A Complete Unknown

di Laura Baldelli

Nel 1965 Bob Dylan non era solo un ragazzo ribelle che prendeva le distanze dal mondo del folk per seguire la sua strada, come appare nel film di Mangold, perché Dylan, a partire dal 1965, mise in scena un affronto inaudito, quasi epico, alla cultura statunitense e a certi suoi perbenismi.

Bob Dylan credo sia l’unica celebrità che, da vivo, vanti ben due film di fiction e un documentario a lui dedicati: Io non sono qui (I’m Not There) diretto da Todd Haynes nel 2007 e A Complete Unknown del 2024 diretto da James Mangold, e Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story by Martin Scorsese del 2019.

I due film fiction sono molto originali: il primo ripercorre la vita del musicista in sette distinti periodi della sua vita, interpretato da sei attori diversi, dove, però, l’attore Christian Bale interpreta due periodi e una didascalia all’inizio del film spiega che l’opera è “ispirata alla musica e alle molte vite di Bob Dylan”, unica menzione a Dylan in tutto il film, a parte la presenza dei brani dello stesso Dylan che appare in un video girato in un concerto del 1966; questa visione multipla di Dylan concorda con la sua vita artistica, in quanto usò e usa vari pseudonimi: Bob Dillon, Elston Gunn, Tedham Porterhouse, Blind Boy Grunt, Jack Frost, Robert Milkwood Thomas, Sergei Petrov, Lucky Wilbury, Boo Wilbury. Era nato Robert Allen Zimmerman ma, dal 2 agosto 1962, Bob Dylan si chiamò ufficialmente Robert Dylan. Nel più recente biopic, invece, tutto il peso del personaggio e del film è affidato a Timothée Chalamet, che canta e suona ininterrottamente per tutto il film, dimostrando di aver studiato Dylan con impegno, interpreta bene anche molti suoi tic e sguardi imperscrutabili ed è bravo a non farne un ritratto da santificazione agiografica; per raggiungere un’impostazione vocale il più possibile simile a quella di Dylan, Chalamet ha studiato con Eric Vetro, uno degli insegnanti di canto più accreditati a Hollywood. 

Suo malgrado, Dylan è un mito pur non avendo fatto nulla per alimentarlo, anzi da tutta la vita rifugge ogni forma di clamore ed esposizione, etichette, Nobel, per sfuggire al conformismo dell’anticonformismo, ma non a un film a lui dedicato: infatti, ha anche supervisionato la sceneggiatura con il regista James Mangold. 

Il film, in progetto dal 2020, è ispirato dal saggio del 2015 di Elijah Wald, Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica, ritornato in libreria grazie al film che si concentra proprio su questo periodo. Dylan, come tutti i miti, è un enigma: tra verità e menzogna, mito e idolatria, è un’impresa impossibile trovare una verità. Per questo forse è meglio lavorare sulla percezione di Dylan del pubblico dei primi anni Sessanta e degli spettatori del terzo millennio e, in questo senso, l’operazione di Mangold è coraggiosa, anche se non radicale quanto quella di Todd Haynes in Io non sono qui, che ha scomposto Dylan in personaggi multipli, interpretati da attori differenti tra loro per età o etnia di appartenenza.

Anche se non sono stata ammaliata in passato, pur apprezzandolo, da Bob Dylan e dal suo mito e soprattutto sono stata reticente alla visione di quest’ultimo film, oggi, invece, ammetto di esserne stata rapita dopo oltre due ore d’immersione nella sua musica; il merito va tutto a Timothée, con un’interpretazione da grandi premi. È vincente anche la scelta di Mangold, inusuale per un biopic musicale classico, di privilegiare, quasi fosse un musical, l’elemento sonoro rispetto alle vicende. 

Edward Norton nei panni di Pete Seeger è molto efficace, come Monica Barbaro nelle vesti e, soprattutto, nella voce di Joan Baez, a confermare l’ottimo lavoro sulla documentazione musicale. 

Si è generata una nuova dylanmania, forse perché la scelta di affidare l’interpretazione del cantautore all’idolo della generazione Z, Timothée Chalamet, ha funzionato: se ne parla in tutto il mondo occidentale, con riscontro di critica e pubblico. Infatti, il progetto, approvato dallo stesso Dylan che ha supervisionato la scrittura della sceneggiatura, suggerendo anche di aggiungere volutamente degli errori storici, come per esempio la presenza di Johnny Cash al Newport Folk Festival nel 1965, innesca il sospetto che il film sia stato una grande operazione promozionale, oltre che artistica. Le nomination agli Oscar ne sono la conferma: miglior film, per la miglior regìa e per il miglior attore protagonista e miglior attore non protagonista. Diciamo che il “menestrello” ha sempre saputo fare affari.

La narrazione del film è edulcorata per alcuni aspetti, se ricordiamo le immagini d’archivio riprese per esempio nel documentario, Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story by Martin Scorsese, nel 1965 Bob Dylan non era solo un ragazzo ribelle che prendeva le distanze dal mondo del folk per seguire la sua strada, come appare nel film di Mangold, perché Dylan, a partire dal 1965, mise in scena un affronto inaudito, quasi epico, alla cultura statunitense e a certi suoi perbenismi. Infatti, anche l’uso delle droghe è un aspetto che nel film è quasi censurato perché oggi, come ieri, mette in imbarazzo; mentre, anche per questo, canzoni come Like a Rolling Stone e Ballad of a Thin Man sono diventate storiche, e anche per questo Dylan è ancora attuale nonostante tutto, e bisogna sottolineare che A Complete Unknown è un verso della canzone Like a Rolling Stone.

Il Dylan folk e impegnato ebbe un ruolo fondamentale nella storia della musica e i brani della sua prima produzione sono ancora oggi tra i migliori, ma il suo cambio di passo del 1965 contribuì a farne una leggenda e nella storia della musica ci sono stati pochi atti di rivendicazione artistica altrettanto radicali. Affrontò per questo anche il suo pubblico tradito, che non lo capiva perché lui era troppo avanti rispetto ai tempi. Fu un concerto attorno al quale si creò una mitologia e che i giornalisti musicali raccontarono come l’inizio della “svolta elettrica” di Dylan, che era stata già anticipata qualche mese prima in Bringing It All Back Home, il suo quinto disco. Dylan ricevette, infatti, molte critiche da parte dei puristi della musica folk cantautorale statunitense di cui, fino a quel momento, era stato il più celebre interprete, per la sua scelta di utilizzare strumenti elettrici e, quindi, di prendere una direzione artistica diversa e più moderna, vicina al rock.

Comunque, il menestrello del rock, a 83 anni, è, prima di tutto, ancora un personaggio iconico della storia moderna degli States e del mondo perché ha ispirato e rappresentato sentimenti collettivi e Bruce Springsteen ha detto di lui: “ha liberato le nostre menti nello stesso modo in cui Elvis ha liberato il nostro corpo”. Eppure, Dylan ha sempre lottato contro il mito del cantautore impegnato nelle proteste sociali; eppure, durante la marcia su Washington del 1963, l’oceanico raduno per i diritti civili di M. L. King, troneggiò la sua Blowing in the Wind, scritta nel ’62, ma che nell’occasione fu cantata da Peter, Paul e Mary, diventando il manifesto delle generazioni degli Usa degli anni ’60 contro la guerra fredda e la guerra in Vietnam e di riflesso in Europa. Dylan, invece, ha sempre cercato di allontanare l’etichetta di “canzone di protesta”, nonostante la canzone avesse superato i confini del movimento di protesta americano per i diritti civili, diffondendosi in ogni luogo del mondo ci fosse una lotta per la giustizia. 

Alla marcia Dylan cantò con Joan Baez The Times They Are A-Changin’ e, da solo, Only a Pawn in Their Game che lo lanciò nel mondo come cantautore militante che rappresentava sentimenti collettivi, forgiando incredibili dinamiche culturali intorno ai diritti civili, al pacifismo e all’impegno sociale: un ruolo da profeta che egli allontanò sempre e nessuno come lui si è accanito contro il suo stesso mito; ma le sue canzoni avevano e hanno la duttilità di poter essere interpretate da tutti e un indiscusso fascino, come se il suono dell’armonica a bocca trascinasse tutti “on the road”, in quell’individualista e falso sogno americano di libertà e giustizia. 

Infatti, dopo Washington, Dylan fu incoronato re delle canzoni di protesta, ma non partecipò mai più a una marcia, a una manifestazione politica o a un sit in. Già nel giorno del discorso di Martin Luther King, pur restandone affascinato, Dylan si sentiva a disagio nel ruolo di attivista politico, un ruolo che non volle mai ricoprire, una scelta che fu alla base delle liti con Joan Baez e che non gli fu mai perdonata da certa parte della sinistra che lo definì “traditore” dopo l’abbandono del folk e delle canzoni “impegnate” per il rock elettrico. 

Timothée rende benissimo l’idea del percorso di artista e di vita di Dylan solo centrato su se stesso, sulla propria individuale espressività artistica, incurante di tutto il resto del mondo, addirittura distaccato e disincantato rispetto alla propria arte, aristocratico, l’opposto dell’artista gramsciano… diremmo noi comunisti.

Immagine: locandina ufficiale film A complete unknown

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