Io sono ancora qui

di Laura Baldelli

Per noi, il Brasile del 1970 è quello di Pelé, della nazionale verde e oro più forte di tutti i tempi e per i brasiliani era anche la “época boa”, quella del boom economico. Non ricordiamo le prigioni, le grida sorde dei torturati, le persone portate via da casa e fatte sparire nel buco nero della Storia, perché il calcio dominava e copriva ogni nefandezza: i media non raccontavano del Brasile-mattatoio, come poi accadde pochi anni dopo al Cile con Pinochet, ripetendo detenzioni e torture, e altri desaparecidos; e poi l’Argentina del generale Videla nel ’78, con altri campioni di calcio che alzavano la coppa del mondo, mentre a pochi metri di distanza altri giovani come loro morivano.

A volte bisogna vedere un film in lingua originale e capita che ti rapisca anche se non padroneggi la lingua: accade così per l’ultimo lavoro di Walter Salles, Io sono ancora qui, film brasiliano che ti coinvolge senza effetti speciali, senza divi, senza immagini cartolina; bellissimo come il suo indimenticabile Central do Brasil del 1996.

Salles è un regista immersivo, porta lo spettatore dentro la storia, dentro il luogo, dentro i personaggi, dentro la lingua in un crescendo che non vorresti mai che finisse.

Storie che scavano con sobrietà e leggerezza nei sentimenti, con un realismo quotidiano da documentario. Un cinema etico senza clamori, lontano dagli stereotipi hollywoodiani, lo si capisce dalla luce naturale che caratterizza molti suoi film, dove si rifugge l’estetica del clamore, perché bastano i contenuti della sceneggiatura, la recitazione e la regìa.

La vicenda che racconta Salles è la storia di una famiglia e di un Paese, tratta dal romanzo biografico di Marcelo Rubens Paiva che ripercorre la scomparsa politica del padre, Rubens Paiva, ex deputato del Ptb, partito laburista brasiliano, durante la dittatura dei militari fascisti negli anni ’70. I regimi autoritari fascisti del Brasile sono meno noti rispetto alle dittature cilene e argentine che, invece, il cinema ha raccontato attraverso film cult che ancora oggi ricordiamo. La sceneggiatura di Murilo Hauser e Heitor Lorega è già stata meritatamente premiata a Venezia 2024 e il film concorre agli Oscar. 

Salles, nel racconto cinematografico, cambia più volte il registro linguistico adattandolo alle vicende della famiglia Paiva in un arco di tempo che va dal 1971 al 2014: c’è una prima parte davvero piena di allegria di una famiglia numerosa che vive l’amore tra coniugi, l’amore filiale, l’amore fraterno e amicale. La telecamera a spalla dà dinamicità alla serenità di questa famiglia borghese, colta e progressista che vive a Rio davanti alla spiaggia all’ombra del Pan de Azúcar, unica concessione al Brasile cartolina dell’immaginario collettivo turistico. Salles era amico dei bambini Paiva, conosceva e frequentava la loro casa, sono ricordi anche della sua infanzia. Apparentemente, Ruben e la moglie sembrano persone privilegiate, indifferenti a quello che accade intorno, sembrano tutti dediti alla musica internazionale degli anni ’70, protagonista di feste danzanti, in perfetto stile carioca; ma il loro sguardo cambia quando passano le sfrontate e prepotenti camionette dell’esercito o davanti ai minacciosi telegiornali; ma non è tutto così, nel corso del film lo spettatore scopre quanta forza, quanto coraggio per difendere la libertà e la giustizia albergava nella personalità e nell’azione di Rubens e della moglie Eunice Facciolla, magistralmente interpretata da Fernanda Torres, che si è fatta contenitore in carne e ossa della grande dignità della persona reale che rappresenta; ha conquistato un Golden Globe per la migliore interpretazione drammatica. Lei è anche scrittrice, editorialista e sceneggiatrice ed è considerata una delle più grandi artiste brasiliane della sua generazione, voce importante nei dibattiti politici e culturali in Brasile.

Ruben prima, Eunice dopo, furono dei resistenti che non si piegarono, retti da una forza morale, spesa non solo per se stessi, ma consapevoli di lottare per una intera collettività. Nonostante Eunice fosse una donna borghese, elegante nel vestire, lottò da sola con immensa dignità per la giustizia per suo marito e per i suoi figli, fino alla vittoria, che fu di tutto un Paese che riconquistava la propria democrazia; divenne così il simbolo della lotta contro la dittatura militare in Brasile negli anni ’60-’80, la sua arma fu anche il suo sorriso, che trasformò in un grande gesto politico contro la ferocia della repressione. 

Si batté anche per la foresta amazzonica e ovunque ci fosse un sopruso e un diritto calpestato. 

Infatti, il film poggia sulla base ideale di un lavoro politico e di presa d’atto morale e ricordare questa vicenda, mettendo pubblicamente al bando certe le pratiche delle dittature fasciste sudamericane, non è solo una storia di denuncia o di memoria, è anche un racconto della trasformazione di Eunice che, da giovane e agiata signora nella Rio della bossa nova e dell’architettura modernista  che ha tutto – soldi, amore, futuro –, quando la tragedia la colpisce, ribalta ogni cosa, costretta a reinventarsi; nasce così una nuova consapevolezza per far fronte alla perdita di tutto questo, diventerà avvocato e attivista per i diritti umani, lottando per ottenere giustizia, sia per sé che per le famiglie come la sua.

Per noi, invece, il Brasile del 1970 è quello di Pelé, della nazionale verde e oro più forte di tutti i tempi e per i brasiliani era anche la “època boa”, quella del boom economico. Non ricordiamo le prigioni, le grida sorde dei torturati, le persone portate via da casa e fatte sparire nel buco nero della Storia, perché il calcio dominava e copriva ogni nefandezza: i media non raccontavano del Brasile-mattatoio, come poi accadde pochi anni dopo al Cile con Pinochet, ripetendo detenzioni e torture, e altri desaparecidos; e poi l’Argentina del generale Videla nel ’78, con altri campioni di calcio che alzavano la coppa del mondo, mentre a pochi metri di distanza altri giovani come loro morivano.

Salles, nato come documentarista, ha mostrato sempre un altro Brasile, come nello straordinario Central do Brasil, sa raccontare i sentimenti e le emozioni e la seconda parte del film è tutta dentro il terrore della repressione militare che tortura e fa sparire i corpi, i desaparecidos appunto, tutto immerso in una luce cupa obliqua come quella che filtra in una cella, grazie alla fotografia di Adrian Teijido, mentre le musiche di  Warren Ellis accompagnano le immagini e lo spettatore è rapito dalle vicende come in un film giallo. L’ultima parte è il Brasile di São Paulo senza mare, confondibile con qualsiasi altra città metropolitana, se non fosse per quella luce che contraddistingue i suoi film. Sì, si può riconoscere un film di Salles dalla luce, dai movimenti di macchina, dal montaggio netto, ardito, ma funzionale sempre a una storia dal racconto asciutto, sobrio, ma emozionante.

Fino alla fine il film è una sorpresa, nulla è scontato… a interpretare Eunice da anziana è Fernanda Montenegro, grande attrice brasiliana, protagonista di Central do Brasil e madre dell’attrice protagonista Fernanda Torres.

In Brasile, dove non c’è stata una rielaborazione dell’oscuro e sanguinoso passato, il film ha riempito le sale cinematografiche con incassi record.

Mi auguro che l’arte cinematografica di Salles e la straordinaria storia siano un monito per questo presente con rigurgiti fascisti e che anche l’industria del cinema hollywoodiana se ne accorga. 

Questo è il politicamente corretto!

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