di Leonardo Sinigaglia
La condizione di semicolonia dell’Italia, dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi, determinata da subordinazione economica, eterodirezione politica e dai mastodontici apparati di controllo e repressione creati dagli Stati Uniti nel nostro Paese.
1-L’Italia è un paese sotto occupazione coloniale
Il regime fascista promise all’Italia un avvenire di maggiore grandezza, ma seppe garantire unicamente la vergognosa partecipazione ad un conflitto mondiale al servizio dei progetti egemonici della Germania hitleriana che culminò nella devastazione e nell’occupazione del nostro Paese. Quasi mezzo milione di italiani persero la vita, e intere città conobbero l’orrore dei bombardamenti strategici. La cobelligeranza con gli Alleati a seguito della deposizione di Mussolini del 25 luglio 1943 non riuscì a garantire all’Italia una pari considerazione rispetto alle potenze vincitrici, mentre la Resistenza, dopo il disarmo delle brigate partigiane e lo scioglimento del Cln, non riuscì a portare a una piena trasformazione istituzionale e politica del paese. Il risultato di ciò fu l’inserimento dell’Italia nel campo atlantico come paese satellite degli Stati Uniti, paese sprovvisto della ben più larga autonomia concessa a Francia e Gran Bretagna. Questa nuova posizione internazionale dell’Italia si concretizzò anche grazie alla vasta rete di informatori e agenti stranieri già presenti da anni nel Paese e inseriti in qualsiasi apparato statale e settore della società civile, dai partiti all’esercito, dalla stampa al mondo accademico. Inoltre, il capitale finanziario italiano da sempre aveva mostrato atteggiamenti “esterofili”, cercando, quando possibile, di scendere a compromessi per essere tutelato dai più forti capitali stranieri, prima inglesi e tedeschi, poi sempre più statunitensi. Soprattutto a partire dai primissimi anni del secondo dopoguerra, la grande borghesia italiana ha preferito l’inserimento in un ordine economico euro-americano come soggetto subalterno, caratterizzato da scarse capacità tecnologiche e una competitività garantita dal basso costo del lavoro, a qualsiasi pretesa di autonomia. Le politiche deflattive volte a privilegiare le esportazioni promosse da Luigi Einaudi come ministro del Bilancio e governatore della Banca d’Italia sono da inquadrare in questo contesto.
La debolezza relativa e l’arrendevolezza della grande borghesia italiana, rimasta classe dirigente, seppur costretta a compromessi, dopo la Seconda guerra mondiale, aprì le porte a una profonda subordinazione del paese a quella che, sconfitta la Germania e distrutta l’Europa, era rimasta l’unica potenza capace di concretizzare un disegno egemonico di portata globale: gli Stati Uniti d’America. Essi vedevano nell’Italia una zona di primaria importanza perché tramite essa era possibile la messa in sicurezza dei fianchi meridionali e balcanico della Nato, permettendo il controllo del Mediterraneo. Per Washington era fondamentale impedire qualsiasi slittamento dell’Italia verso il campo socialista o verso la neutralità, da qui l’esigenza di intervenire sin da subito in modo sia aperto che occulto per assicurare la tenuta politica dell’apparato di controllo semicoloniale in costruzione. Il sostegno finanziario e propagandistico alla Democrazia Cristiana, la mobilitazione dell’emigrazione italiana anti-comunista negli Usa e le operazioni di guerra psicologica si sommarono all’approvazione dell’European Recovery Program, il Piano Marshall, a pochissime settimane dalle elezioni, in modo che tale progetto, opportunamente camuffato, potesse servire da “assaggio” di cosa avrebbe potuto aspettarsi l’Italia dalla sua permanenza nel “mondo libero”.
La sconfitta del Fronte Popolare alle elezioni del 1948 garantì agli occupanti statunitensi la garanzia che l’Italia si sarebbe docilmente arresa alla “necessità” della svolta atlantica. L’ingresso nella Nato del 1949, la successiva creazione della Ceca e la firma, nel 1957, del Trattato di Roma, ridussero l’Italia allo status di semicolonia, una dipendenza straniera la cui formale indipendenza era in realtà negata da una realtà dei fatti caratterizzata da una sovranità limitata e puramente amministrativa.
È giusto parlare di semicolonia per quanto l’Italia repubblicana in quanto la subordinazione economica, l’eterodirezione politica e i mastodontici apparati di controllo e repressione creati dagli Stati Uniti nel nostro Paese non solo non hanno conosciuto eguali nel contesto europeo, ma rendono completamente insensata l’immagine di un Paese indipendente e sovrano le cui scelte siano specchio della volontà democratica del popolo. L’Italia ha visto negli anni diminuire i propri spazi di indipendenza tramite la destabilizzazione controllata del Paese, l’eliminazione delle figure più scomode ai piani egemonici statunitensi e la certosina infiltrazione dei maggiori partiti di massa, delle sedi istituzionali e degli apparati mediatici, ideologici e culturali del Paese. Descrivendo la fase imperialista del capitalismo nel 1916, Vladimir Lenin notò come esistessero diverse “forme transitorie della dipendenza statale”[1] risultato dello scontro tra le potenze imperialistiche che, nonostante una formale indipendenza, segnavano un diverso grado di dipendenza politica, diplomatica e finanziaria, magari non ancora giunto all’estremo della diretta dipendenza coloniale, ma comunque abbastanza acuto da qualificare il paese in questione come un protettorato di una potenza, o una semi-colonia. Il passaggio da uno scenario caratterizzato da più potenze imperialiste in competizione a uno segnato dalla presenza di un centro egemonico capace di subordinare a sé gli altri centri di accumulazione imperialista non ha che promosso una maggiore diffusione di questi Stati a diverso grado di dipendenza, dalle repubbliche sudamericane “giardino di casa” degli Usa ai regimi militari dell’estremo oriente la cui esistenza si fondava sulle armi americane. In questo contesto, l’Italia, che ha conosciuto Gladio e i Nuclei per la difesa dello Stato, l’operazione Blue Moon e la strategia della tensione, le stragi di mafia, la caduta della Prima repubblica e Maastricht, si avvicina molto di più a una qualsiasi repubblica delle banane che a un paese indipendente. La realtà semicoloniale del nostro paese emerge però in maniera altrettanto imponente se si tiene conto delle condizioni interne di questo. Negli ultimi dieci anni 1,3 milioni di persone hanno lasciato l’Italia. Di queste, la stragrande maggioranza è composta da giovani, spesso laureati, in “fuga” verso i paesi dell’Europa settentrionale o gli Stati Uniti dove hanno migliori occasioni di ottenere un’occupazione in linea con la propria formazione, tendenzialmente d’ambito tecnico e scientifico. Un vero e proprio salasso in cui sono attivamente impegnate università e multinazionali occidentali, che vedono l’Italia come una carcassa da spolpare, privandola di un capitale umano per cui il sistema è strutturalmente impossibilitato a creare sbocchi produttivi. Se questa cifra è quantificabile con una certa precisione, nonostante l’ambiguo stato di molti italiani espatriati ma non ancora registrati all’apposita anagrafe, è più difficile tenere conto dei plurimiliardari investimenti predatori che negli ultimi decenni hanno permesso a fondi speculativi e squali vari dell’alta finanza di banchettare con i resti privatizzati del sistema pubblico italiano e con numerose eccellenze privati medio-grandi. Dalla Tim, la cui infrastruttura digitale è stata svenduta alla Kkr, fondo speculativo statunitense in odor di Cia, alla Magneti Marelli, passata in proprietà a un gruppo giapponese anch’esso controllato dalla Kkr, passando per le numerose vicende simili a quelle della Fiat-Chrysler, con un’internazionalizzazione sinonimo di divorzio da qualsiasi investimento produttivo nel paese d’origine, o anche degli interventi volti unicamente a ridimensionare, se non eliminare, concorrenti, dalla Perugina all’Ercole Marelli. Per tacere, ovviamente, delle infinite privatizzazioni intercorse dagli Anni ’90 ad oggi, azioni alle quali tutti i governi, a prescindere dal colore, hanno sempre dato il proprio assenso, e che anche esecutivo guidato da Giorgia Meloni ha ritenuto necessarie, come lasciano intendere le parole di Tajani, che, commentando la cessione del 4% dell’Eni e la possibile privatizzazione di Poste Italiane e Ferrovie dello Stato, ha parlato di una “grande stagione di privatizzazioni” per rimpinguare le casse dello Stato.
L’Italia, materialmente in un marcato declino economico sin dal biennio 2007-2008, ben lontana dall’esistenza di “paese imperialista” che prospera sulla subordinazione di altri paesi, è condannata ormai in virtù delle imposizioni di Bruxelles ad avere come unico orizzonte la “vocazione turistica”, il convertirsi integralmente ad attrazione per i ricchi borghesi dell’Occidente, che, dalla Germania agli Stati Uniti, non aspettano altro che la bella stagione per fotografare le nostre splendide rovine e gustare i prodotti tipici, accompagnati da qualche guida sottopagata e serviti da personale precario, alloggiando in quartieri ridotti a residence per gli ospiti economicamente incompatibili con le possibilità dell’italiano medio. Uno scenario che ricorda, al limite, quello della Cuba prerivoluzionaria o della Shanghai in cui sui i negozi erano esposti cartelli con scritto “vietato l’ingresso ai cani e ai cinesi”. Altro che “potenza imperialista”! La crisi pluridecennale attraversata dal nostro paese ha dato la perfetta occasione al capitale finanziario monopolistico per rafforzare la sua presa sull’economia italiana, sfruttando il venir meno delle barriere e dei controlli verificatosi a partire dagli Anni’ 80. A seguito della crisi del 2011 il settore bancario è stato particolarmente vulnerabile agli assalti internazionali. Il primo azionista di UniCredit è il fondo americano Blackrock, che ne controlla il 6,8%, mentre la banca Goldman Sachs ha una partecipazione aggregata nel capitale pari al 5,34%; gli investitori istituzionali, che compongono il 77% degli azionisti della banca, sono principalmente statunitensi (38%) e inglesi (27%). [2] Banca Intesa Sanpaolo, la prima banca italiana per capitalizzazione, vede anch’essa una forte presenza di BlackRock, arrivato ad essere il secondo azionista nel 2020 con il controllo del 5,048% delle azioni, mentre la Goldman Sachs, che in precedenza aveva una partecipazione aggregata superiore al 6%, l’ha recentemente ridotta all’1,54%. Quote azionarie importanti, anche superiori al 5%, sono detenute da BlackRock anche in altri istituti di credito italiani, come Ubi Banca e Monte dei Paschi di Siena. Ma non solo banche: BlackRock controlla, direttamente o indirettamente, quote azionarie importanti della Telecom, di Italo, della holding Azimut, della Prysmian, della Leonardo e di numerose altre aziende, anche di rilevanza strategica. L’altro grande gestore di fondi statunitense, Vanguard Group, gode anch’esso di importanti partecipazioni azionarie nelle principali banche italiane, comprese Banca Intesa, MPS, Ubi Banca, Banco Popolare e Bpm. Il controllo di quote azionarie significative permette a questi colossi, tra i simboli della nuova concentrazione del capitale finanziario di monopolistico, di controllare le “alture dominanti” dell’economia italiana, e influenzare le scelte politiche a favore delle privatizzazioni e di un progressivo rilassamento delle misure atte a contenere la loro prassi monopolistica. Non è un caso che Larry Fink, co-fondatore e presidente di BlackRock, sia intervenuto al G7 in Puglia del giugno 2024. Questa penetrazione del capitale statunitense in Italia, di cui si sono dati appena una manciata di dettagli, ha influenzato l’enorme trasferimento di ricchezza verificatosi negli ultimi decenni a vantaggio degli Usa, esploso in particolare dopo il 2008 con il progressivo saccheggio della ricchezza privata e pubblica degli italiani. Quella che in realtà è stata una tendenza europea diventa ben visibile se si confrontano i dati sulla ricchezza dei vari paesi. Al 2008 l’Italia possedeva il 5,6% dell’economia mondiale, circa un sesto della quota americana. Dodici anni dopo, nel 2022, l’Italia era scesa al 2.4%, una quota dodici volte e mezzo più piccola di quella americana[3]. Questo imponente collasso relativo si deve al vero e proprio saccheggio della ricchezza delle famiglie italiane, diminuita del 7,7% al netto dell’inflazione tra 2011 e 2022 a causa del progressivo venir meno delle coperture pubbliche per servizi essenziali e all’aumento delle spese. I processi di privatizzazione hanno visto in prima fila il capitale finanziario monopolistico statunitense, e l’orientamento delle politiche di ogni governo italiano hanno favorito questi sia in maniera diretta che indiretta, ossia sia svendendo quote dell’economia pubblica o imponendo vincoli e norme che renderanno inevitabili future privatizzazioni, come nel caso della recente riforma fiscale del governo Meloni o del progetto dell’autonomia differenziata, portato avanti soprattutto dalla Lega ma fondato sull’operato del centrosinistra, dalla riforma del titolo V della Costituzione del 2001 agli accordi tra Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia e il governo Gentiloni. La penetrazione del capitale statunitense è resa possibile dalla subordinazione politica del nostro paese a Washington.
Davanti all’intensificazione della crisi delle economie europee, in particolare dell’asse franco-tedesco che per decenni ha potuto governare il continente su mandato proconsolare americano, il saccheggio delle ricchezze delle famiglie italiane è destinato verosimilmente ad aumentare nella sua intensità. Progetti come la Siu, “Saving and Investments Union”, garantiranno verosimilmente i capitali dei correntisti italiani per rischiosi investimenti nel settore della difesa, in particolare quello francese, capitali peraltro braccati anche dagli Stati Uniti, che anche per questa ragione hanno crescenti conflitti con i propri alleati subalterni.
2-Non esiste possibilità di trasformare la società italiana senza liberazione nazionale
La trasformazione dell’Italia da paese indipendente con pulsioni imperialiste in semicolonia statunitense sarebbe stata impossibile senza un’estesa rete di controllo facente capo a Washington e ai suoi centri decisionali militari, diplomatici, economici, culturali e ideologici. L’attuale struttura di potere in Italia è semicoloniale, e dipendente da Washington e, in subordine, da Bruxelles. Essa è tenuta in piedi grazie ad apparati repressivi, agenti propagandisti, reti clientelari e di controllo che dipendono, in ultima istanza, dall’estero. In questo contesto qualsiasi possibilità di cambiamento proveniente dall’interno del sistema è assolutamente nulla. Al di là delle uscite propagandistiche, delle promesse elettorali e delle illusioni, non vi può essere nessuna trasformazione in senso migliorativo della condizione sociale, economica e politica delle masse senza una radicale lotta agli apparati coloniali.
Farneticazioni come quelle su una ipotizzabile “altra Europa” o sulla compatibilità di riforme sociali anti-neoliberiste con la permanenza nel blocco occidentale devono essere chiamate per quello che sono: nella migliore delle ipotesi, illusioni dettate da profonda ignoranza; nella peggiore, chiari tentativi di inquinare le acque del dissenso per portarlo su binari morti.
Non è un caso che la quasi totalità delle lotte rivendicative che si sono succedute negli ultimi decenni abbia conosciuto unicamente sconfitte: ciò è stato causato non solo dalla sproporzione delle forze in campo, ma anche, forse soprattutto, dall’incapacità di dare la giusta dimensione politica alle singole rivendicazioni. Sulla scorta del pensiero negriano, l’”agire locale e pensare globale” della galassia disobbediente non è riuscito ad ottenere null’altro che fallimenti, inutile “resistenze” identitarie che non hanno mai saputo impensierire le forze imperialiste, e che anzi hanno fornito a queste un utile ausilio nella lotta ideologica contro lo Stato, la nazione, i confini, la sovranità democratica…
La nominalmente vasta galassia dell’estrema sinistra è riuscita dagli Anni ‘90 ad oggi a distinguersi in negativo sullo scenario politico nazionale e internazionale per la propria passività, l’estrema pigrizia mentale, la disonestà intellettuale e il totale scollamento dalla realtà. Nonostante la basi materiali e culturali tutt’altro che proibitive essa non solo ha agevolato il diffondersi di una terrificante rassegnazione tra gli italiani, ma ha contribuito attivamente al mantenimento dei rassicuranti rapporti di forza neoliberisti imposti a suon di bombe, golpe giudiziari e omicidi alla nostra colonia, accontentandosi sistematicamente della narrazione dominante e degli angusti spazi dell’ideologia liberale, assecondando, per quanto da una posizione “critica e di sinistra”, ogni mossa dell’imperialismo statunitense.
L’estrema sinistra ha rinchiuso la politica nei “centri sociali”, trasformandola in un fattore estetico-identitario, nella ricerca di un microcosmo ribellista privo di qualsiasi velleità di trasformare l’esistente, fondamentalmente negandone la stessa essenza materiale e collettiva.
L’estrema sinistra ha sostenuto concretamente ogni aggressione internazionale dell’imperialismo, dalle sanzioni, alle destabilizzazioni, alle dirette invasioni militari, o direttamente attraverso l’adesione alla retorica della “lotta contro l’autocrazia” e dei sempiterni “giovani in cerca della libertà”, o indirettamente, ammantandosi di un ipocrita, stomachevole e inconcludente pacifismo “nénéista”.
L’estrema sinistra ha combattuto scientemente e aggressivamente contro qualsiasi forza reale che si opponesse in senso progressivo allo stato di cose presente, facendo ampio ricorso alla diffamazione (si pensi all’eterno ritorno dei dossieraggi “antifascisti” e alla caccia alle streghe contro il “rossobrunismo”), alla mistificazione della realtà, spesso riprendendo fedelmente gli stessi topoi della propaganda imperialista, se non direttamente, quando possibile, alla violenza, con numerosi tentativi d’interruzione di conferenze, manifestazioni, eventi di varia natura.
Ciò non potrebbe accadere se l’estrema sinistra non avesse abdicato all’analisi materiale della realtà in nome della più totale dissociazione psichedelica. Questi individui rifiutano la realtà materiale, preferendo ripiegare in scenari artefatti, confezionati su misura ai loro pregiudizi e ai loro luoghi comuni, scenari che non necessitano di nessun rigore intellettuale o di particolare impegno nell’analisi, ma che contengono sempre le solite, semplici, ripetitive soluzioni a tutti i problemi.
Il marxismo insegna che la verità è da ricercarsi nei fatti. L’idealismo liberale antepone ai fatti le proprie proiezioni ideologiche. L’estrema sinistra, anche in questo, si distacca completamente dal marxismo per approdare tra le braccia della reazione. Ma questo scollamento dalla realtà non sarebbe materialmente possibile se non fosse soddisfatta una condizione necessaria: l’odio per il popolo, il disprezzo per la gente comune, un sentimento d’aristocratico sdegno per tutto ciò che non appartiene alla propria piccola, residuale setta, che non condivide i suoi riti e che non è iniziato ai suoi misteri. Da qui una delle maggiori cause della totale residualità politica dell’estrema sinistra nel nostro paese: è ridicolo, insultante e insensato proporre a un popolo un programma politico e allo stesso tempo affermare un intimo disprezzo per la sua identità, la sua storia, il suo sentirsi nazione. In poche parole: l’estrema sinistra rappresenta un’area sconfitta, collaborazionista e politicamente regressiva (anche) perché odia l’Italia, perché è incapace di porre il compito politico della liberazione nazionale come bussola strategica per la presente fase.
Chiedere a gran voce riforme sociali e contestare l’attuale stato di cose è perfettamente sterile se non comprende che per trasformare l’Italia è necessario e indispensabile lavorare alla sua completa liberazione dal giogo coloniale statunitense ed europeo. Non può essere realizzata nessuna idea diversa di paese senza questa liberazione. Non è possibile nessuna convivenza pacifica con Nato ed Europa, ma se ne richiede la totale distruzione.
Il compito della liberazione nazionale deve essere posto come obiettivo prioritario a cui sottomettere e ricondurre ogni altro. Non si tratta di parlare di riforme sociali “e” di liberazione nazionale, ma di capire che senza liberazione nazionale qualsiasi discorso sulle riforme sociali non è che mera chiacchiera.
3-La congiuntura internazionale è favorevole alla liberazione nazionale italiana
Il mondo sta attraversando una fase di profonde trasformazioni a tutto campo associate con la crisi, probabilmente irreversibile, dell’ordine egemonico unipolare degli Stati Uniti. L’intervento diretto russo in Donbass e Ucraina ha inaugurato una nuova fase nella lotta tra le forze imperialiste e quelle anti-imperialiste su tutto il globo, galvanizzando le lotte per la liberazione in Africa, Sud America e Asia Occidentale. Allo stesso modo la poderosa ascesa economica e tecnologica della Repubblica Popolare Cinese mostra concretamente come il modello socialista sia superiore al capitalismo, e offre l’opportunità a tutti i paesi del mondo di sostituire le organizzazioni di cooperazione internazionali fondate sulla netta prevalenza degli interessi occidentali con nuovi meccanismi di cooperazione paritaria e mutualmente vantaggiosa.
Le crescenti difficoltà affrontate dall’Occidente collettivo sia a livello economico che militare hanno provocato una crisi senza precedenti tra Washington e i suoi alleati subalterni, riflesso di una guerra civile in seno all’oligarchia al comando dell’Impero. Ciò ha portato all’indebolimento della struttura europea e al ripudio da parte degli Stati Uniti di ogni velleità multilaterale in nome di un approccio diretto e brutalmente schietto nell’identificare pubblicamente gli interessi dell’impero.
In questa situazione diventano sempre maggiori gli spazi di praticabilità di un percorso per la conquista dell’indipendenza nazionale e per la promozione di nuovi paradigmi di sviluppo. La guerra civile intestina all’impero divide il campo imperialista, mentre la realtà di un mondo ormai multipolare pone la concreta possibilità di avere nuovi interlocutori dal punto di vista economico, diplomatico e militare. L’Italia sarebbe inoltre particolarmente agevolata in ciò dalla sua posizione geografica, che unisce una collocazione al centro del Mediterraneo, congiungendo così Africa, Asia occidentale ed Europa, a quella all’estremo occidente del continente eurasiatico, capace quindi di fungere da terminale d’arrivo per le Vie della Seta sia terrestri che marittime. L’adesione a nuove prospettive internazionali è per l’Italia più di un’opportunità: è una necessità. L’attuale divisione del lavoro internazionale vede l’Italia schiacciata in una posizione per molti aspetti simile a quella assunta nel XVII Secolo, quando il focus sulla produzione di lusso per l’esportazione presso piccole nicchie di mercato regalò al paese un forte ritardo nei processi di industrializzazione. Oggi la produzione industriale in Italia è da anni in calo, l’innovazione tecnologica è stentata, e si assiste a un processo di trasformazione del paese in un immenso villaggio vacanze per i visitatori benestanti del Nord Europa o degli Stati Uniti, caratterizzato da un’economia di servizi “turistici”. Uno scenario, ancora una volta, da Repubblica delle banane incompatibile con qualsiasi progetto di trasformazione sociale che metta al centro la garanzia di un lavoro stabile, retribuito in maniera congrua al costo della vita e capace di poter sostenere la costruzione di una famiglia.
Le condizioni oggettive per una liberazione nazionale dell’Italia sono presenti, ciò che manca al momento è l’elemento soggettivo.
4-È necessario un fronte popolare che porti avanti la lotta per la liberazione nazionale in ogni campo e in ogni modo
L’approfondirsi della crisi del campo imperialista porta all’acutizzazione delle contraddizioni. Ogni posizione mediana, ondivaga e incerta viene necessariamente spazzata via a favore di una delineazione sempre più chiara delle parti in campo. Già oggi è pressoché finito lo spazio disponibile per chi tenta di proporre la sua personale via “nénéista”, che sia quella trotskista fondata sulla lotta agli inesistenti “opposti imperialismi”, o quella neofascista basata su una pretesa equidistanza tra Nato e forze antimperialiste. La realtà dei fatti mostra una polarizzazione sempre più evidente. Tutte le forze reazionarie, aperte o camuffate, inevitabilmente si allineano con Bruxelles, col suprematismo occidentale, col riarmo europeo e con gli Stati Uniti d’Europa. A sostegno della guerra alla Russia e, come si evince dall’ultimo libro bianco della difesa europea, della lotta contro Africa, Cina e mondo arabo, si erge una coalizione che va da CasaPound al Partito Democratico, dalla Cgil a Fratelli d’Italia, dall’Anpi ad Azione, una convergenza per nulla inspiegabile o inedita che riflette la tendenza già manifestata dal sistema imperialista a richiamare alla sua difesa tutte le aree politiche e sociali ad esso collegate, dalla socialdemocrazia, “ala moderata del fascismo”, al neofascismo vero e proprio, dai liberal-liberisti ai neoconservatori, dall’aristocrazia operaia alle clientele di pensionati, dipendenti pubblici e operatori del terzo settore. Questo asse, che attraversa associazioni, partiti, istituzioni, sindacati, centri studi e organizzazioni di vario tipo, può marciare diviso, spinto sia dalla convenienza propagandistica ed elettorale, sia dalla concorrenza interna, ma colpisce unito, per assicurare che il nostro paese sprofondi in uno stato di dipendenza ancora maggiora, piagato dalla doppia oppressione rappresentata dallo spettro del federalismo europeo e dalla volontà statunitense di saccheggiare le ricchezze del continente per affrontare la crisi.
Da un punto di vista di classe questo fronte rappresenta gli interessi del capitale monopolistico finanziario facente capo a Wall Street e alla City di Londra, della parte di capitale finanziario italiano riuscitosi a integrare nel centro imperiale (pensiamo agli Agnelli e al gruppo Stellantis, i principali promotori della manifestazione europeista del 15 marzo scorso a Roma), della borghesia compradora italiana, dipendente dal centro imperiale e disposta a scambiare il suo declino produttivo in cambio della concessione di una rendita, dell’aristocrazia operaia e dei pensionati associati ai sindacati confederali, che scambiano l’appoggio politico all’imperialismo con retribuzioni e condizioni lavorative leggermente più tutelate della media, della fitta rete di clientele che sono state costruite dai partiti e dagli attori economici maggiori, soprattutto il Partito Democratico, che dalla gestione della cosiddetta “accoglienza” alle cooperative di varia natura vedono la propria attività strettamente connessa al sistema di potere presente. Quest’asse sfrutta, al momento occasionalmente, l’attività dei settori più violenti e disperati del sottoproletariato, in particolare straniero, per esercitare un vero e proprio terrore preventivo sulle masse popolari, imponendo un’insicurezza endemica nelle grandi città per demoralizzare ulteriormente il popolo lavoratore.
Ad esso si contrappone per interessi tutta la parte di popolazione italiana che vive del proprio lavoro e la cui sopravvivenza non è garantita dalla fruizione di redditi “imperiali”: i lavoratori dipendenti e autonomi di ogni settore, gravati da una crescente precarizzazione esistenziale che va ben al di là dell’ambito lavorativo per estendersi all’incremento dell’indebitamento, alla perdita della proprietà delle proprie case e persino dei propri veicoli privati, ma anche la parte di media e grande borghesia connessa con processi produttivi localizzati ancora dentro i confini nazionali, che stanno fortemente risentendo dell’aumento dei costi energetici, delle politiche sanzionatorie e della chiusura dei mercati stranieri. Questa parte, grandemente maggioritaria, della popolazione non gode però di rappresentanza politica e organizzativa. Associazioni di categoria e sindacati, quando non collusi col sistema imperialista, sono tipicamente frammentati e dalla scarsa efficacia; i vari partiti politici che si candidano a rappresentare una voce “dissenziente”, dal Movimento 5 Stelle alla galassia sovranista e di estrema sinistra, sono sempre meno rappresentativi e credibili agli occhi delle grandi masse. Allo stesso tempo però, come dimostrano le numerose ondate di contestazione che si sono succedute nel paese a partire dalla crisi del 2008-2011, le masse popolari mostrano una spinta crescente all’organizzazione e alla lotta, e arrivano spesso spontaneamente a formulare rivendicazioni più avanzate e coraggiose rispetto a quelle proposte dai partiti e dai movimenti già costituiti. Ciò mostra come esista in Italia una spinta soggettiva all’inizio di un percorso di liberazione nazionale. Per mettere a frutto queste energie spontanee è necessario che nasca un fronte politico che si proponga di unire le forze dirigendole verso l’obiettivo della liberazione nazionale, un fronte che sicuramente deve comprendere, ma non limitarsi, ai comunisti, alle forze patriottiche e democratiche coscienti, e che deve avere come principale interlocutore non questa o quell’area politica, ma le grandi masse della popolazione, senza pregiudizi identitari o cosmetici.
Questo fronte non dovrà essere un cartello elettorale e non dovrà avere la partecipazione alle elezioni come sua vocazione, ma dovrà portare avanti una lotta serrata, generale e radicale contro le forze dell’imperialismo, rappresentate in questa fase soprattutto dagli europeisti e dai progetti bellicisti di Bruxelles. Una lotta che potrà anche essere, in certe condizioni, elettorale, ma che dovrà prima di tutto essere esterna alle istituzioni, volta a schiacciare le provocazioni europeiste ovunque queste si verifichino, ad annientare la peste europeista ovunque questa osi alzare la testa, non tollerandone idee, simboli ed esponenti.
Riferimenti:
[1] V. Lenin, L’imperialismo: fase suprema del capitalismo, in Opere Scelte, Progress, Mosca, 1976, p. 231.
[2] Dati elaborati dalla UniCredit attraverso l’analisi di numerose fonti, tra cui il libro soci, Consob “Modello 120A”, dati pubblici, S&P Global shareholders analysis di Marzo/Aprile 2024, riscontrabili sul sito della banca stessa.
[3] UBS, Global Wealth Report 2023.
Immagine: US one dollar bill, reverse, series 2009 – Wikimedia Commons
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