di Laura Baldelli
Andrea Bellardinelli, ripercorrendo più di vent’anni di lavoro “come operaio umanitario”, offre stimoli per ripensare molti punti di vista sul tema delle ong, lo si scopre capitolo dopo capitolo.
Geografie umanitarie di Terra, di Mare, di Pace è un diario di bordo del lavoro in Emergency di Andrea Bellardinelli, “operaio umanitario”, come sceglie di definirsi, edito da Affinità Elettive, una piccola e coraggiosa casa editrice diretta da Valentina Conti.
Il libro è una raccolta di riflessioni sulle esperienze di aiuto umanitario vissute dal 2002 al 2024 e interviste pubblicate sul trimestrale di Emergency, testate online del settore, che l’autore ha organizzato in capitoli, evitando l’ordine cronologico per privilegiare il tempo del ricordo. Andrea, dopo una formazione da biologo, si è poi specializzato in peacebuilding management, esercitato sul campo in Sierra Leone dopo la sanguinosa guerra civile, nella logistica per organizzare strutture sanitarie, successivamente nella direzione di Emergency Programma Italia, fino a occuparsi di migranti nel Mediterraneo e dei profughi dell’ultimo conflitto in Ucraina, in Romania e Moldavia.
C’è un filo conduttore nel racconto che determina la chiave di lettura del libro, che ben sottolinea nella prefazione Simonetta Gola, direttrice della comunicazione Emergency: “non è una romanticizzazione del lavoro umanitario”; infatti, il registro linguistico è asciutto e senza retorica e spettacolarizzazione dei drammi, mette in luce, con realismo e consapevolezza, il metodo di lavoro per organizzare una medicina basata sui diritti umani.
Non aspettiamoci riflessioni geopolitiche, anche se Andrea percorre da anni la mappa di una geografia del dolore, bensì racconti di cooperazione, dialogo e ascolto tra i vari soggetti coinvolti, che vanno dalle istituzioni con cui interfacciarsi per l’offerta sanitaria alla gente del luogo che collabora, alle persone che hanno dei bisogni e ricevono aiuto, al fine di realizzare l’obiettivo di promuovere condizioni di equilibrio e soprattutto di giustizia sociale che è fondamentale per costruire la pace.
In concreto, Andrea progetta e realizza la filiera della sanità territoriale che informa, orienta e cura, ovunque ce ne sia bisogno; per fare questo, in ogni “geografia umanitaria” c’è necessità di conoscenza dei bisogni delle persone per capire come essere un supporto alle istituzioni governative, agli enti preposti presenti e per dare risposte efficaci per un primo orientamento socio-sanitario e per un supporto psicologico che è sempre indispensabile, prima ancora delle cure mediche.
Altrettanto importante è la formazione del personale nei luoghi dei conflitti, perché questo costruisce anche cultura socio-sanitaria, consapevolezza dei diritti e autonomia.
Un’organizzazione, un metodo di lavoro, verificati sia tra i terremotati che tra le fragilità sociali italiane, così come durante la prima accoglienza dei migranti, sia per i profughi e rifugiati nei Paesi rifugio, come altrettanto nelle drammatiche realtà postbelliche.
L’umanità è più simile di quanto noi crediamo nei bisogni riconosciuti e codificati nei diritti umani. Emergency, grazie ai team multidisciplinari, supplisce e svolge il servizio di medicina del territorio, che l’Italia, per esempio, non ha mai realizzato pienamente con il sistema sanitario nazionale.
Questo lavoro permette anche di raccogliere molti dati e monitorare i fenomeni sociali: sono numeri importanti perché dietro ci sono persone con bisogni e storie di vita, determinanti per apprendere i continui cambiamenti socio-economici che determinano le molteplici vulnerabilità sociali.
Emergency Programma Italia, che l’autore ha diretto per anni, offre servizi di cura con gli ambulatori mobili, sia agli autoctoni, che sono sempre di più, come ai migranti, mettendo in evidenza una situazione di grandi bisogni sociali e sanitari, a causa anche della regionalizzazione sanitaria italiana che ha accentuato differenze e disparità sulla qualità dei servizi erogati soprattutto al sud.
Aggiungo io che da tempo gli articoli della nostra Costituzione n. 11 e n. 32 che recitano nell’ordine: “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” e “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti”, sono sempre più disattesi.
L’autore, con onestà intellettuale, riflette anche sul paradosso umanitario che accusa le ong di fare “pietas marketing”, “industria della solidarietà”, un argomento scivoloso affrontato anche da alcuni studiosi come David Rieff autore di Un letto per la notte: l’umanitarismo in crisi, dove si sostiene che chiamare le crisi internazionali “emergenze umanitarie” è fuorviante, perché è solo una delle possibili chiavi di lettura per raccontare quelle che, invece, sono crisi politiche e morali ed è, quindi, più importante il discorso politico, piuttosto che quello umanitario nella narrazione dei conflitti. Il paradosso sta nel fatto che i governi guerrafondai hanno pensato che l’umanitarismo fosse troppo prezioso per lasciarlo alle organizzazioni non governative; infatti, i valori fondamentali dell’Unione europea, per esempio, sono la democrazia, i diritti umani e l’azione umanitaria; ma il motivo umanitario è divenuto fondamentale nelle guerre, un mix di azione umanitaria e militare come in Ucraina dove l’Ue invia armi, ma considera gli ucraini gli unici profughi, cancellando il resto del mondo che scappa dalla fame e dai conflitti sempre più numerosi, perché oggi si combattono guerre di conquista del territorio e di pulizia etnica, in cui l’azione militare è condotta sempre più contro i civili. La Palestina ne è un esempio quotidiano.
Eppure, l’umanitarismo laico nacque negli anni ’60 da un pensiero progressista: dalle ceneri di un dio che era morto e perduta la fede, l’impegno umanitario rappresentava un’azione indipendente e civile, ma con il tempo se ne sono appropriati i guerrafondai: il motivo umanitario è ingannevolmente persuasivo nei confronti dell’opinione pubblica e serve a giustificare la guerra. Esportare la democrazia e fomentare le rivoluzioni arancioni ne sono la prova. Inoltre, per Rieff l’azione umanitaria può essere l’emblema della disfatta, perché significa raccogliere i pezzi quando le cose sono ormai state distrutte, ma non bisogna avere uno sguardo cinico sulle ong, bensì condannare le azioni dei governi e l’inerzia della comunità internazionale.
Nella realtà comunque, a volte, convivono sia interessi che impulsi umanitari e, forse, non bisogna dimenticarlo. Soprattutto, va riconosciuto il lavoro di molti attivisti, che non sono lì per spirito di avventura, né per lauti guadagni, è il loro modo di costruire cooperazione e comunità, come ci racconta l’autore.
Andrea Bellardinelli, a cinquantasette anni, come anche molti suoi colleghi, non perde lo slancio iniziale, nonostante la nostalgia della propria famiglia, le frustrazioni per qualche fallimento e il non esserci abbastanza per il dramma dell’altro, ha un’immensa gratitudine per il suo lavoro da “operaio umanitario”, lo ha reso una persona migliore, il suo aiuto ha fatto sì che molte persone abbiano preso consapevolezza dei propri diritti, ha imparato a dialogare e a confrontarsi anche con il potere, ha imparato ad ascoltare con umiltà per conoscere.
Ha imparato a trasformare le emozioni in sentimenti e azioni sociali.
Sa che ogni volta si ricomincia ovunque nel mondo non si rispetti “il diritto a essere curato”, un diritto inalienabile che appartiene a ciascun membro della famiglia umana.
Il peggiore errore è “non agire”.
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