di B. L. e M. M.
Il film rifiuta le interpretazioni normalizzanti del cinema mainstream e introduce, servendosi del potere vivificante dell’immagine e dell’immaginario, una nuova forma di conoscenza.
Emilia Pérez, film del 2024 è una produzione franco-belga-messicana per la regia di Jacques Audiard, di cui ricordiamo i bei film come Il profeta del 2009 e Dheepan. Una nuova vita del 2015, che firma anche la sceneggiatura con Thomas Bidegai, tratta dal romanzo Écoute di Boris Razon. Il film dopo aver trionfato a Cannes, è candidato a 13 premi Oscar 2025, diventando il film, non in lingua inglese, con più candidature di sempre agli Oscar, superando le dieci de La tigre e il dragone (2000) e Roma (2018).
I numerosi personaggi della storia sono interpretati da Nicolas Livecchi, Zoe Saldaña, Karla Sofia Gascón che interpreta i due ruoli maschile/femminile e prima attrice transgender candidata all’Oscar, Selena Gomez, Adriana Paz, Edgar Ramírez, Mark Ivanir, Eduardo Aladro, Emiliano Hasan.
Il film, che originariamente doveva essere un’opera lirica un po’ melò, mescola diversi generi, tra cui il musical, il melodramma, il gangster movie e il queer movie, dove la musica e il ballo sono determinanti: la colonna sonora originale è di Clément Ducol, i brani delle canzoni sono scritti dalla cantautrice francese Camille, che assieme al regista ha composto i testi, mentre le coreografie sono di Damien Jalet; anche i costumi giocano la loro parte, dove tutto è eccesso, stravaganza, bene e male, grazie a Virginie Montel e il direttore della fotografia, Paul Guilhaume, è candidato all’Oscar.
La storia è ambientata nel Messico odierno, dopo un’apertura molto movimentata, con un processo e un verdetto ingiusto, inframezzati da due numeri musicali, l’avvocata Rita (Zoe Saldaña), più dedita a riciclare i criminali, che a servire la giustizia, è sequestrata per ricevere un’offerta del tutto inaspettata: aiutare Manitas (Karla Sofia Gascón), un boss del cartello messicano della droga, a ritirarsi dai suoi loschi affari e a sottoporsi a un intervento per la riassegnazione del sesso, diventando così la donna che ha sempre voluto essere, compiendo anche un percorso di redenzione.
Viviamo in una società sempre più dematerializzata all’interno di bolle virtuali, dove il grande corpo del mondo diviene sempre più evanescente: i nostri corpi si stanno de-fisicizzando e facciamo un po’ tutti l’esperienza della disconnessione tra corpo e mente. Il film di Jacques Audiard, attraverso la figura di Emilia Pérez, cuore e anima del film, ha il merito di ricordarcelo e di muoversi in controtendenza. Emilia Pérez, nella prima parte del film, quando ancora è Manitas, sente il disagio nelle azioni del proprio corpo e scatta la volontà di far sì che la mente diventi corpo, o meglio scatta la volontà di rendere dicibile la differenza che si è creata tra mente e corpo, riuscendo così a dare pensiero al corpo. Una volta sottoposta all’intervento di riassegnazione del sesso, sente il nuovo bisogno impellente di sentire la conoscenza di sé e del mondo come relazione, come rifiuto della logica imperialista del dominio e del possesso, per un legame che, invece, rimanda a nuove relazioni improntate sulla connessione autentica, sulla solidarietà, al dono di sé: relazioni empatiche sentite emotivamente, prima ancora di essere concettualizzate da un pensiero analitico che divide. E mentre il passato di Emilia cambia l’aspetto e l’identità che sembrava avere, allo stesso tempo anche il film cambia registro, mettendo in scena un atto di sabotaggio nei confronti delle leggi, delle convenzioni dei generi, diventa un qualcosa sospeso tra lo stato di veglia e di sogno, tra forme apparentemente opposte, che rapiscono lo sguardo affascinato e sorpreso, divertito e appassionato, dello spettatore, aprendolo a una nuova coscienza di sé, senza paura di perdersi.
Il tema dei diritti della comunità Lgbtiqa+ (persone lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, queer, intersessuali, asessuali e chiunque non si definisca eterosessuale), secondo il regista, non è un’esclusiva messicana, ma globale. La leyenda, come la definisce Audiard, per sottolineare il racconto immaginario del film e per ampliare l’esaltazione e il racconto di un diritto negato, di un desiderio nascosto, sceglie appositamente una figura estrema come quella di un boss del narcotraffico, quasi a sottolineare quanto le persone con identità di genere e orientamento sessuale che non aderiscono alla visione etero-normativa o binaria, siano estreme rispetto alle società.
La stessa attrice transgender, Karla Sofia Gascón, ha dichiarato in un’intervista, che ben prima della transizione, aveva già idea di quello che voleva essere, proprio come il suo personaggio Manitas Del Monte quando racconta al chirurgo che dovrà operarla.
“Se il corpo cambia, cambia l’anima. Se l’anima cambia, cambia la cultura. Se la cultura cambia, cambia la società”, questa è l’estrema affermazione del film, che porta a pensare i corpi anche rispetto alla cultura, al percepito e al rielaborato personale di ciascuno.
Invita a riflettere sulla disforia di genere, che può essere descritta come una condizione di disagio e persistente sofferenza provocata dal sentire la propria identità di genere diversa rispetto al proprio sesso biologico: alcune persone si sentono e vivono come una donna pur essendo nate in un corpo maschile, mentre, altre si sentono come un uomo, ma sono di sesso biologico femminile, altre ancora non si sentono né donna né uomo.
Il film rifiuta le interpretazioni normalizzanti del cinema mainstream e introduce, servendosi del potere vivificante dell’immagine e dell’immaginario, una nuova forma di conoscenza.
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