Non dico addio

di Fosco Giannini

Nel romanzo di Han Kang, Premio Nobel per la letteratura 2024, la rivelazione del massacro di comunisti, guidato da Truman e dal Syngman Rhee, del 1948-1949 a Jeju, Corea del Sud

Asseriva Theodor W. Adorno, attraverso un aforisma noto e lapidario, che “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”. Questa, non fu l’unica superfetazione idealistica scaturita dalla Scuola di Francoforte (Adorno, appunto, e Horkheimer, Marcuse, Habermas, Benjamin, quest’ultimo “assolto”, per la propria genialità, dall’essere stato – malgré lui? – giudicato contiguo a questa stessa Scuola, alla sua “Teoria Critica”). Non per affrontare in questa sede la Scuola di Adorno, di Marcuse e degli altri, ma per giungere, come vedremo, alla grande scrittrice della Corea del Sud Han Kang, così si esprimeva, nella sua storia sulla Scuola di Francoforte, lo storico statunitense Martin Jay, peraltro alquanto legato all’Istituto francofortese: “(…) non solo la Scuola di Francoforte non ha lasciato dietro di sé tracce di una teoria marxista in campo ideologico, ma ha persino incluso Marx nella tradizione illuminista (…) in definitiva l’Istituto ha prodotto una così sostanziale revisione del marxismo da perdere il diritto ad esserne considerato uno dei suoi numerosi seguaci”.

Per il “neo hegeliano di sinistra” Adorno, dunque, “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”. Pur comprendendo il senso del paradosso tragico insito nell’aforisma, non può sfuggirci il doppio errore, la doppia virata idealistica che la stessa asserzione contiene in sé: da una parte la declassazione della poesia (in senso lato: letteratura, arte) a mero strumento di “canto” epico-idilliaco della storia e non di critica della storia; d’altra parte, e conseguentemente, ad “ancella” stessa della storia, a pratica intellettuale umana impossibilita, per una “propria” e specifica natura filosoficamente invertebrata, ad affrontare, anche con l’elmetto in testa, a combattere nella storia e contro le oscurità della storia, contro i suoi orrori e contro la rimozione dei suoi orrori.

Han Kang, nata a Gwangiu, Corea del Sud, il 27 novembre del 1970, dopo gli studi di letteratura coreana all’Università di Yonsei, di Seul, esordisce, nel 1993, pubblicando una serie di cinque poesie sulla rivista coreana «Letteratura e Società». La sua produzione letteraria sarà poi tanto copiosa quanto raffinata e potente: dalle raccolte di poesie (Inverno a Seul, Ho messo la cena nel cassetto, tra le altre) alla serie di racconti (Storia del fiore rosso, Scatole delle lacrime, Convalescenza, tradotto e pubblicato in Italia, nel 2019, da Adelphi; per citarne solo tre), sino alla serie dei grandi romanzi che l’hanno resa celebre nel mondo: Cervo nero, 1998; Le tue mani fredde, 2002; La vegetariana, 2007, pubblicato in Italia presso Adelphi nel 2016; Tira il vento, 2010; L’ora di greco, 2011, Adelphi, 2023; Atti umani, ancora Adelphi, 2017; Non dico addio, 2021, sempre con Adelphi, 2024. La messa a fuoco dei titoli, degli anni di produzione e delle pubblicazioni in Italia presso Adelphi non è un atto bibliografico e dovuto: è un appassionato suggerimento alla lettura di opere dallo straordinario spessore letterario e, senza scivolamenti alcuni nel “verismo”, di avvinghiata adesione alla realtà storica e ai suoi processi.

È forse La vegetariana il romanzo (col quale Han Kang vince, nel 2016, il Man Booker International Prize) che più di ogni altro ha fatto sì che andasse in frantumi la bolla di cristallo coreana attorno alla scrittrice e la presentasse al mondo.

“La vegetariana” è Yeong-hye, una donna, una moglie apparentemente volta (nel contesto dell’attuale Corea del Sud) a ribadire ogni giorno – attraverso la consegna della propria vita alle liturgie femminili subordinate all’ordine precostituito delle strutture sociali- il proprio grigiore, la propria insipienza e la propria, strutturata, malinconia senza parole. Lo stesso marito di Yeong-hye riflette sul fatto che proprio una donna così ha sempre voluto: insignificante e priva di ogni terminale nervoso, dedita dunque, senza dolore, alla riproduzione della famiglia e del proprio ruolo di moglie. Finché un giorno, Yeong-hye decide di iniziare un proprio e oscuro “cupio dissolvi”, una propria trasformazione che inizia dal divenire vegetariana per poi – attraverso l’assunzione dell’orrore per la carne e quello per la vita stessa in ogni suo passaggio essenziale – farsi essa stessa vegetale, un albero (“Io non lo sapevo. Pensavo che alberi stessero a testa in su. In realtà stanno con entrambe le braccia nella terra…”).

Il fatto che il personaggio centrale sia femminile, sia Yeong-hye, non deve indurre però a pensare che l’opera di Han Kang sia una sorta di “libello femminista”. È chiaro come non sia causale il fatto che la trasformazione della protagonista del romanzo, della donna Yeong-hye, da meschina macchina domestica e accudente, in un albero, in una pianta ormai lontana dalla vita umana e ad essa refrattaria, sia il dato di partenza della storia. Tuttavia, la densità dell’ordito letterario e la potenza di un linguaggio capace di offrirsi come un prisma pluri-riflettente, fa uscire in verità l’opera da una dimensione monotematica donandole la ricchezza tematica dell’intero arco dell’umano. Una metafora, misteriosa quanto efficace, dell’intera condizione umana. Ed è per questo, peraltro, che ci sono apparse tanto deboli le note relative a La vegetariana scritte dal critico Davide Valtolina nel 2018, secondo il quale un punto debole del romanzo sarebbe rappresentato dal fatto che la trasformazione di Yeong-hye in un vegetale non sarebbe stata spiegata, non avrebbe un perché materiale. Come se la trasformazione di Gregor Samsa, il personaggio de La metamorfosi di Kafka trasformatosi in un gigantesco insetto, avesse avuto e avesse ancora bisogno di una spiegazione scientifica, o letteraria.

Ma non è del romanzo La vegetariana che vogliamo parlare: accennarne ci è servito per presentare, in grandi linee, Han Kang, insignita, con immenso merito, del Premio Nobel per la letteratura nel 2024.

Proprio in relazione, invece, all’asserzione del “francofortese” Adorno, secondo la quale, ricordiamo, dopo Auschwitz la poesia sarebbe un oltraggio, della Han Kang dobbiamo ricordare il grande romanzo Non dico addio, uscito in Corea del Sud nel 2021 e pubblicato in Italia nell’ottobre 2024.

Con l’opera Non dico addio, la premio Nobel per la letteratura del 2024 contraddice totalmente e recisamente l’aforisma di Adorno e riconsegna alla poesia, alla letteratura, il proprio compito storico: scavare nella storia riesumandone gli orrori sepolti, facendo di nuovo scorrere i fiumi di sangue versati da una parte – ristretta, reazionaria, padronale, dittatoriale – dell’umanità contro la maggioranza degli uomini e delle donne, dei popoli. Le guerre, i “golpe”, i genocidi, i massacri di intere popolazioni e generazioni, quelle che sono solitamente punite per aver alzato la testa. Spesso, i comunisti, i rivoluzionari. Il popolo palestinese.

Come, la Han Kang, contraddice Theodor W. Adorno? Come suona, di nuovo, le trombe bibliche della poesia per annunciare al mondo quella sorta di ottavo sigillo che è la cruda verità storica? Lo fa ripercorrendo senza paura, nel suo romanzo Non dico addio (dalla scrittrice stessa definito “una candela accesa negli abissi dell’anima umana”) e in tutta la sua opera, particolarmente in Atti Umani, sui cui torneremo, la fase che in Corea del Sud va dalla fine del 1948 all’inizio del 1949.

Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale la penisola coreana stava finalmente uscendo dalla lunga, violenta, brutale, colonizzazione giapponese. Anche in virtù della passata dittatura imperiale-fascista del Giappone, il popolo coreano aspirava fortemente ad una propria libertà, autonomia e unità. Alla fine del 1945, tuttavia, la Corea si ritrova divisa in due tronconi, con le truppe sovietiche dell’Armata Rossa che liberano dal vasto retaggio del potere polito-amministrativo giapponese la Corea del Nord e le truppe statunitensi che occupano la parte meridionale della Corea costituendo, a Seul, un governo militare che, invece di liberare la Corea del Sud dal passato potere nipponico, ne utilizza sino in fondo l’intero apparato politico-amministrativo coloniale rimasto al fine di trasformare l’intera Corea meridionale in una diga anticomunista capace di opporsi al socialismo in costruzione della Corea del Nord e combatterlo, sia sul piano ideologico, sia sul piano politico che su quello militare. Il rifiuto, da parte degli Usa, dell’unità nazionale dell’intera penisola coreana, obiettivo per il quale, al contrario, l’Unione Sovietica guidata da Stalin si batteva (e non certo per il solo “ideale unitario”, ma in relazione alla convinzione che anche in tutta la Corea il futuro non poteva che essere socialista) discendeva, per Washington, dalla stessa e speculare convinzione che aveva Mosca: il socialismo del Nord si sarebbe esteso al Sud della Corea, ragion per cui, per gli americani, la divisione statuale, geografica, ideologica e politica della penisola coreana era l’unica possibilità di fronteggiare e respingere “il pericolo rosso” in espansione.

Questa ostinata posizione americana, peraltro, si sarebbe offerta come base materiale di quella “Guerra di Corea” che durò dal 25 giugno 1950 sino al 27 luglio 1953, con la Corea socialista del Nord che vide al proprio fianco l’Unione Sovietica e la Cina e la Corea del Sud, nuova colonia del capitalismo occidentale, che vide al proprio fianco gli Usa, la Gran Bretagna, la Francia, il Belgio, il Canada, la Grecia, l’Australia, la Nuova Zelanda, l’Olanda, la Turchia, il Sud Africa, la Thailandia e altri Paesi del fronte imperialista mondiale. Una guerra di sterminio, quella tra le due Coree e dei due fronti, imperialista e antimperialista, che contò, per il primo fronte, circa 779mila morti e per il secondo fronte circa 1 milione e 550mila morti. Una guerra che fu in sé il primo prodotto della Guerra Fredda voluta dagli Usa, che tracciò la linea di divisione delle due Coree lungo il 38esimo parallelo e che della Guerra Fredda non rappresentò che il primo, iniziale, tragico e lungo cammino.

Già prima dell’inizio della Guerra di Corea, tuttavia, tanta parte del popolo della Corea del Sud era segnato dal desiderio dell’unità coreana, dell’unità dell’intero popolo coreano.

La più grande isola della Corea del Sud, l’isola di Jeju, (che attualmente conta circa 700mila abitanti), facente parte della grande provincia sud coreana di Jeju, dalla fine del 1948 sino all’inizio del 1949, fu attraversata da imponenti movimenti di popolo che si battevano per l’unità dell’intera Corea e dell’intero popolo coreano, del Nord e del Sud. Un movimento che vedeva alla sua testa i comunisti della Corea del sud, che chiedeva, oltreché l’unità di tutta la Corea, la rimozione dell’antico potere nipponico reinstallato dagli Usa, un movimento che terrorizzava Washington, paurosa che quel movimento popolare di massa e di lotta altro non fosse che il Cavallo di Troia per il socialismo al Sud.

La reazione a quel movimento di lotta, guidato in Corea del Sud dal presidente filoamericano Syngman Rhee, ma in verità direttamente da Washington dal presidente in carica Harry S.Truman (lo stesso che aveva ordinato la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki) fu orrorifico. Fu un mare di sangue. Fu uno sterminio scientifico di comunisti, che anticipò il “metodo Giacarta”, l’inferno del 1965 in Indonesia attraverso il quale l’asse del male Eisenhower (presidente Usa) – Suharto (“golpista” indonesiano), assassinò un milione di civili innocenti, tra i quali 250/300mila militanti e dirigenti del Partito Comunista Indonesiano, che in quella fase storica guidava la rivoluzione indonesiana ed era prossimo a trasformare l’Indonesia (250 milioni circa di abitanti nel 1965) nel terzo gigante socialista del mondo, dopo l’Unione Sovietica e la Cina.

Gli Usa, che davvero temevano che Jeju divenisse una grande isola rivoluzionaria e volta a trascinare l’intera Corea del Sud verso l’unità nazionale con il Nord socialista, non solo entrarono in campo, già alla fine del 1948, con i propri soldati ed esperti militari ma, al fine di soffocare nel sangue la rivolta socialista e unitaria, si rivolsero ai vecchi collaborazionisti giapponesi per rafforzare le forze territoriali della polizia, lavorando anche alla costruzione di milizie paramilitari fasciste da lanciare contro il popolo in lotta. Non ricorda, tutto ciò, peraltro, l’Ucraina fascista di Euromaidan, di Pravy Sector, del Battaglione Azov e dell’intero movimento neo “banderista” ucraino che tutt’oggi sostiene Zelensky?

La rivolta di Jeju fu sanguinosamente repressa dal fronte militare americano e fascista sudcoreano guidato da Truman e il suo costo, in termini di vite umane provenienti dalla popolazione in lotta, s’avvicina al numero di 100mila. Oltre le migliaia di comunisti ed esponenti del movimento popolare di lotta torturati e a lungo imprigionati e perseguitati.

Il massacro “amerikano” di Jeju è tra i più nascosti e rimossi dell’intera storia mondiale moderna ed è rimasto pressoché sconosciuto negli stessi Usa e in Europa sino alla sua narrazione avvenuta attraverso il romanzo Non dico addio di Han Kan, uscito in Italia solo ora, nell’ottobre del 2024. Ed è con questo romanzo-verità, attraverso il coraggio e la grandezza letteraria della scrittrice sudcoreana Premio Nobel per la letteratura 2024, che l’aforisma di Adorno viene annichilito e reso risibile, ed è con questo romanzo che la poesia riconquista il proprio ruolo volto alla riaffermazione della verità.

Non dico addio è una perfetta macchina poetica messa al servizio della rivelazione storica. La protagonista, Gyeong-ha, riceve una strana, quanto pressante, richiesta di aiuto da parte di una vecchia e grande amica, In-seon, già fotografa e documentarista che da anni si è trasferita a Jeju. A causa di un incidente e della necessaria ospedalizzazione, In-seon è costretta a rientrare a Seul. Dal letto d’ospedale, chiede a Gyeong-ha di volare fino all’isola di Jeju per salvare il suo pappagallino che, rimasto solo in casa, rischia la morte.

Gyeong-ha “sente”, al di là della stravaganza della richiesta dell’amica, che qualcosa di più grande ed ancora oscuro ne determina la richiesta stessa. Per giungere all’isola di Jeju, Gyeong-ha passa, attraversa e ne è “attraversata”, da una gigantesca tempesta di neve che fino all’ultimo rischia di compromettere il viaggio verso l’isola, come – è la metafora della tempesta – la censura storica aveva sempre impedito che la verità sul massacro dei comunisti e del popolo, nella rivolta di Jeju del 1948-1949, venisse alla luce. Quello di Gyeong-ha verso la rivelazione storica è un viaggio verso e dentro il buio, segnato da un freddo senza fine che le gela le ossa e il cuore, da cadute in sentieri oscuri ove la protagonista si perde, si ferisce e sente la morte vicina. Ma è anche un’odissea verso la verità: quando Gyeong-ha arriva infine nella casa sperduta tra la neve della sua amica In-seon, in quella casa abitata da sogni e fantasmi, ponti verso la verità, trova vecchi documenti, lettere e documentari che le raccontano del massacro, sinora mai conosciuto, mai sospettato, dell’isola di Jeju. Tra le lettere trova anche quelle della madre di In-seon, testimone e vittima del massacro “amerikano” e fascista di Jeju.

La richiesta apparentemente folle di In-seon che, dal letto di un ospedale di Seul, chiede alla sua amica Gyeong-ha di viaggiare lontano, sino a Jeju, per salvare il suo pappagallino; la comparsa, l’evocazione, attraverso l’antica documentazione dall’inferno, della madre di In-seon e la luce della rivelazione che segna di sé la stessa Gyeong-ha, si uniscono in una materia rocciosa che è la determinazione a “non dire addio”, a non occultare più la verità, a ricostruire il legame con chi ha lottato ed è stato assassinato dal potere imperialista: è il romanzo Non dico addio, di Han Kang.

Nel 2017 la casa editrice Adelphi aveva pubblicato un altro capolavoro della scrittrice sudcoreana, un’altra rivelazione storica, Atti Umani, che è il romanzo in cui si rievoca il “golpe”, il nuovo massacro, dopo quello dell’isola di Jeju, avvenuto in Corea del Sud il 18 maggio 1980, una tempesta di sangue contro gli studenti ed i lavoratori della Corea del Sud, questa volta “sollevata” dal presidente Usa Jimmy Carter e dal dittatore fascista sudcoreano Chun Doo-hwan.

Ma su Atti Umani torneremo.

Immagini: copertina libro Non dico addio di Han Kang, Adelphi; Han Kang al Konserthuset di Stoccolma, la sera della consegna del Nobel: Dianne Lee, CC BY-SA 4.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0, via Wikimedia Commons

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