di Mario D’Acunto
Gli effetti del cambiamento climatico e dello sfruttamento senza limiti delle risorse naturali determinano disastri ambientali e creano le condizioni per la propagazione di incendi distruttivi, solitamente dolosi, che non potranno essere arrestati soltanto con misure di prevenzione o con politiche “verdi”, se non si mettono in discussione il sistema capitalistico e la logica del profitto.
Il 3 maggio 2016 a Fort McMurray, nella regione dell’Alberta in Canada, fa molto caldo, troppo caldo, non piove da settimane, la sterminata foresta che circonda la cittadina è secchissima. L’area di Fort McMurray è nota per l’estrazione del bitume, un processo complesso, energivoro, poco redditizio per la popolazione locale. Quel 3 maggio basta una scintilla perché scoppi un incendio. E puntualmente l’incendio scoppia. Un incendio incontrollabile che divora 6.000 chilometri quadrati. Non ci sono vittime umane, ma migliaia gli animali rimasti intrappolati nel fuoco. E migliaia di chilometri quadrati di foresta diventano cenere.
John Vaillant ha raccontato l’incendio di Fort McMurray in L’età del fuoco, ricostruendo le storie dei protagonisti e della propria incapacità di capire quello che stava succedendo. Non solo tra gli abitanti della zona, ma anche tra le autorità che sottovaluteranno la situazione. E proprio la sottovalutazione dell’imminente disastro è forse l’eredità più importante nel resoconto di Vaillant, in quanto la sottovalutazione è frutto di un atteggiamento psicologico incapace di comprendere il rapido evolversi degli eventi. Questo atteggiamento è stato oggetto di analisi da parte di Nassim Taleb, l’economista e statistico che ha coniato il termine di Cigno nero, che ha utilizzato il De Rerum Natura di Lucrezio per spiegare come mai non siamo in grado di capire gli imminenti eventi disastrosi. Semplicemente, non avendoli mai vissuti prima non siamo in grado nemmeno di immaginarli e prendere le dovute precauzioni. Ma non c’è solo un approccio psicologico inadeguato, c’è anche una visione delle risorse umane e ambientali di rapina, la realizzazione di profitti e di costi ambientali da scaricare sulla collettività.
La vicenda analizzata da Vaillant sembra perfettamente replicata dall’incendio che sta devastando l’area di Los Angeles. Gli ingredienti che favoriscono la propagazione degli incendi come a Fort McMurray ci sono tutti, siccità sempre più lunghe, estati torride che si dilatano fino all’autunno, venti intensi: questi fattori sono il prodotto del riscaldamento globale o la tragedia di Los Angeles è causata da altro, come sostengono Trump e Musk? I roghi di Los Angeles si inseriscono in un processo che vede un aumento dei grandi incendi nella California centro-meridionale, e tale incremento si verifica nonostante negli ultimi 15-20 anni i fondi per contrastare questi fenomeni siano più che raddoppiati rispetto, per esempio, al periodo 2004-2005. Insomma, benché i finanziamenti statali per prevenire e far fronte agli incendi siano cresciuti, i roghi stanno aumentando. Sono aumentate, nel frattempo, proprio a causa del cambiamento climatico, le fasi molto siccitose che favoriscono la propagazione dei grandi incendi. Sebbene i roghi siano quasi sempre di origine dolosa, il disastro è però dato dal fatto che la vegetazione è particolarmente fragile e secca e costituisce un combustibile praticamente perfetto. Basti pensare che negli ultimi 8 mesi, nella zona di Los Angeles e Malibù, sono caduti appena 4 millimetri di pioggia, di fatto non c’erano precipitazioni degne di nota da 8 mesi, mentre l’anno prima c’erano state, al contrario, alluvioni disastrose. L’alternanza tra inondazioni e fasi molto secche depaupera il terreno, rende la vegetazione molto vulnerabile e favorisce l’arrivo di patogeni. Il mix tra questi fattori e i fortissimi venti che hanno spirato su Los Angeles è stato letale. In realtà, in condizioni normali, se cioè fosse stato un gennaio nella media climatica, non dico piovoso o freddo, ma banalmente normale, non avremmo assolutamente visto niente del genere.
Mentre scriviamo (lunedì 13 gennaio) il quadro del disastro ci dice che le fiamme iniziate martedì scorso hanno raso al suolo 15.000 ettari, sono almeno 12.000 gli edifici danneggiati e oltre 180.000 cittadini hanno ricevuto l’ordine di evacuazione, 24 morti accertati. Un bilancio, immaginiamo, destinato purtroppo ad aumentare. I costi economici, al momento, sono di circa 250 miliardi di dollari e le grandi compagnie assicurative si preparano a perdere oltre 30 miliardi di dollari. A differenza di incendi devastanti come quello di Fort McMurray, probabilmente la grande esposizione mediatica è stata data dal fatto che tra le vittime dell’incendio troviamo noti attori e attrici di Hollywood. Simboleggiando il fatto che, alla fine, la crisi ambientale raggiungerà anche i più ricchi che per ora, e solo per ora, possono comprarsi un po’ di protezione. Possono permettersi case lontane dalle pianure alluvionali più pericolose e installare sistemi di raffreddamento che consumano energia. Possono scegliere di non lavorare in condizioni di caldo estremo. Quando i cambiamenti climatici ridurranno le scorte di cibo, potranno pagare un extra per assicurarsi di ottenere ancora ciò che desiderano, ma per quanto ancora?
Ma cosa c’entra il cigno verde? Recentemente, la Bank of International Settlements (la Banca dei regolamenti internazionali, fondata negli anni Trenta del Novecento da Banca di Inghilterra e dal finanziere nazista Hjalmar Schacht, e accusata in passato di aver aiutato i nazisti nel depredare i Paesi occupati durante la Seconda Guerra Mondiale), ha lanciato l’allarme sugli effetti del riscaldamento globale sull’economia coniando il termine di “cigno verde”, come emerge dal titolo del suo rapporto: “Cigno verde. Cambiamenti climatici e stabilità del sistema finanziario: quale ruolo per banche centrali, regolatori e supervisori”, a cura di L. A. Pereira de Silva, P. Bolton, M. Desprès, F. Samama e R. Svartzman. Stando a questo studio, i cigni verdi sarebbero simili ai cigni neri di Taleb, ma provocati dai violenti cambiamenti climatici in corso, e dove gli “approcci tradizionali alla gestione dei rischi consistenti nell’estrapolazione di dati storici e su ipotesi di distribuzioni normali sono in gran parte irrilevanti per valutare i rischi futuri legati al clima”. Proprio in quanto legato a disastri naturali che, prima o poi, si concretizzeranno, un cigno verde avrebbe effetti più distruttivi di un cigno nero, poiché provocherebbe un effetto a catena devastante su larga scala per l’umanità e, di conseguenza, per il sistema economico-finanziario. Gli autori suggeriscono che, dato che i cambiamenti climatici hanno implicazioni sulla stabilità finanziaria e dei prezzi, le banche centrali non dovrebbero rimanere ferme e indifferenti aspettando che le autorità governative facciano qualcosa. Non solo: qualora iniziassero ad accadere fenomeni naturali estremi, le banche centrali dovrebbero fungere da prestatori di ultima istanza a presidio del clima, costrette all’acquisto di asset svalutati. Tuttavia, come segnala sempre il rapporto, nel caso di fenomeni naturali estremi questi interventi finanziari avrebbero comunque degli effetti positivi poco pronunciati, dato che l’iniezione di ingenti quantità di capitali nei mercati non potrebbe avere effetti positivi sulle conseguenze irreversibili del “climate change”; in altre parole, le istituzioni finanziarie non disporrebbero di strumenti per contrastare in modo efficace gli effetti di un cigno verde. Di fatto, questo studio segnala l’impotenza del sistema finanziario a ostacolare gli effetti del riscaldamento globale.
Ma la devastazione ambientale che nasce dallo sfruttamento intenso e insensato delle risorse naturali non è che l’altra faccia dello sfruttamento della forza lavoro operata dal sistema capitalistico che, nell’affannoso bisogno di realizzare profitti, ha rotto il ricambio metabolico tra gli esseri umani e la natura.
L’aumento delle temperature medie deriva dall’utilizzo delle fonti fossili e della conseguente immissione nell’atmosfera di enormi quantità di anidride carbonica, metano, protossido di azoto, idrofluorocarburi, solo per citare i principali gas serra. Il sistema capitalistico, nella sua affannosa ricerca di valorizzazione dei capitali, ha generato un codice autoreplicante in cui la realizzazione di profitti viene prima delle vite umane e della natura.
Come uscirne? Possiamo correggere il modo di produzione capitalistico in modo da attenuarne gli effetti? No, non possiamo. La “vocazione” verde recentemente avanzata da grandi fondi di investimento come BlackRock o altre istituzioni finanziarie, o l’industria dell’automobile, è solo una bufala per alimentare lo scontro economico contro le potenze emergenti come la Cina e, nello stesso tempo, fare profitti selezionando le aziende alleate.
Il punto è un cambio radicale e di sistema economico e sociale. Risolvere lo sfruttamento della classe lavoratrice e il recupero di un nuovo rapporto metabolico con la natura potranno avvenire solo in un sistema diverso, un sistema orientato alla soddisfazione dei bisogni e non del profitto. Un sistema razionale di utilizzo delle risorse e del lavoro solo in una chiave di soddisfazione delle reali esigenze di vita e di piena realizzazione degli individui. Questo sistema richiede la socializzazione dei mezzi di produzione.
Finora, le grandi leggi tendenziali della dinamica dei capitali, individuate da Marx, hanno trovato grandi evidenze empiriche. La tendenza alla concentrazione dei capitali in sempre minori mani non ha bisogno di grandi supporti. Il dato per cui l’1% della popolazione (parliamo di circa 80 milioni di persone a fronte di otto miliardi di individui) controlla i due terzi della ricchezza mondiale e inquina attraverso i due terzi della emissione di CO2 complessiva parla da sé. L’altra grande legge tendenziale, quella relativa alla caduta del saggio di profitto, ha anch’essa un’evidenza che non può più essere negata nemmeno dagli economisti mainstream più neoliberisti.
Di fronte a queste due grandi evidenze empiriche sulla dinamica dei capitali, Marx aveva anche suggerito che le crescenti contraddizioni del modo di produzione capitalistico potessero essere risolte da un sistema socialista caratterizzato dal controllo popolare dei mezzi di produzione. Risolvere queste contraddizioni indirizzandole verso una società in cui lo sfruttamento del lavoro sia superato e dove le risorse siano gestite razionalmente per creare merci e servizi destinati a soddisfare i bisogni e non creare profitto per pochi, non sarà per nulla facile. Guerre e disastri ambientali ci dicono che non abbiamo tempo. Il compito di risolvere queste contraddizioni è il compito che ogni essere umano che tenga nel giusto conto lo stato dell’umanità, della generazione presente e di quelle future, deve impegnarsi a portare avanti.
Chissà che, con l’incendio di Hollywood, qualche star del cinema apra gli occhi su cosa è diventato il pianeta e si metta dalla nostra parte.
Immagine: Un incendio boschivo del 2018 che ha distrutto le contee di Shasta e Trinity in California – Foto di Eric Coulter – Bureau of Land Management California, Public domain, via Wikimedia Commons
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