a cura della redazione
I rischi per cittadini e lavoratori delle politiche protezionistiche varate nell’epicentro del sistema liberista e le incerte conseguenze di una strategia di sopravvivenza e dominio degli Usa, con diversi precedenti utilizzati come arma di ricatto contro Paesi non allineati.
La guerra dei dazi è cominciata. Potrebbe trasformarsi in una resa dei conti interna al blocco occidentale atlantista, uno scontro tra oligarchie, oltre che tra Paesi alleati, che tra mille contraddizioni registrano improvvisamente una distanza nelle reciproche posizioni sui principali aspetti della strategia di dominio del resto del mondo, un mondo che è tutt’altro che fermo e disposto a giacere in una perenne condizione coloniale.
Nel sistema del cosiddetto libero mercato globale, il protezionismo diventa – nella testa di chi lancia questa sfida – la leva per affermare la propria supremazia, per uscire dalle secche di crescenti difficoltà sociali ed economiche o semplicemente per ragioni di propaganda e di consenso. Ma i conti non tornano.
Il capitalismo mostra, ancora una volta, tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni. I liberisti e gli “Stati faro” del liberalismo e del liberismo smentiscono se stessi. La libera circolazione delle merci va bene solo quando conviene. Quella degli uomini invece è già da tempo tabù. Da quando cioè è stata abolita, almeno ufficialmente, la schiavitù. Quando gli uomini venivano forzosamente trasportati da un continente all’altro come merci. Ma nemmeno questa è una novità.
A pagare il prezzo del conflitto commerciale scoppiato nel cuore del capitalismo rischiano di essere come sempre il cittadino, il lavoratore, le fasce popolari. Ma gli esiti dello scontro sono tutt’altro che scontati.
Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha dato il via all’applicazione dei dazi doganali sulle importazioni, così come annunciato. L’Unione europea e i suoi Paesi membro, Cina, Canada, Australia, Giappone, Corea del Sud, Vietnam, Thailandia, Taiwan, Brasile, Colombia, Svizzera e altri ancora sono pronti a mettere in campo, chi più chi meno, risposte commerciali adeguate.
Alla vigilia del provvedimento le reazioni delle borse di tutto il mondo, a cominciare da Wall Street, sono state fortemente negative. In ribasso anche le quotazioni internazionali di petrolio e rame. Così pure le stime di crescita degli Usa.
Gli esperti del settore dicono che la politica dei dazi non funziona quando è applicata su larga scala e in maniera generalizzata e si trasforma in un boomerang. Così si alimenta l’inflazione e si rischia di pagare un costo alto a causa delle contromisure messe in atto dagli altri Paesi, generando una crisi produttiva, con conseguenze sull’occupazione e sui consumi.
Una situazione che può determinare nuovi equilibri e ricadute geopolitiche significative, come già segnalano le convergenze tra la Cina e gli altri Paesi dell’estremo oriente o la ricerca di nuovi partner dell’Europa.
Ma la decisione è presa: gli Stati Uniti imporranno un dazio del 10% su tutte le importazioni, con pesanti ulteriori aggravi, calibrati su misura, per 60 Paesi che registrano un surplus commerciale nei confronti degli Usa: Vietnam (46%), Cina (34%), Taiwan (32%), India (27%), Corea del Sud (25%), Giappone (24%) e Unione Europea (20%). L’obiettivo è agevolare l’industria e i servizi nazionali. Un’ipotesi difficilmente praticabile in un sistema di economia decentrata e di produzioni parcellizzate, con componenti provenienti da diverse parti del mondo.
Già nel suo primo mandato presidenziale Trump aveva imposto dazi ed embargo di alcuni settori merceologici, in particolare alla Cina, nei confronti della quale ha scatenato una vera e propria guerra commerciale, promossa anche attraverso fake news, azioni repressive (l’arresto di Meng Wanzhou, direttore finanziario e figlia del fondatore della Huawei), il programma China Initiative, una caccia alle streghe che ha colpito centinaia di scienziati e accademici sino-americani, molti dei quali sono stati licenziati, e provocazioni militari. Un’azione proseguita da Biden.
Ma embarghi e sanzioni, come arma di ricatto politico o come strumento di sabotaggio, sono stati adottati sistematicamente negli anni dagli Usa e dai suoi alleati Nato. Nel mirino di Washington sono finiti Cuba, con un criminale blocco totale che dura da oltre 60 anni, Venezuela, Nicaragua, Siria, Iran, Libia, Iraq (provocando circa 1 milione di morti, la maggior parte bambini in un Paese già colpito più volte da una guerra per imporre la “democrazia” o per fermare la presunta minaccia di inesistenti armi chimiche su prove false costruite dai servizi segreti anglo-statunitensi, come confermato dallo stesso Trump). E poi le sanzioni alla Russia. Senza contare i dazi del 25% sulle importazioni dal Messico e dal Canada, in questo giro risparmiati da appesantimenti aggiuntivi più volte minacciati.
Anche l’Unione europea è stata complice di diverse di queste misure di destabilizzazione, negli ultimi anni con particolare accanimento nei confronti di Mosca, arrivando ad azioni arbitrarie e illegali, come il congelamento dei beni e di conti correnti o al divieto, da poco adottato in Italia, di trasferimenti di privati nei confronti di cittadini o imprese russe, oltre alle illegittime e anticostituzionali censure di organi di informazione russi che operano in Italia, anche con filiali locali. Nel frattempo si rinuncia al gas a basso costo proveniente dalla Russia, mentre si sceglie (?) di acquistare a prezzi triplicati le forniture Usa. D’altra parte, l’unica a pagare un prezzo salatissimo per le prime sanzioni alla Russia, anni addietro, era già stata l’Italia, prona ai diktat imperiali degli Stati Uniti e ai capricci di Bruxelles.
Un caso emblematico è quello delle imposte doganali supplementari applicate alle auto elettriche cinesi e ai prodotti di basso costo, addirittura con il blocco di tantissimi pacchi acquistati in rete, ostaggio degli uffici doganali, rilasciati solo dietro pagamento di inattesi sovraprezzi. Ma ad un certo punto a chiedere la revoca dei dazi sono state le aziende automobilistiche europee, come Bmw, e paradosso l’americana Tesla, del trumpiano Elon Musk, per evitare il collasso di un settore già in crisi, che senza il traino dei migliori produttori di veicoli elettrici, i cinesi, rischia il definitivo collasso.
Invece nessuna sanzione è stata comminata ad un regime criminale come quello israeliano, guidato dal sanguinario Netanyahu, sul quale pende un mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale.
Oggi però il ceto politico italiano ed europeo si scandalizza per i dazi statunitensi perché questa volta nel mirino è finito il vecchio continente insieme a tutti gli altri. Ma le reazioni più blande giungono proprio da Roma, a causa del solito attendismo e servilismo del governo Meloni.
Le conseguenze per l’economia italiana e per i cittadini si preannunciano pesanti, soprattutto per le produzioni agroalimentari e per il settore automobilistico, già duramente provato.
Ma l’unico artefice di questa decisione è davvero soltanto il grottesco Trump? Soprattutto in questa fase, i politici sono solo la facciata di quello che sta dietro le quinte, da cui ogni tanto trapela qualche cosa. Il governo Trump è un governo dei ricchi per i ricchi, anche se nella sua strategia si osservano molte contraddizioni che potrebbero ostacolare il raggiungimento dell’America First per i suoi affezionati.
Dopo una campagna elettorale costosissima, come pure quella della sua avversaria democratica Kamala Harris, con contributi multimilionari da parte di privati, è difficile pensare che non ci siano debiti da onorare.
Può essere interessante analizzare la composizione dell’esecutivo e della squadra di Trump: i miliardari Scott Bessent, Howard Lutnick, il dirigente petrolifero Chris Wright, per realizzare il programma tariffario, appena lanciato, e l’applicazione della deregolamentazione. Questi è amministratore delegato di Liberty Energy, negazionista del cambio climatico e donatore della campagna elettorale. Trump ha poi nominato capo del Trade Representative Jamieson Lee Greer, che ha partecipato ai negoziati commerciali con Cina, Canada e Messico durante il primo mandato.
Il National Economic Council sarà diretto dall’economista Kevin Hassett, forte sostenitore dei tagli alle imposte sulle società. Russell Vought è stato nominato per l’Office of Management and Budget, con lo scopo di rivedere le normative federali e semplificare le procedure. È anche una figura di spicco del Progetto 2025 elaborato dalla Heritage Foundation di estrema destra. A questi si aggiunge Stephan Miren principale ideatore e sostenitore delle politiche tariffarie, su cui ha scritto un report che funge da guida.
È abbastanza contraddittorio, comunque, che un membro del Partito repubblicano, da sempre ostile alle tasse, abbia dato impulso a questa politica. Alla base della scelta la volontà di trovare una via d’uscita al declino degli Usa, in fase di stagnazione, di deindustralizzazione, di riduzione delle produzioni, con tassi molto negativi per quanto riguarda mortalità infantile, senza tetto, poveri, obesi. La politica di Trump appare quindi irrealistica. L’economista Richard Wolf ha richiamato in causa a questo proposito il meccanismo psicoanalitico della negazione.
I dazi, con l’aumento dei prezzi che provocheranno, aggraveranno anche le condizioni delle famiglie della classe operaia degli Stati Uniti. Un Paese ed il suo sistema economico che sfruttano i lavoratori americani, gli immigrati e la manodopera del mondo intero, attraverso le multinazionali che investono all’estero, per ridurre i costi salariali. Decenni fa, le corporazioni automobilistiche sono andate in Messico in cerca di manodopera a basso costo, approfittando della mancanza di diritti dei lavoratori messicani, pagandoli una miseria, per massimizzare i propri profitti. Se si dovessero spostare di nuovo le loro fabbriche negli Stati Uniti, il che non è scontato, faranno di tutto per imporre le stesse condizioni.
Sono le multinazionali dell’industria e le imprese delle tecnologie avanzate i soli ad essere agevolati dall’agenda politica di Trump e dei suoi.
Risulta quanto mai stonata quindi la posizione assunta da dirigenti sindacali come Sean O’Brien dell’Ibt, organizzazione dei lavoratori della logistica, e di Shawn Fain dell’Uaw, del comparto metalmeccanico, che si schierano con Trump sui dazi, contrapponendo gli interessi della classe operaia americana a quelli dei loro fratelli di classe in tutto il mondo, in particolare oltre il confine meridionale.
Alla fine, Trump e il governo Usa potrebbero essere costretti a fare marcia indietro, semmai utilizzando la minaccia dei dazi come strumento di contrattazione. Il segretario al Tesoro, Scott Bessent, intanto ha avvisato che le contromisure assunte dagli altri Paesi potrebbero provocare un’escalation. L’ennesima pretesa e arroganza di chi è abituato a trattare gli altri come sudditi.
Ma come andrà a finire è ancora tutto da vedere.
Immagine: Udo Keppler, Public domain, via Wikimedia Commons – vignetta di copertina della rivista « Puck » del 23 settembre 1908, intitolata Here’s How! (Ecco come!)
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