va ascoltata, interpretata, e la rabbia deve diventare una cosciente richiesta di cambiamento.

Di fronte alla morte di un giovane, a prescindere dalle circostanze, ogni sincero democratico dovrebbe sentirsi chiamato in causa contribuendo ad aprire un serio dibattito sulle periferie urbane. Ma umanità è morta da tempo, si leggano a tal proposito i commenti social, le dichiarazioni di esponenti politici del centro-destra che pensano solo alla militarizzazione dei territori e la discesa nell’Olimpo securitario anche del centro-sinistra meneghino e nazionale.

Ci siamo confrontati in seno alla redazione di «Futura Società», e su questo punto esistono approcci non univoci che scaturiscono dalla lettura della realtà e dal modo con il quale analizziamo i fenomeni migratori e giovanili.

Ma su un punto siamo tutti concordi, ossia nel legare i fatti del Corvetto di Milano alle irrisolte problematiche sociali, alla speculazione immobiliare avvenuta attorno a Expo e oggi riproposta dalle Olimpiadi di Cortina, dall’abbandono dei quartieri popolari e dalle logiche repressive declinate con l’esclusione sociale.

Sulla stampa e sulle tv nazionali ci imbattiamo in commenti dettati da logiche prettamente securitarie che parlano alla pancia delle persone agitando lo spettro dell’insicurezza senza mai pensare che si è insicuri quando abbiamo un lavoro precario e mal pagato, se siamo disoccupati o senza casa.

Le norme approvate dalla maggioranza in materia di sicurezza hanno introdotto 48 nuovi reati (una media di due al mese) e innumerevoli inasprimenti di pena. Se dovessimo includere anche il ddl 1660, in discussione e ormai prossimo alla votazione in Senato, la situazione sarebbe ancor peggiore.

Solo pochi giorni or sono gli operatori sociali di alcuni istituti di pena facevano appello alla società civile per ricevere in dono coperte e indumenti pesanti, una richiesta non caritatevole ma dettata dal fatto che numerosi istituti di pena presentano impianti di riscaldamento obsoleti e malfunzionanti.

Se dovessimo ascoltare qualche politico, i detenuti sarebbero costretti a vivere in condizioni ancor peggiori, alimentati a pane e acqua come avveniva nelle carceri borboniche dove erano rinchiusi i mazziniani e i repubblicani nel diciannovesimo secolo, eppure il loro faro guida dovrebbe essere la Costituzione, che sul carcere e sulla pena assume indirizzi diametralmente opposti.

E sempre i politici e i giornali di destra giustificano ogni operato delle forze dell’ordine prima ancora di appurare i fatti; siamo tornati ai tempi della Legge Reale e Cossiga invocando il fuoco su chi non si ferma all’alt.

La condizione di vita nelle carceri ha molti aspetti in comune con quella nei quartieri popolari. Da troppi anni gli investimenti sociali e la manutenzione degli edifici popolari sono assai carenti, mancano fondi per il sociale ma non per le spese di guerra. L’ultimo piano casa nazionale risale a sessant’anni fa, e in questi decenni l’edilizia popolare è stata spesso abbandonata al suo tragico destino, o comunque assai poco sostenuta, quando invece in numerosi paesi del Nord Europa è stata oggetto di ristrutturazione, dotata di pannelli solari, di aree verdi e spazi comuni per la socializzazione. In Italia i quartieri popolari presentano bassi redditi, sovraffollamento, ampie sacche di disoccupazione e disagi di varia natura, ed elevati sono i numeri relativi agli abbandoni scolastici. Nel degrado costruito ad arte, e prodotto da scelte politiche, la stessa convivenza civile corre seri rischi.

Speculazione immobiliare e caro affitti, politiche urbanistiche di riqualificazione hanno fatto il resto. Se un monolocale arriva a 1.000 euro al mese in questo appartamento vivranno in quattro solo per dividersi le spese. In queste condizioni la convivenza tra immigrati e autoctoni diventa problematica proprio per le scelte politiche operate, e le culture identitarie delle destre restano del tutto strumentali per non affrontare i nodi sociali, economici e urbanistici irrisolti.

I fatti di cronaca parlano di scontri nel quartiere popolare di Corvetto tra cariche, barricate, lancio di lacrimogeni, dopo la morte di un giovane di origine egiziana inseguito dai carabinieri su un motorino presumibilmente rubato e condotto senza patente.

Quanto avvenuto a Milano lo conosciamo per averlo già visto nelle banlieu parigine, ma anche in altre città italiane. Succede quando hanno il sopravvento logiche securitarie e repressive, di militarizzazione dei territori, senza mai guardare ai processi di impoverimento prodotti dalla precarietà del lavoro, da interventi sociali del tutto inadeguati, dai processi di sottrazione speculativa alimentati dalla trasformazione urbana che stanno isolando interi quartieri popolari dentro sacche di miseria e marginalità.

Parliamo di quartieri densamente abitati, dove la presenza di migranti, di varia generazione, è molto forte, nei quali la privatizzazione dei servizi sociali, il mancato recupero dell’edilizia popolare, l’assenza di scuole aperte (ma perfino di corsi di lingua) e rivolte anche al recupero di giovani che hanno abbandonato precocemente gli studi determinano fenomeni di ghettizzazione.

Nelle metropoli è in atto da tempo la valorizzazione di alcune aree immobiliari insieme all’abbandono di altre. In numerosi quartieri i processi di “rigenerazione urbana” hanno spinto i proletari ad andarsene per affitti troppo cari e insostenibili, le loro abitazioni sono state acquistate a poco prezzo da blocchi immobiliaristi che hanno avuto gioco facile a speculare dentro territori da tempo lasciati all’incuria e all’abbandono. Ma invece di guardare alla sostanza del problema si criminalizzano gli occupanti di casa invocando norme ancora più feroci di quelle previste dal ddl 1660; invece di recuperare edifici abbandonati riqualificandoli a uso sociale si persevera nella speculazione. E non mancano casi di subaffitto dentro alloggi di pochi metri quadrati per l’insostenibilità di canoni locativi schizzati alle stelle.

Non possiamo eludere pertanto l’emergenza sociale, abitativa, culturale e urbanistica se vogliamo coglierne la complessità e non limitarci solo a risposte securitarie.

Molti giovani senza palestre, scuola e lavoro vivono sulla loro pelle la marginalizzazione e i crescenti processi di discriminazione; la militarizzazione dei territori li trasforma in facili prede del securitarismo. Se trasformiamo i quartieri in ghetti crescerà il clima di odio, e la stessa integrazione sociale verrà giudicata alla stregua di inutile buonismo.

Lungi da noi costruire analisi sociologiche sugli abitanti dei quartieri popolari, siamo tuttavia convinti che in questi giorni non siano mai stati trattati i processi di speculazione immobiliare e le troppe falle del sistema sociale e educativo.

La volontà del governo e della stampa compiacente è quella di ridurre la problematica sociale a logiche di ordine pubblico per giustificare interventi securitari ma senza mai prendere atto della natura socioeconomica del problema: meglio nascondersi dietro alla repressione o ai classici stereotipi che forniscono spiegazioni e soluzioni “rassicuranti”.

E da queste scelte nascono le rivolte nei quartieri.

Immagine: Arbalete, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0&gt;, via Wikimedia Commons

Lascia un commento

Sito web creato con WordPress.com.

Su ↑