Quando l’artista è un’intellettuale donna: Silvia Fiorentino e il mestiere dell’Arte

di Laura Baldelli

Nel difficile mondo dell’arte, fin da giovanissima Silvia Fiorentino ha scelto il mestiere dell’artista, un impegno coraggioso in Italia dove istruzione, cultura e arte, sono considerate e valutate con gli strumenti e le categorie di analisi del mondo del profitto e del marketing. 

Silvia Fiorentino è un’artista che percorre le strade dell’arte, passando dall’acquerello alla ceramica, dalla fotografia alle sculture di stoffa, senza tralasciare le istallazioni, dove la luce gioca il suo ruolo; percorso sempre accompagnato dalla poesia, attraverso un viaggio di ricerca interiore che si traduce in arte sempre in relazione anche con il vissuto dell’altro/a, con i luoghi, con il sociale. La sperimentazione delle tecniche espressive e la lavorazione di materiali intrecciano il reale con il simbolico in un dialogo costante tra scrittura, acquerello e scultura. 

Nel difficile mondo dell’arte, fin da giovanissima Silvia Fiorentino ha scelto il mestiere dell’artista, un impegno coraggioso in Italia dove istruzione, cultura e arte, sono considerate e valutate con gli strumenti e le categorie di analisi del mondo del profitto e del marketing. 

La formazione classica e gli studi d’architettura, l’ambiente culturale di Milano anni ’80-’90, sono le fondamenta del suo percorso artistico, in cui i propri progetti creativi si legano con i vissuti collettivi, intercettando il sociale, da intellettuale che sceglie l’opera creativa come testimonianza e contributo nella società: non solo espressione estetica e riconoscimento personale, ma anche contributo alla crescita collettiva, stimolo alla riflessione, alla comunicazione e al dialogo.

La ricerca interiore di Silvia, con le domande esistenziali, in cui le radici familiari, il senso di appartenenza sono importanti in una società sempre più liquida che brucia memoria, si concretizza in un’autonomia creativa e i frutti delle sue riflessioni si materializzano in forme libere e naturali, scegliendo i segni dell’indeterminatezza, comunicandoci che, spesso, non ci sono parole né definizioni per contenere tutto l’essere e il sentire; un sentire di paure e sicurezza, forza e fragilità che vengono rivelate nel suo percorso di vita e d’artista attraverso anche arazzi, sculture di tela, installazioni di stoffa e ceramica: opere che uniscono disegno e poesia, fotografia e pittura, la solidità dell’architettura e l’invisibilità della parola. Le sue opere coinvolgono tutti i cinque sensi, come un’arte che ibrida, segnando e focalizzando un momento utile per arrivare all’essenziale, all’esattezza: esse vengono dal percorso “corpo, percezione, parola, cultura”. 

L’essere artista e donna di Silvia crea “corrispondenze”, diviene portavoce di emozioni universali e realtà che coinvolgono tutte le donne, una trasformazione, quasi una metamorfosi dal sé verso il noi, raccontando la femminilità in tutti i suoi aspetti, recuperando la creatività delle donne anche dal lontano passato come tessere, ricamare, impastare ceramica, ascoltare e raccontare storie.

Il tratto lieve dei suoi segni imprimono un movimento deciso, il colore è tenue ma luminoso, la concretezza della materia della ceramica è volutamente lasciata grezza, abbozzata, caparbiamente indipendente dalle regole del mercato dell’arte contemporanea. 

Per entrare nei lavori di Silvia occorre coinvolgere i cinque sensi, siamo obbligati, solleciti all’osservazione, che va oltre l’interpretazione estetica legata agli stereotipi del bello, prevale l’intuizione sollecitata potentemente dai segni e dai simboli, come “architetture sentimentali”, “metamorfosi sentimentali”, “ibridi emozionali”, come titolano le sue più recenti mostre personali, per raccontare la femminilità nel contemporaneo postfemminismo.

Il legame tra arte e poesia è fortissimo, l’acquerello, come la poesia, è scavo interiore: “esattezza di vita e libertà”, dove la poesia è ridotta all’osso come un’esattezza di parola che dice verità, il tratto e il colore sono all’essenziali, affinché significato e segno diventino simbiotici.

Silvia ha privilegiato, per le mostre, i luoghi fortemente identitari, luoghi storici come le Cisterne Romane sotterranee di Fermo, il suggestivo chiostro dell’ex convento della chiesa romanica di San Tommaso, sede del Museo dell’arte ceramica di Ascoli Piceno, il rinascimentale palazzo Bosdari, sede della civica Pinacoteca di Ancona, il Museo tattile Omero presso la Mole Vanvitelliana ex Lazzaretto di Ancona, per ricordare solo alcuni luoghi delle mostre più recenti, proprio dove l’artista ha scelto di vivere e intrecciare un rapporto con il territorio socio-culturale-umano e istituzionale.

Silvia, infatti, ha privilegiato sempre la committenza pubblica perché offre la possibilità di sviluppare un progetto che coinvolge più soggetti, crea legami tra istituzioni e cittadini, rigenera luoghi sociali, creando partecipazione e cittadinanza attiva; come artista rappresenta “una via femminile all’esplorazione dei processi creativi nella vita e nell’arte”, così recita la copertina di un progetto del 2008, nato da una sua idea, Metodo effe, che ha coinvolto nell’ideazione anche donne di altri mestieri e professioni e, naturalmente, artiste; progetto che ha visto la sua concreta realizzazione ad Ancona, perché accolto dalle pubbliche istituzioni che si sono fatte committenti e mecenati. 

Ciò che ha ispirato le riflessioni e le opere di queste donne è nato dal pensiero-guida della critica d’arte Carla Lonzi: “La donna non è in rapporto dialettico con il mondo maschile. Le esigenze che essa viene chiarendo non implicano un’antitesi, ma muoversi su un altro piano. Questo è il punto in cui più difficilmente verremo capite, ma è essenziale che non manchiamo di insistervi”. 

Nel 2008 c’erano ancora speranze nel nostro Paese per una crescita rispettosa dei diritti sociali e civili e la libertà d’espressione, anche artistica, che non fosse totalmente succube del profitto. Ma, in Italia, molti intellettuali hanno abbandonato lo spirito critico, fagocitati dal business che soffoca lo spirito di ricerca, abiurando anche il ruolo di spirito-guida. 

Essere liberi nell’arte è davvero essere rivoluzionari e resistenti all’omologazione, significa ricercare e lavorare costantemente con concretezza e Silvia ne è un esempio.

Le abbiamo rivolto qualche domanda Silvia dà risposte lontane dal nostro linguaggio politico, sono riflessioni intime sul proprio sé in relazione con il mondo: da artista preferisce materializzare l’intuizione del suo pensiero e del sentimento nel segno, nella forma, nella parola di poesia.

D. Sono 25 anni che vivi e lavori ad Ancona, una piccola città che offre sempre meno, rispetto a Milano, dove ti sei formata e hai intrapreso il mestiere dell’arte; quanto è stato difficile continuarlo ed essere donna ha limitato le tue opportunità? 

R. Non ho mai voluto mettere a confronto i miei due vissuti, quello milanese e quello anconetano, sono due periodi completamente differenti che non paragono, “due Silvie” differenti per modalità lavorative, per scelte, per età; Ancona e le Marche sono diventati il mio luogo, a Milano ora sono un ospite, rivedo la mia città d’origine con occhi diversi, scoprendo cose che prima non guardavo, ragiono sul nuovo che trovo ogni volta e quando mi allontano dal mare e non vedo le linee delle colline, sono pervasa da una dolce malinconia che mi abbraccia.

Mentre sceglievo questa terra marchigiana cercavo, invano, la realizzazione di un progetto di appartenenza, perché legato all’attenzione che il mio lavoro ha per l’originario, come propulsore della ricerca dei simboli che trasformo in linguaggio visuale; ma, senza accorgermene, il mio lavoro si è trasformato in un progetto di resilienza.

Resilienza non è adattamento o resistenza, è un processo attivo di autoriparazione e crescita in risposta alle inevitabili difficoltà del vivere; di resilienza si parla anche per definire e sollecitare la possibilità autoriparativa a livello sociale e istituzionale. 

L’operare attivo dell’arte, che do per scontato, può indicare il fondamento resiliente dell’essere umano e, in senso più generale: è l’arte stessa strumento di resilienza nel confronto con il limite e con la dimensione traumatica che oggi viviamo.

Cercavo nella terra del Padre i linguaggi del Femminile e i suoi simboli per esprimermi in questo territorio, che mi ha dato importanti occasioni di realizzazione di miei progetti, anche pubblici, nello scambio aperto e dialettico con gli altri e la comunità.

Il mio lavoro di artista e la mia vita si sono sempre incrociati, perché il mio lavoro nasce da una necessità di vita e non dalla costruzione di un oggetto/opera artistica.

L’etica, l’amore, la ricerca di un luogo arcaico originario sono concetti per me necessari e umani e spostano tutto il lavoro in categorie molto lontane dal mercato dell’arte.

La nascita di mia figlia, rappresentazione in carne del mio desiderio, proprio nella terra originaria del mio arcaico, ha aperto il mio lavoro a nuove necessità e ha rafforzato il mio linguaggio artistico, che si è definitivamente coniato e declinato al femminile, sempre inteso dentro il concetto di differenza.

Nelle Marche c’è una storia di grandissime figure artistiche, che hanno avuto un rapporto indissolubile e conflittuale con queste terre che, come una calamita o un filo di una trama magica più grande, teso e lunghissimo, hanno sempre fatto ri-tornare, per poi sognare l’altro e cercarlo.

Sarebbe fantastico approfondire il tema di questi luoghi e finalmente storicizzare una scuola di artisti marchigiani, c’è già tutto, sarebbe bello farlo in collaborazione con le varie figure teoriche dei critici e degli artisti.

Per le donne si dà per scontato che le opportunità vengano sempre meno e, in questo periodo segnato da una volontà politica e da una pericolosa rimozione, cadono nell’oblio le grandi conquiste femminili sociali e civili; darle per scontate significa abbandonarle e causare grandi vuoti che altro colmerà; proprio per questo è assolutamente necessario riappropriarsi in maniera più incisiva delle conquiste femministe, rendendole contemporanee ai grandi cambiamenti sociali e linguistici.

Qui, nella terra marchigiana, la famiglia soccorre la mancanza del welfare e penso che, quando ci si appoggia troppo alla famiglia, si combatte meno per i propri diritti sociali e i ruoli parentali si sovrappongono e non facilitano la propria indipendenza e non costruiscono senso di comunità: un metodo malato nella visione tutta individualistica di far fronte alla vita. La mia storia personale di madre non ha avuto questi sostegni, ma ho avuto la fortuna con mia figlia di fare tutto con lei, insieme abbiamo fatto squadra e oggi, con esperienza e consapevolezza maggiore, rispettiamo le nostre esigenze completamente differenti: con i figli, se si cresce veramente, si scoprono nuovi mondi, nuove visoni, nuovi linguaggi; ma questo meriterebbe un’attenzione speciale e uno spazio di racconto a parte.

D. Qual è oggi la funzione dell’arte e il ruolo dell’artista? Quanto è ancora praticabile una funzione civilizzatrice ed etica dell’arte in una società che mercifica, consuma velocemente e omologa spegnendo pensiero e gesto creativo?

R. Alcuni concetti generativi del mio lavoro destabilizzano il mio percorso artistico rispetto alle richieste del mercato. Primo fra tutti è il concetto di “dono”, tematica assolutamente femminile, diciamo disperatamente femminile: lasciarsi andare al vuoto che forma l’atto creativo, ma il rapporto profondo con questo non crea un oggetto estetico in sé, bensì un potenziale: infatti, un atto creativo a sua volta genera un rapporto con gli altri per linee e vie sottili, allontanandosi da chi l’ha creato, e se ne va senza di te, senza la tua firma e senza la tua persona. Il silenzio crea dei ponti, delle relazioni stupende ma è anche fonte, in una società che non ha elaborato codici per questo, di sacrificio o di frustrazione tanto che, almeno per ora, trova una difficile, se non impossibile, collocazione nel mondo contemporaneo; o, forse, potrà divenire di nuovo necessario per via delle urgenze che ci premono.

Nelle mie opere il silenzio si lega alle profonde radici femminili, alle enormi contraddizioni che le caratterizzano e alle difficoltà, costanti per le donne, di esistere evitando le identificazioni con i codici del sacrificio.

Il secondo concetto imprescindibile è quello di complessità che vivo nel processo creativo, che non mette assolutamente in primo piano l’oggetto finale ma il percorso della creatività e che, inevitabilmente, va contro l’oggetto compiacente e bello, levigato e mercificato.

Non ho risposte a queste domande, ormai l’arte da troppo tempo è legata alla finanza, alle grandi speculazioni di pensiero e alle decisioni unicamente dettate dal mercato, i cui meccanismi si sono allontanati così tanto dal valore artistico che, ormai, è quasi impossibile decodificarli.

Certamente, agendo ai confini, ai limiti e come outsider, si ha una maggiore libertà che, però, si paga forse eccessivamente. 

Non riesco molto a capire, rispetto al passato, quest’epoca in cui ci si sente eternamente vinti e liberi di parlarne solo accanto ai vinti; è un periodo in cui si lavora partendo dalle mancanze, in cui vieni continuamente messo ai margini; prima, si poteva sperare nel cambiamento mentre ora non vedo questa possibilità.

Ho molta speranza nei giovanissimi, anche se partono già sconfitti, ma hanno armi nuove, la conoscenza del dolore e un grande senso della realtà, però mi sembra che manchi ancora un linguaggio definito, ma porteranno energie nuove, evidenziando quello che i loro genitori hanno seppellito, illusi da un benessere legato ai consumi che sembrava conquistato per sempre, ignorando il valore degli aspetti più umani e i valori etici; oggi, invece, le voci più interessanti sono quelle “mute”, quelle dei cosiddetti “ultimi”.

D. Tra i tuoi progetti più interessanti, oltre quelli personali di ricerca e creazione, c’è Metodo effe, nato da una tua idea, una ricerca interdisciplinare finanziata dalle istituzioni pubbliche, che ha coinvolto molte donne, donne che hanno costruito una propria emancipazione grazie all’istruzione e che hanno portato il loro contributo sul tema “politica” come ricchezza ideativa. Quale ricaduta ha avuto sul territorio? 

R. In questo nucleo di ricerca che ha rappresentato Metodo effe è l’insieme della produzione artistica che annoda programmaticamente e poeticamente corpo e mondo, che ha come centro propulsore la necessità di fare emergere e caratterizzare la specificità del pensare e dell’esperire femminile. In ciò, possiamo dire, si esprime una potente passione per l’origine, passione non ingenua o velleitaria, ma sofferto processo del divenire della consapevolezza femminile individuale e collettiva, insieme nella loro imprescindibile reciprocità. 

Tutto ciò non in opposizione “a” o in confronto “con”, ma come polo dialettico potenzialmente aperto e, osando dire di più, “offerto come dono”. 

Significa immettere nel generare simbolico la stessa potenza sentita ed espressa nel generare la vita e nel percepire il fondamento umano della vita stessa nella relazionalità primigenia che il generare umano sottintende. 

In tal modo, l’apporto della passione femminile, trasformata in vissuto di esperienza consapevole, può essere un impegno etico che ripudi le forme estetizzanti, riconducibili al pensiero maschile patriarcale, spesso assunto come valore anche dalle donne.

Nella cornice del “dono”, invece, la cultura, nel senso più estensivo di questo termine, si lega e diviene espressione e cura della vita stessa. 

L’aspetto dell’impegno etico e della cura, nella ricerca si evidenzia nel radicare fortemente il percorso e le esperienze nella dimensione dell’appartenenza a un territorio e alla sua comunità. La cura e il dono declinano lo sguardo femminile, cambiando il concetto di paesaggio, appartenenza e territorio. 

Nelle tre edizioni di Metodo effe si è indagato su varie tematiche analizzandole e esplicandole solo con un linguaggio della differenza, facendo domande a varie differenti figure teoriche a confronto ad altrettante figure artistiche, con il compito di una ricerca per la creatività, riconoscendole anche un senso e un linguaggio politico, per percorrere strade differenti nella visione e nella costruzione di una nuova società che fosse anche comunità consapevole. 

Un esempio, il lavoro svolto sul paesaggio domandandosi: con quali caratteristiche si presenterà il paesaggio se a costituirlo sarà uno sguardo femminile? Sguardo che, pur curioso ed esplorativo, teoricamente avveduto, conscio delle sedimentazioni teoriche che lo costituiscono, si alimenta anche dell’esperienza di sé e della relazione con l’altro da sé e sottoscrive come proprio l’ascolto e la cura, piuttosto che la conquista, lo sfruttamento e l’arroccamento ideologico.

Anche nell’ultimo appuntamento di Metodo effe, più circoscritto è stato un momento importante di crescita che ha lasciato vari segni e semi di lavoro, dimostrando ancora la forza del progetto femminile del linguaggio della differenza, che può avere e prendere un aspetto salvifico in questo momento disperato.

D. Nell’epoca dove la necessità economica, politica, sociale sembra aver ridotto gli spazi per un’azione realmente libera, nel tempo in cui il mondo sembra ormai disperatamente immodificabile e temibile, in cui l’altro sembra incombere come presenza minacciosa, il pensiero di Carla Lonzi può ancora parlare alle più giovani, a quelle che sono cresciute nell’epoca dell’emancipazione più o meno compiuta, nel momento in cui la politica è ridotta a meschinità per propri interessi individuali e complice dei poteri forti? Le nuove generazioni sono in grado di cogliere nel reale ciò che limita la libertà femminile, ciò che invece è in grado di realizzarla e lottare per questo?

R. Ribadisco che nutro molta speranza nei giovanissimi, trovo che le nuove generazioni, per forza di urgenti necessità, con le loro scelte mettono in gioco la propria vita, aprono delle nuove possibilità ancora tutte in fieri, spesso singole, differenti tra loro, spinti dall’esperienza della difficoltà, del dolore, accolti in sé e nel proprio corpo, per cercare un linguaggio nuovo, un alfabeto della diversità che parta dalla propria pelle.

Un linguaggio che si rifà tantissimo alle madri del femminismo perché cerca una differenza che, per ora, è stata creata unicamente dal linguaggio della differenza femminista. 

Ci si trova a essere ai limiti del senso della vita, che porta, per forza e per necessità, a partire da punti estremi mai inimmaginabili prima, dove il tritacarne del potere ha anch’esso valicato ogni confine impensabile; non so immaginarmi in questo momento, fitto di giorni bui senza speranza, come si esprimerà l’azione nella lotta contro un sistema di potere che ha ucciso ogni forma di vita; confido che ci sarà ancora spazio per ascoltare posizioni ribelli, rivoluzionarie, pronte ad entrare nel linguaggio della vita e della differenza, spero nell’umanità degli ultimi, dei vinti, per riappropriarsi del sentire umano.

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