di Federico Giusti
I tagli del governo a scuola, sanità, enti locali e pensioni. Riducendo i coefficienti di calcolo si abbassa l’importo dell’assegno previdenziale.
La manovra del governo prevede diversi tagli alla spesa sociale, in linea con le politiche europee di riconversione della spesa pubblica verso il comparto militare. Per esempio, vengono eliminati 5.660 posti di insegnanti e 2.174 posti di personale amministrativo delle scuole, mentre si danno 1.500 euro alle famiglie da spendere nelle scuole private. Una misura che la dice lunga sull’approccio governativo all’istruzione.
Per quanto riguarda gli enti locali i tagli sono pari a 1 miliardo e 300 milioni e, per il periodo dal 2005 al 2027, la riduzione di spesa sarà di 3 miliardi e 710 milioni. Con quel che resta gli enti dovranno pagare non solo gli stipendi dei dipendenti comunali e regionali, ma anche le utenze, le spese di funzionamento degli uffici e gli acquisti di materiali e attrezzature.
Quanto poi alla sanità, il finanziamento raggiungerà – nel 2027 – il livello più basso registrato in rapporto al Pil, pari al 5,91%. Stiamo parlando di servizio sanitario pubblico, un altro smacco alla salute ma anche un grande regalo alla sanità privata se pensiamo che i cittadini spendono di tasca propria 46 miliardi di euro all’anno per curarsi mentre 5,6 milioni degli stessi rinunciano a curarsi per mancanza di soldi.
Soffermiamoci più in dettaglio sulle pensioni. Quando scrivevamo, mesi fa, che il Governo Meloni avrebbe disatteso tutti i suoi impegni elettorali in materia, muovendosi non solo nell’alveo della Fornero ma addirittura peggiorandola, ci siamo presi svariate invettive, non ultima quella di essere prevenuti e non obiettivi.
Ai cantori del governo di destra dovremmo, invece, portare dei fatti, basti l’esempio di un lavoratore o lavoratrice, di 67 anni, che va in pensione con un Cud da 30.000 euro e un montante contributivo accumulato di oltre 283 mila euro.
Ai fini dell’assegno pensionistico, visto che i contributi versati non torneranno di sicuro nelle tasche del lavoratore o lavoratrice che sia, vale il coefficiente di rivalutazione. Ebbene, la manovra di bilancio abbassa il coefficiente e se prima, a parità di anni versati, avrebbe preso 1.250 euro al mese, con il nuovo coefficiente invece, nel 2025-2026, percepirà un assegno da 1.225 euro, con una perdita di 25 euro al mese per tredici mensilità annue.
Sia sufficiente “il classico conto della serva” per rinfrescarci la memoria senza dimenticare il progressivo innalzamento dell’età pensionistica e la volontarietà dell’uscita dal lavoro per la Pubblica amministrazione che porta l’età pensionabile a 70 anni.
L’aumento dell’aspettativa di vita, ammesso che la tendenza non sia invertita, determina l’aumento degli anni lavorati, il ritardo della pensione ma anche la futura riduzione degli assegni pensionistici.
Nei fatti spingono la forza lavoro a ritardare l’uscita dal lavoro per la forte sperequazione tra l’importo della busta paga e il futuro assegno, oggi scopriamo che la manovra di bilancio introduce dei coefficienti per abbassare ulteriormente i costi delle pensioni.
Per lustri, la novella del sistema contributivo come espressione di equità è servita a imporre un sistema di calcolo vantaggioso per le casse statali. In realtà, l’introduzione di questo metodo di calcolo, assimilabile a quello delle assicurazioni private, ha peggiorato profondamente il sistema pensionistico, facendovi scomparire ogni elemento di solidarietà fra le generazioni. Un conto sono i criteri delle società assicuratrici, che debbono calcolare i rendimenti per ogni singolo contratto, un conto dovrebbe essere invece il criterio di un sistema economico nel suo complesso, dove è normale che chi non lavora, (anziani, bambini, invalidi, ecc.), venga mantenuto da chi lavora. Il pensionato consuma quello che si produce oggi non quello che ha prodotto in passato conservato nel frigo. Il sistema retributivo funzionava esattamente così. Col monte contributi corrente si finanziavano le pensioni correnti.
Oggi scopriamo nuovi interventi per decurtare ulteriormente un assegno che, se calcolato con il vecchio sistema (in rapporto alle retribuzioni degli ultimi anni), sarebbe per altro più alto.
Prima della riforma degli anni Novanta il calcolo della futura pensione era assai semplice. Bastava guardare ai contributi versati, all’importo della retribuzione e all’aliquota di rendimento pari al 2 per cento annuo. Per calcolare la pensione era quindi sufficiente una semplice operazione:
2% di € 30.000 (ipotesi di reddito medio annuo) x 40 (ipotesi di anzianità contributiva) = € 24.000
I sistemi successivi sono divenuti sempre più complessi e contorti per produrre, alla fine, un solo risultato: aumento dell’età pensionabile e riduzione dell’importo dell’assegno previdenziale.
Sui coefficienti al ribasso del governo con decurtazione dell’assegno pensionistico prendiamo in prestito, speriamo non ce ne vogliano, lo schema esplicativo del centro studi Cgil, giusto a confermare che all’elettorato hanno solo fatto promesse mai realizzate e, sempre per usare un proverbio, le bugie hanno le gambe corte.
Nelle colonne in rosso si vede la perdita annua e nel corso della vita presunta di pensionati aventi diverse età (da 57 a 71 anni) e con una retribuzione alla cessazione di 30 mila euro.

Se uniamo i puntini di tutte le sforbiciate a servizi essenziali e pensioni abbiamo un quadro generale che ci permette di asserire, senza timori di smentita, che il governo ha deliberatamente costruito una manovra di picconamento del welfare e del lavoro mettendo a rischio il funzionamento della Pubblica amministrazione e la nostra stessa salute.
Immagine: da Wikimedia Commons
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