di Lucio Tartaglia *
Radiografia dello sciopero di Fabriano, in provincia di Ancona, tra crisi industriale, speculazioni liberiste e l’esigenza delle lotte.
Lo sciopero generale dei lavoratori di venerdì 29 novembre merita senza dubbio una riflessione, dal punto di vista sociopolitico. Nelle Marche, la scelta della sede è stata sicuramente appropriata, perché Fabriano è una delle città che maggiormente sta vivendo le contraddizioni di un capitalismo selvaggio e predatorio, che fa compra(s)vendita delle sue industrie strategiche a multinazionali e fondi stranieri, i quali non si fanno scrupoli a sacrificare la classe lavoratrice sull’altare della sacra legge del massimo profitto. La lacerazione del tessuto sociale ed economico fabrianese si percepisce chiaramente, la città che era uno dei più importanti poli industriali italiani, rischia di questo passo, la progressiva desertificazione.
Le condizioni affinché lo sciopero fosse partecipato e sentito, vi erano tutte. Ed effettivamente la partecipazione è stata consistente: i pullman sono arrivati da tutta la regione e oltre 4.000 persone hanno affollato le strade di Fabriano, andando a riempire la bella piazza centrale, colorata prevalentemente dalle bandiere rosse della Cgil e blu della Uil. Eppure, gli animi, non sono infuocati, la piazza non partecipa con entusiasmo agli slogan lanciati dal palco da istituzioni e rappresentanti sindacali, a tratti si percepisce un misto tra indifferenza e rassegnazione. Riflettendo sulle condizioni della classe lavoratrice italiana, obiettivamente, non ci sono ragioni per essere ottimisti, dal momento che le politiche neoliberali degli ultimi quarant’anni, promosse dalle classi dirigenti di tutti i colori, altro non hanno fatto che comprimere i diritti sul lavoro e fare pesanti tagli a sanità, istruzione e pensioni, peggiorando nel complesso le condizioni di vita di proletari e sottoproletari. I salari, l’aspetto più pratico della questione, non crescono, anzi negli ultimi trent’anni hanno subito una contrazione in termini reali e con l’impennata dell’inflazione registrata, la perdita di potere d’acquisto della classe lavoratrice è stata notevole. Ma il vero dramma è quello dei 195 operai della Giano s.r.l., ormai prossimi al licenziamento, vista l’annunciata chiusura, da parte del Gruppo Fedrigoni, dello stabilimento che da secoli produce la carta, una vera eccellenza italiana, un vero made Italy; ugualmente preoccupanti sono i 1935 esuberi dichiarati dalla multinazionale Beko, che lasciano presagire una sanguinosa, per le famiglie del territorio, dismissione industriale dell’ex Indesit dei Merloni.
Davanti a questo cupo scenario, gli oratori che si sono susseguiti sul palco si sono sperticati in interventi dai toni quasi anticapitalistici: si è parlato della voracità di multinazionali e fondi d’investimento, che “magicamente” arrivano in Italia, fanno razzia del nostro tessuto industriale e puntano solamente alla massimizzazione del profitto, noncuranti della sorte dei lavoratori italiani. Peccato che nessuno, dal palco, abbia denunciato le regole del gioco europeo e neoliberista in generale, le quali impongono la libera circolazione di merci e capitali e annesse acquisizioni o meglio svendite delle nostre industrie strategiche, con la conseguenza che i nuovi padroni transnazionali possono poi scegliere liberamente come massimizzare i loro profitti e, una volta raggiunto l’obiettivo, ridimensionarsi o andarsene pronti per nuove rapine imperialiste, come sempre a danno dei lavoratori. La sindaca di Fabriano ha speso tante parole a sostegno dei lavoratori del suo territorio, sollecitando la necessità di piani industriali seri che puntino a un’adeguata sistemazione per gli operai, invocando il fantasma del “golden power”, tanto caro al governo (come hanno fatto altri oratori, senza che nessuno ne desse una spiegazione) e ripetendo come un mantra la parola “innovazione”, probabilmente perché investire con il sostegno statale, in tecnologia e know-how significa rendersi nuovamente attrattivi per i rapaci capitali stranieri. Guai a pensare, invece, alla nazionalizzazione, con il ritorno delle cartiere all’Istituto Poligrafico dello Stato. Gli interventi sono poi proseguiti, i rappresentanti istituzionali e sindacali si sono dichiarano vicini ai lavoratori e pronti alla lotta contro il “capitalismo cattivo” di aziende e fondi stranieri, che danneggia il “capitalismo italiano dal volto umano”, dimenticando forse che quando Merloni vendeva all’americana Whirpool non aveva la pistola puntata alla testa e chissà se questi “capitalisti buoni” continuano a ottenere qualche misera fetta di torta, sotto forma di dividendi. Sul palco c’è spazio anche per i rappresentanti dei lavoratori, che restituiscono scenari inquietanti: nello stabilimenti di Melano, come annunciato da Beko, ci saranno nuovi esuberi, che vanno ad aggiungersi ai circa 700 licenziamenti degli ultimi 10 anni, i siti di Comunanza e Siena sono a rischio chiusura, Varese verrà ridimensionato e in generale proposte concrete e dignitose per i tanti futuri disoccupati non ce ne sono, a meno che non ci si accontenti del prolungamento dell’agonia, proposto in altre sedi dalla sindaca di Fabriano, mediante un anno di cassa integrazione.
Lo sciopero ha quindi assunto i toni di una manifestazione antigovernativa, in particolare contro l’indegna legge di bilancio che, in linea con le precedenti, acuirà le disuguaglianze sociali ed economiche del Paese. Nel mirino anche il ministro Salvini e il suo tentativo di depotenziare lo sciopero attraverso la precettazione e più in generale l’obiettivo di limitare e criminalizzare il dissenso. Per ora i Palazzi possono dormire sonni tranquilli: tra i partecipanti si percepiva più disillusione che rabbia sociale e i proclami provenienti dal palco non hanno contribuito a infuocare gli animi, perché ormai ci si è rassegnati che per sanità, istruzione e lavoro i soldi non si trovano mai, ma per le spese militari e le tecnologie dual-use non c’è patto di stabilità che tenga.

Nonostante sia un segnale positivo che tanti lavoratori e lavoratrici siano scesi in piazza, per chiedere migliori condizioni di vita e di lavoro, appare lecito dubitare che lo sciopero possa aver risvegliato la coscienza di una classe disillusa, abituata negli ultimi anni a continue erosioni dei propri diritti, a un generale impoverimento, alla crescente sfiducia nella democrazia liberale e nella sua classe dirigente percepita come distante e volutamente incapace di recepire le istanze delle classi subalterne, al sostanziale fallimento del metodo concertativo promosso da sindacati spesso compiacenti con le classi padronali, il quale ha riscosso ben pochi successi e conquiste sociali ed economiche. Le contraddizioni del sistema capitalistico sono però sempre più evidenti e l’asservimento delle politiche economiche delle nazioni occidentali alla guerra e ai diktat di Usa-Nato-Ue, richiede necessariamente una risposta forte e unitaria dei proletari di tutto il mondo.
* Mprc Pesaro
Immagine: nostra elaborazione foto tratta dalla rete
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