di Stefano Tenenti
I principali indicatori economici, da ultimo il Rapporto mondiale sui salari, non lasciano spazi a dubbi sull’assenza di politiche occupazionali e di rilancio dell’economia.
E’ dal 1991 che le retribuzioni degli italiani sono nettamente al di sotto dell’aumento del costo della vita e sostanzialmente congelate, come da tempo confermano numerosi studi e statistiche nazionali ed internazionali, a cominciare dal rapporto del 2023 dell’Inapp – Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche, che rileva un aumento annuo dell’1% a fronte del 32,5% dell’area Ocse, o dall’analisi Salary Outlook dell’Osservatorio Job Price, che colloca il Paese verso il fondo della classifica europea. Una situazione confermata negli ultimi giorni anche dal rapporto mondiale sui salari, che sottolinea la perdita di valore dei salari dal 2008 ad oggi. Un primato negativo, nell’ambito del G20, di cui le istituzioni non parlano, ben diverso dalla narrazione propagandistica del governo Meloni.
Il Rapporto mondiale sui salari viene pubblicato con cadenza biennale dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil). L’azione dell’Oil in materia di diseguaglianze salariali si inserisce nel quadro dell’ Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile (Obiettivo 10) delle Nazioni Unite che mira a ridurre le disuguaglianze sia all’interno dei singoli Paesi che a livello globale. L’Obiettivo 10 sembra però completamente eluso dai risultati raggiunti.
L’edizione 2024-2025 del rapporto analizza le tendenze dei salari a livello globale, regionale e nazionale, aggiornando i dati sugli andamenti salariali negli anni 2023 e 2024. Esamina la situazione delle disuguaglianze salariali a livello globale, regionale e nazionale, così come l’evoluzione delle disuguaglianze salariali durante il primo quarto del XXI secolo. Propone altresì una serie di implicazioni riguardo l’adozione di politiche mirate ed efficaci per ridurre le disuguaglianze.
Ad una rapida analisi, il Rapporto evidenzia una ripresa nella crescita dei salari reali a livello globale a partire dal 2022. Nonostante questi segnali positivi, i salari reali di molti paesi non hanno tuttavia ancora recuperato la perdita di potere d’acquisto causata dalla crisi del costo della vita. Il Rapporto traccia una tendenza globale alla riduzione delle disuguaglianze salariali, con diminuzioni osservate dall’inizio degli anni 2000 in circa due terzi dei paesi analizzati. Le disparità retributive continuano a restare significative. Le lavoratrici sono particolarmente penalizzate in quanto continuano ad essere sovrarappresentate nei lavori a bassa retribuzione, con un divario salariale di genere persistente. Infine, l’analisi empirica mostra come i lavoratori autonomi, che rappresentano una quota rilevante della forza lavoro dei paesi a basso e medio reddito, siano spesso collocati nelle fasce di reddito più basse. La contabilizzazione di questa categoria di lavoratori produce una disuguaglianza complessiva più accentuata dei redditi da lavoro.
Partendo da un’analisi dettagliata dei dati raccolti per la predisposizione del Rapporto mondiale, questa nota analizza le tendenze salariali e delle diseguaglianze in Italia. Questi dati mostrano che i salari reali sono diminuiti nel 2022 e 2023, tornando a crescere solo nel 2024. Come nella maggior parte degli altri paesi, l’aumento registrato nell’ultimo anno non è stato tuttavia sufficiente a compensare le perdite subite durante il periodo di alta inflazione. Inoltre, a differenza della maggior parte dei paesi del G20, l’Italia si distingue per una dinamica salariale negativa nel lungo periodo, con salari reali inferiori a quelli del 2008. In termini di diseguaglianze, l’Italia presenta un livello di disparità salariale inferiore alla media dei Paesi ad alto reddito, con una maggiore disuguaglianza nella parte superiore della distribuzione salariale. In contrasto con la tendenza globale, la disuguaglianza salariale media in Italia tuttavia è rimasta pressoché invariata durante il periodo 2006-2018 a causa della compensazione tra la riduzione delle diseguaglianze nella parte superiore e l’aumento tra quelle della fascia salariale più bassa.
In estrema sintesi:
1)
• Dal 2008, l’Italia ha subito una perdita significativa del potere d’acquisto dei salari, con una diminuzione dell’8,7% dei salari reali.
• La crisi del costo della vita ha avuto un impatto negativo sui salari nel 2022 e 2023, con una ripresa nel 2024 (+2,3%).
2)
• L’inflazione ha raggiunto il picco dell’8,7% nel 2022, per poi diminuire nel 2023 e 2024.
• La crescita del PIL reale è stata modesta nel 2023 e 2024, attestandosi allo 0,7%.
3)
• Dal 2022, la produttività del lavoro è cresciuta più dei salari reali, invertendo la tendenza dei 22 anni precedenti.
4)
• Il divario salariale di genere è pari al 9,3%, uno dei più bassi tra i Paesi dell’Ue.
• I lavoratori migranti percepiscono un salario orario inferiore del 26,3% rispetto ai lavoratori nazionali.
Crisi finanziaria e recessione, crisi energetica, pandemia, guerra, inflazione. e l’impatto è stato pesantissimo sulle famiglie e sui lavoratori che ne hanno risentito in termini di perdita del potere d’acquisto e della sicurezza sociale.
storicamente sbilanciate a favore dei lavoratori anziani stabili a tempo indeterminato, per fronteggiare i bisogni di giovani, donne e stranieri, i più numerosi tra i lavoratori poveri
Un problema strutturale di lunga data, generato dal cambiamento del mercato del lavoro sempre più flessibile e precario, come emerge plasticamente dalla stessa indagine Istat, la quale mostra come l’incidenza della povertà assoluta riguardi anche chi lavora, con il 14,7% di famiglie operaie e l’8,5% di famiglie con un lavoratore autonomo sotto la soglia di povertà. Avere un lavoro non mette più al riparo dalla povertà, visto che il 50% delle famiglie in povertà relativa include un lavoratore con un reddito insufficiente a soddisfare i bisogni del nucleo familiare.
E’ del tutto evidente che una situazione economica come quella accennata sopra avrebbe la necessità improrogabile di essere affrontata da una compagine governativa completamente diversa dall’attuale, non solo in termini politico-ideologici, ma anche di capacità di intervento, al fine di modificare parametri strutturali frutto di decenni di assenza di programmazione.
D’altronde la permanenza dell’Italia in Europa, il suo coinvolgimento supino nelle scelte dettate dall’ordoliberismo tedesco, sia nella fase dell’austerity di lungo periodo che in quella che sembra profilarsi oggi, di espansione del debito per il riarmo, non propende per il cambiamento radicale delle scelte di politica economica necessarie.
Nel quadro complessivo di questa emergenza complessiva internazionale, in Italia il governo della destra – ma le scelte fondamentali sono state le stesse del “centrosinistra” dell’ortodossia liberista di Monti, Draghi ed altri – non ha la minima idea del che fare, perchè la loro vera priorità è mantenere le disparità sociali, consentendo e agevolando l’attuale distribuzione del reddito a favore della classi agiate del Paese.
Se è stata inserita nella Costituzione la modifica dell’art. 81 (da parte del Pd e dei suoi alleati), che obbliga la Repubblica al pareggio di bilancio, significa innanzitutto che non si riconosce una funzione sociale ai servizi essenziali, a cominciare dalla sanità, non consentendo adeguati investimenti su tali settori e quindi non garantendo l’universalità delle prestazioni, che infatti vengono precluse ad ampie fasce di popolazione, ma si impedisce anche una politica di rilancio dell’economia, dell’occupazione e di uno sviluppo diffuso sui territori, teso alla riduzione delle disparità tra le aree del Paese. Ciò è tanto più vero quando le leve decisionali del sistema sono in mano ad un ministro come Giancarlo Giorgetti. D’altra parte, avete mai visto un bocconiano fare politiche redistributive verso lavoratori e pensionati?
Immagine: Borgo storico di Dozza (Bo), dipinto da artisti contemporanei (1960 e 2012) – Giosbriff, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons
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