di Nunzia Augeri
Gli ultimi provvedimenti del governo talebano hanno ulteriormente peggiorato la situazione delle donne, escludendo totalmente la possibilità di accedere alle cure mediche, sia generali che per gestazione e parto, e instaurando il più rigoroso apartheid di genere.
In Afghanistan, il dicembre scorso il governo dei talebani ha inferto l’ultimo terribile colpo alla vita delle donne sancendo il divieto di iscriversi agli unici studi superiori rimasti aperti per loro, cioè medicina, ostetricia e infermieristica. Dato che vige, ormai a livello nazionale, il divieto (prima relativo solo ad alcune regioni) di accedere alle cure di medici uomini, vietando la formazione di personale medico femminile, le donne afgane sono state condannate a sofferenze, malattie e morte. L’impossibilità di assistenza medica perfino per gravidanza e parto le costringe a contare solo sull’aiuto delle donne di famiglia, esponendo a gravi pericoli sia le madri che i nascituri.
Il divieto di iscrizione agli studi di medicina rappresenta l’ultimo passo di un percorso iniziato nel 2021, quando i talebani, appena preso il potere, avevano vietato alle ragazze di proseguire gli studi medi oltre la sesta classe, cioè a 12 anni. L’anno successivo il divieto aveva riguardato l’insegnamento superiore, con l’eccezione degli studi medici, ed è precisamente questa eccezione che è stata ora cancellata.
Le leggi vigenti nel Paese impongono alle creature di sesso femminile una lunga lista di obblighi e proibizioni, definitivamente regolati nei 35 articoli della legge “per la prevenzione del vizio e la promozione della virtù” elaborata dall’omonimo ministero l’estate dell’anno scorso: le donne devono sempre indossare in pubblico il burqa, che avvolge totalmente la loro figura e permette loro di intravvedere il mondo solo attraverso una fitta grata, e l’Afghanistan è l’unico Paese musulmano che lo ha reso obbligatorio; le finestre delle case da cui si poteva scorgere una figura femminile sono state velate o murate e le nuove costruzioni devono evitare di aprirle. Oltre al divieto di frequentare la scuola oltre l’istruzione primaria, non possono frequentare i parchi, le palestre, i centri sportivi; i servizi di parrucchiera sono stati totalmente chiusi, lasciando senza lavoro migliaia di donne (si parla di 60.000) che si guadagnavano da vivere con quella attività. La voce delle donne non può essere udita in pubblico, e perfino nel caso di cerimonie religiose devono pregare in silenzio; le donne non possono uscire né viaggiare senza un accompagnatore maschile della famiglia, e i taxisti sono severamente puniti se accettano di trasportare una donna sola. È tornato ampiamente in uso il matrimonio precoce – il 17% delle spose ha meno di 15 anni, e perfino 10 – causato anche dalla grande miseria che incombe su più del 50% della popolazione, per cui vendere una figlia diventa una misura economica utile ad alleggerire il bilancio familiare; il matrimonio precoce favorisce, poi, la violenza domestica e la mortalità per parto. In caso di adulterio o di altro reato contro la morale le donne sono condannate a morte con l’antica e barbara pratica della lapidazione.
Tutte le organizzazioni non governative straniere presenti sul territorio, e perfino gli uffici dell’Onu, non possono impiegare donne afgane in base a un decreto del 2022, che peraltro non era mai stato rispettato per la sua assurdità, dato che non sarebbe stato possibile assistere le donne e i bambini in assenza di personale femminile. Ora le organizzazioni internazionali sono state obbligate a rinunciarvi, a pena di chiusura ed espulsione dal Paese, lasciando le donne del tutto prive della minima possibilità di assistenza medica per sé e per i piccoli. Secondo un dato recente dell’Oms, muoiono 620 donne ogni 100.000 nati vivi (in Italia 8,3 su 100.000). Il controllo delle nascite è altrettanto vietato.
La lunga lista di restrizioni porta molte giovani donne alla disperazione, a crisi di angoscia e di depressione, oltre ad aver fatto aumentare il numero di suicidi che, per il 95%, coinvolgono le donne. Qualcuna tenta di resistere, ma alcune donne che avevano osato sfidare i divieti e aprire delle scuole clandestine per bambine sono state condannate a morte. Le donne – poche nelle città – che possono disporre di una connessione internet seguono corsi on-line di inglese, matematica e scienze; quelle – pochissime – che avevano un’attività imprenditoriale cercano di continuare sempre su internet nel tentativo di evitare le restrizioni loro imposte. Ma ciò non è possibile per la maggior parte delle donne e per i due milioni di vedove con figli a carico (la media è di sei figli per famiglia) che, soprattutto nelle aree rurali, si trovano del tutto abbandonate senza alcuna possibilità di provvedere ai loro bisogni di base più immediati. Secondo Save the Children, su 44 milioni di afgani, 16 milioni soffrono di insicurezza alimentare e il 41% dei bambini sotto i 5 anni soffre di malnutrizione.
Non si sa se i dirigenti afgani si rendono conto che con i loro provvedimenti pregiudicano il futuro del loro Paese: non solo lasciano inutilizzate intelligenze ed energie che potrebbero andare a vantaggio della comunità, ma da una generazione di donne maltrattate, affamate, non curate e umiliate non può derivare una generazione di uomini sani, forti, equilibrati.
Malgrado tutto, le afgane cercano di resistere: alcune hanno protestato pubblicamente, per le strade, sfidando arresto, prigionia e violenze; avevano anche lanciato un movimento, “Pane, lavoro, libertà”, denunciando il controllo soffocante dei dirigenti talebani. Ma la loro situazione continua a peggiorare e l’opinione pubblica internazionale non ha dato l’appoggio sperato. Il sistema dei media occidentali preferisce dare risalto al movimento delle donne iraniane, giacché il regime degli ayatollah risulta inviso all’Occidente, mentre su quello talebano si preferisce stendere un velo di silenzio forse per non evocare i desolanti avvenimenti (vedi la vile ritirata degli americani) che ne hanno permesso l’avvento.
L’alto commissario Onu ai diritti umani, Volker Türk, ha chiesto alle autorità talebane di abrogare il decreto “profondamente discriminatorio” relativo al divieto di studi medici nonché “tutte le altre misure che mirano a vietare l’accesso di donne e ragazze all’istruzione, al lavoro e ai servizi pubblici, inclusi i servizi sanitari, e che restringono la loro libertà di movimento”: un gesto imbelle e patetico, che non ha avuto e non avrà alcuna conseguenza pratica. L’Unione europea ha espresso la propria preoccupazione con una risoluzione del Parlamento dello scorso settembre “sul deterioramento della situazione delle donne in Afghanistan”, in cui si chiede, esorta, invita e condanna, ma senza prevedere o proporre alcuna misura concreta. È intervenuto anche l’alto rappresentante per la politica estera, Josep Borrell, il quale ha espresso la condanna “per le nuove norme che limitano fortemente la libertà delle donne”. Più concretamente, il 7 ottobre c’è stata una sentenza della Corte di giustizia Ue, che ha riconosciuto che tutte le donne afgane sono perseguitate e annientate per il solo fatto di appartenere al genere femminile, e perciò per valutare lo status di rifugiato è sufficiente che la richiedente sia afgana. Sentenza giusta e lodevole, purtroppo però per una donna afgana ottenere il passaporto e uscire dal Paese risulta quasi impossibile: alcune ragazze che avevano vinto una borsa di studio in Dubai sono state bloccate all’aeroporto di Kabul e costrette a rinunciare alla partenza.
Di fatto, in Afghanistan vige un’apartheid di genere, in cui le donne sono cancellate, i loro diritti di persone umane sono negati, la loro dignità e il loro futuro annullati. A fronte dei vaghi documenti di condanna, degli episodici articoli sui giornali, delle proteste – ignorate – delle organizzazioni di assistenza, resta il fatto che un numero sempre maggiore di Paesi riapre le ambasciate a Kabul e riannoda i rapporti commerciali con il regime talebano, nella più totale indifferenza verso l’umanità cancellata dell’altra metà del cielo. E della terra.
Immagine: Tasnim News Agency, CC BY 4.0 https://creativecommons.org/licenses/by/4.0, via Wikimedia Commons
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