Le vittime sacrificali delle esternalizzazioni

a cura della redazione

Abbiamo intervistato M.B (evitiamo le generalità per non esporla a ritorsioni), lavoratrice degli enti locali in un Comune di media grandezza, che non citiamo per lo stesso motivo.

D. Oggi lavorare in Comune è garanzia di un posto sicuro?

R. Non direi proprio. Dopo sedici anni di lavoro, oggi sto per essere esternalizzata con la classica cessione di ramo di azienda. La volontà dell’Amministrazione è quella di cedere all’esterno alcuni servizi, perché vogliono risparmiare sui costi e ridurre la spesa di personale come avveniva una ventina di anni fa.

D. Ma il tuo posto di lavoro è comunque garantito?

R. Non ci sono certezze. Sarò ceduta con cinque colleghi a un project financing al quale viene affidata la gestione del mio ufficio. Forse conserverò il salario ma cambierà il contratto nazionale, non avremo l’art. 18 e presumibilmente cambieranno le condizioni di vita e di lavoro. Nulla a che vedere con le delocalizzazioni produttive del privato. Mio marito ha perso il posto perché la sua fabbrica è stata spostata in Romania, dove il costo del lavoro è inferiore del 30%. Oggi si trova in cassa integrazione, ma dovrà trovarsi entro la metà del 2025 un nuovo impiego e a cinquant’anni non è facile se non hai specializzazioni e competenze appetibili sul mercato.

Siamo una famiglia di esternalizzati che fino a un anno fa manteneva un buon tenore di vita. Ora ci chiediamo come pagare i residui annui di mutuo assicurando ai nostri due figli opportunità: per esempio andare all’università senza doversi mantenere con un lavoretto al nero che ritarderebbe gli studi.

D. Cosa fa il sindacato?

R. Eccetto il sindacato di base, le altre sigle si limitano a un accordo sindacale formale: in sostanza, accetteranno l’esternalizzazione limitandone i danni con qualche intesa per salvaguardare i livelli salariali. Ci sono poi sigle compiacenti con queste decisioni. Dentro un Consorzio, dove applicano peraltro un contratto sfavorevole, intanto aumenterà l’orario settimanale, ci saranno meno opportunità di salario accessorio (io, per esempio, facevo il servizio elettorale), saremo sottoposti a regole differenti, e peggiori, dal pubblico, solo perché hanno deciso di ridurre la spesa di personale. Nell’arco di pochi anni, i miei colleghi esternalizzati andranno in pensione e verranno sostituiti con dipendenti meno pagati e con minori garanzie. Il sindacato, secondo me, dovrebbe opporsi a questi processi che depotenziano i servizi pubblici e li condannano alla privatizzazione. Invece, si limitano ai minimi termini, infatti siamo riusciti ad avere informazioni solo dal sindacato di base intervenuto nelle commissioni consiliari dove i rappresentativi (Cgil Cisl Uil) non si sono presentati. Coinvolgere la cittadinanza nella difesa dei servizi pubblici? Ci hanno provato in pochi e con scarsi risultati, perché è ormai dominante l’idea che il servizio pubblico sia inefficiente e quindi da stravolgere e ridimensionare.

D. Cosa pensate di fare?

Provare a far valere i nostri diritti insieme alla tutela del servizio pubblico. Riaffermare la centralità del pubblico è ormai tabù, e scontiamo l’assenza di una reale opposizione anche in consiglio comunale. Il Pd si limita a dire la sua nelle sedute consiliari, ma da qui a chiamare alla mobilitazione le piazze corre grande differenza. Nel caso di mio marito, resta solo l’interinale. Con venticinque anni di fabbrica, qualche posto potrebbe anche trovarlo in una delle aziende in provincia (con oltre quaranta minuti di macchina e le spese aggiuntive), ma con un salario inferiore, e con l’incubo di non trovarsi confermato per cali produttivi e crisi aziendali. Del resto, i lavoratori somministrati sono le prime vittime dei tagli. Mi angoscia pensare di non poter assicurare ai miei figli le mie stesse condizioni di vita, perché quelli che pensiamo diritti acquisiti presto diventeranno dei lussi.

Immagine: MAKY_OREL, CC0, via Wikimedia Commons

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