di Sergio Leoni
Un profilo del gruppo musicale e teatrale nato con l’intento di diffondere gli autentici valori della tradizione popolare campana, strettamente legato al lavoro di recupero e ricerca del grande musicologo e compositore, Roberto De Simone, scomparso purtroppo proprio in queste ore.
Tarantella ca nun và bbona è il quinto album della “Nuova compagnia di canto popolare” (d’ora in poi Nccp), e viene pubblicato nel 1975. I musicisti che lo realizzano compongono un ensemble che nel corso del tempo e in diversi album non sarà mai stabile e in cui la geometria del gruppo è da considerare, quanto meno, “variabile”. Inutile, in questo senso cercare di rintracciare, tra le diverse formazioni della Nccp un filo conduttore che non sia, semplicemente, la probabile necessità dei vari componenti di percorrere altre strade e nuove esperienze (anche se poi alcuni elementi, penso in particolare alla chitarrista e cantante Fausta Vetere, sono in qualche modo una costante nella lunga “carriera” di questo gruppo, anche se in realtà pure lei inizia a partecipare, in tempi lontani, come sostituto di un’altra musicista). Ma tutte queste considerazioni non valgono, naturalmente, per quella figura carismatica, dietro le quinte ma costante nella produzione e nell’indirizzo musicale del gruppo su cui dovremo, necessariamente, ritornare: quella di Roberto De Simone.
È nel segno di un’operazione di recupero delle musiche popolari napoletane e campane, che va detto preliminarmente e in maniera netta, niente hanno a che vedere con quel fortunato (in termini di vendite) filone che pretende essere la tradizione popolare della musica “partenopea” (il cosiddetto “neomelodico”) e che, viceversa, non ne è che una caricatura; recupero che si è invece mosso, ormai da molti decenni, nel solco di una ricerca più accurata e storicamente sostenibile. È da lì, in un contesto che vuole riprendere una tradizione, nel migliore dei casi trascurata, o peggio relegata per lo più a poco più che folclore, comunque sempre travisata, che si muove il lavoro della Nccp e di De Simone nello specifico. Nei confronti cioè di forme musicali di cui cercheremo, se pure in maniera non approfondita, come solo ci consente uno spazio Roberto come questo, di delineare almeno le linee essenziali: un recupero del miglior portato e del contributo che questa specifica cultura ha dato alla storia intera della musica, quantomeno per la parte “occidentale” in cui siamo, bene o male, completamente immersi.
In un mio contributo di qualche tempo fa che toccava in un certo modo il tema della “consistenza”, su un piano strettamente tecnico e strumentale, della cosiddetta musica popolare, sintetizzavo in un giudizio che certo non voleva in alcun modo essere “tranchant”, ma piuttosto prendere atto di una realtà sgradevole ma oggettiva, secondo cui una certa “povertà” della stessa musica popolare, andava per lo più attribuita alla povertà degli strumenti (in senso letterale) con cui questa veniva eseguita. È facile comprendere come, in decenni ormai lontani ma non lontanissimi, ci si sia potuto, nella tipica maniera ingenua ma in qualche modo anche un po’ arrogante, con cui le classi colte pensano di aver rinvenuto una cultura “diversa”, senza peraltro comprendere come questa sia del tutto antagonista e “altra” rispetto allo streaming dettato dalla cultura dominante; entusiasmarsi, dicevo, e giudicare come una vera e propria novità una sorta di “scoperta” (in realtà soltanto una riscoperta e per di più discutibile per molti aspetti) di antichi strumenti “dimenticati”, o di forme e strutture che in realtà, non solo i musicologi ma, e per certi versi direi soprattutto, conoscevano da tempo gli antropologi più avvertiti e, con tutte le sfumature (segno comunque di ricchezza culturale) l’antropologia nel suo insieme da un lato, e l’etnologia dall’altro.
Si tratta qui peraltro di una “povertà” di cui, prendendone serenamente atto (poteva essere diversamente?), non si può imputare ad altro soggetto se non alla storia (con la maiuscola o meno) che si è fattualmente dispiegata (e, ancora una volta, poteva andare diversamente?) in termini che oggi non possiamo che onestamente registrare.
Del resto è anche vero che una musica che potremmo anche, ma sbrigativamente, definire “popolare”, è stata la protagonista, cui peraltro non riservare che un ruolo del tutto marginale, lungo tutti gli anni di un medioevo e in buona parte per lo stesso sedicente “rinascimento” in cui il ruolo del “musicista” e il suo valore sociale sono di una “portanza” scarsa quando non nulla e in cui il giullare, il saltimbanco e il “musico” erano praticamente le stesse figure. Naturalmente qui si parla di una musica che poteva arrivare direttamente al popolo nelle occasioni, per fare un esempio, di fiere o, più facilmente, nel contesto di feste popolari guidate e comunque sostanziate da una ritualità religiosa in cui il mondo magico, quello degli oracoli e delle sibille che, possiamo tranquillamente dirlo, in realtà non è mai definitivamente scomparso ma ha solo trovato nuova vita in nuovi miti.
Una musica destinata ad un pubblico di élite non è mai peraltro venuta meno e le sue tracce sono ben conosciute e costituiscono un “basso continuo” che non ha mai smesso di suonare.
In buona sostanza, una divisione più o meno marcata, più o meno avvertita, tra una musica popolare e una musica “colta” è stata un dato costante che se si è protratto per lungo tempo, con poche eccezioni, con molte conferme e che in qualche modo è stata in parte spezzata soltanto, mi pare, con la nascita, nella sua fase più matura, del melodramma di matrice italiana, erede certamente di tradizioni anche lontane nel tempo, ma qui condensate in strutture che hanno incontrato non solo il favore di un vasto pubblico che potremmo, non senza qualche forzatura, definire “interclassista”, ma che di questo stesso pubblico sono diventati veri propri punti di riferimento. (È fin troppo facile riferirsi al Verdi che diviene, in pieno Risorgimento, una sorta di nume tutelare per questioni e problemi che di musicale non hanno decisamente niente).
Cosa abbiamo di fronte, che cosa ascoltiamo quando ascoltiamo un disco come Tararantella ccà nun va bbona?
Intanto, per definire e quantomeno tentare di inquadrare i brani di questo disco secondo criteri e definizioni condivisibili, direi sostanzialmente che vengono proposte all’ascoltatore: una moresca, una villanella, una tarantella e altre composizioni più difficili da definire ma solo per una sensibilità, la nostra, che ha perso lungo la strada di una omologazione generale, il senso e la forza culturale delle differenze che, da sempre, sono il motore della cultura in genere e qui, della musica in particolare.
Moresca, tarantella e, in altro modo, con l’aggiunta costante dei tamburi (da cui il nome) la tammurriata, sono altrettante forme musicali destinate essenzialmente al ballo, praticamente una delle espressioni, tra le poche, con cui le classi subalterne si sono potute riconoscere e hanno potuto credere di aver acquisito un linguaggio autonomo e possibilmente slegato da un ordine consolidato.
Si te credisse dipana un testo che riprende, o semplicemente reinventa uno tra i tanti temi della musica popolare: la disillusione dell’amante che smaschera i trucchi della compagna infedele.
“Si te credisse dareme martiello/ e ch’aggia falalatiello/ ca faie la grande e me ncricche lu naso/ va figlia mia ca Marzo te n’ha raso”. Non credo ci sia bisogno di tradurre,
A questo proposito una digressione non è solo utile ma, a ben vedere, forse necessaria per smontare alcuni pregiudizi riguardo alla musica napoletana nel suo complesso. Circolano in rete “traduzioni” dei testi della Nccp che oscillano tra il ridicolo e l’improbabile. In alcuni casi non è difficile rilevare la buona volontà di chi si cimenta in una operazione oggettivamente difficile. In alcuni casi l’intento sembrerebbe essere quello di “normalizzare” testi che sfuggono, a ben vedere, ad una ipotetica analisi grammaticale.
Ma, esattamente, qui sta un nodo che non è facile sciogliere.
Le lingue, i dialetti e ogni altra espressione gergale, non possono e non dovrebbero, sostanzialmente, questo è il pensiero di chi scrive, essere tradotti.
Si vuol dire che devono in qualche modo restare incomprensibili?
Al contrario. È esattamente l’espressione musicale (e l’espressione della voce umana recitante) quella che unisce nord e sud, e in generale realtà che apparentemente sembrerebbero incompatibili.
In una rappresentazione in un teatro marchigiano piuttosto conosciuto, ad una rappresentazione de La gatta Cenerentola, della cui importanza qui accenneremo più avanti in poche righe, avvenuta or sono molti anni, una signora dall’accento che rivelava la sua provenienza dal nord dell’Italia, mi chiedeva sconcertata e in qualche modo disillusa, se riuscivo a capire qualcosa, e il riferimento riguardava certamente il testo che i personaggi dell’opera cantavano. Ora, le parole di questa grande operazione culturale di ampio respiro che porta la firma di Roberto De Simone non sono facilissime da, per così dire, tradurre simultaneamente in un italiano che tra l’altro non avrebbe a sua volta altro titolo se non quello di essere, per definizione ma nella pratica solo da tempi non remoti, la lingua nazionale. Il disagio della spettatrice del nord è lo stesso di chi ha bisogno che tutte le espressioni culturali, e dunque “anche” musicali e linguistiche vadano ricondotte ma a questo punto anche depotenziate,
ad un canone che rappresenterebbe in realtà, se seguito, una disastrosa omologazione, cui peraltro tende il “mercato” in tutte le sue emanazioni.
La musica, in altri termini e sostanzialmente, anche se secondo tonalità e “scale” le più differenti, è un linguaggio universale. E non nel senso di un ottimismo di fondo che vorrebbe, peraltro giustamente, tutta l’umanità legata ad un unico senso espresso attraverso diversi linguaggi, ma piuttosto nella consapevolezza ormai assodata secondo cui non c’è una vera distanza insormontabile che possa impedire ad ogni ascoltatore, che ne abbia voglia, di capire e apprezzare musiche apparentemente molto “lontane”.
Tu sai che la cornacchia. Altro brano significativo per essere una reprimenda sulle indecisioni (crai crai, verso della cornacchia, ma, in un napoletano che deve qualcosa al latino, “domani”) di, ancora una volta, una donna “scortese” in quanto non disposta a condividere quell’amore che rende impaziente e certo disilluso il cantante.
Rancio e mosca è un pezzo che gioca su una sorta di loop. Il “rancio” (il ragno) si mangia la mosca che viene mangiata dal topo, a sua volta mangiato dal gatto, e via andando percorrendo una catena di figure sempre più
grandi…
È evidente, come tale struttura musicale, soprattutto per quanto riguarda il testo, sia stata ripresa scopertamente, e penso in maniera del tutto sincera, appunto come una specie di “omaggio” da Angelo Branduardi in uno dei suoi brani più popolari, (“La fiera dell’est”).
Una semplice constatazione ci porta direttamente a due punti che penso abbiano una loro consistenza.
Il primo: le strutture musicali, in particolare quelle che riguardano e si configurano come “popolari”, a volte, al di fuori di spiegazioni le più ragionevoli, resistono al tempo e si riproducono, con qualche ovvia variazione, in maniera sorprendente in composizioni che riescono a incontrare anche il gusto contemporaneo.
Secondo punto: riprendere e far emergere un patrimonio musicale indiscutibilmente interessante, spesso decisamente emozionante, è cosa che merita non solo il rispetto dovuto ad un lavoro di ricerca che certo non sarà stato facile, ma ci pone, mi pare, davanti ad una questione di non poco conto.
Che sintetizzerei ancora una volta in due punti, o in due domande.
La musica popolare ha oggi un qualche spazio nel panorama generale?
Esiste davvero ancora una musica popolare, che non sia, ovviamente, un mero recupero “filologico” di testi consolidati e consegnati alla storia?
Quanto alla prima questione, è evidente che essa potrebbe facilmente essere liquidata con una presa d’atto per cui tutto ciò che è autenticamente popolare, e dimostra di esserle nel corso del tempo, non può e di fatto non ha spazio in un mondo dove i i tempi con cui, ma solo apparentemente, la società evolve, sono in totale contraddizione con altri tempi che seguono un’altra scansione in un ipotetico metronomo che si ponesse come “neutrale”.
È abbastanza evidente che una musica popolare non ha mai avuto uno spazio autonomo nel corso di tempi che si misurano, sotto molti aspetti, per lo più in secoli. Non avendo avuto la possibilità di codificare i suoi “stilemi” in un, poniamo, qualunque pentagramma come ha da sempre fatto la musica colta, deve perciò necessariamente affidarsi ad una tradizione “orale” su cui si sono spese migliaia di pagine, in particolare in campo strettamente letterario, considerandola in qualche modo recante un portato positivo, anche quando legato a miti di difficile interpretazione e di improbabile codificazione.
Del resto rispetto ad una tradizione essenzialmente orale, è chiaro che si finisce troppo spesso per trovarci, per usare una vecchia metafora, nella notte in cui tutti i gatti sono bigi. E in cui ognuno può arrogarsi il diritto di proclamarsi autentico interprete di una tradizione che, non avendo solidi parametri su cui definirsi, è aperta ad ogni altra definizione o che è peggio, ad ogni appropriazione.
Con la musica “popolare” siamo insomma al centro di un problema apparentemente irrisolvibile.
Un suo spazio in effetti si potrebbe dire che, dopo tutto, questa musica può rivendicarlo, in forme e maniere del tutto dignitose e che non suonano come operazioni “nostalgiche”. Alan Stivell, in ambito europeo, rilegge e attualizza un patrimonio sterminato che ha le sue radici nella Bretagna, e da lì riesce a far partire un discorso ben più ampio. Ma, in qualche modo, anche qui siamo di fronte sostanzialmente ad un “recupero”.
Che, a questo punto dovrebbe essere evidente, non è solo una sorta di operazione-nostalgia per un passato più fumoso che chiaro, ma una scelta filologica a tutto tondo che realizzata secondo i criteri dovuti, potrebbe riservare grandi sorprese ma, alla stessa maniera, grandi ridimensionamenti di supposti contenuti alternativi.
E qui rientra in gioco il grande lavoro di Roberto De Simone.
Il quale è molto di più di quella specie di mentore della Nccp cui talvolta lo si è voluto confinare. De Simone è molto di più e, per tentare una definizione anche provvisoria del suo lavoro, si potrebbe definirlo, se proprio c’è bisogno di una definizione, un animatore culturale senza confini. Perché in realtà, anche se la maggior parte del suo lavoro è stata dedicata alla scoperta e alla diffusione della vastissima e sommersa realtà culturale (sotto ogni aspetto) della sua Campania, è chiaro che il suo metodo di lavoro ha potuto creare la base per lavori ed opere costituite da un orizzonte ben più vasto.
La gatta Cenerentola, per chi scrive, si pone al vertice della sua creatività. De Simone è autore di questa opera in tutti gli aspetti: musica, testi e, sicuramente, allestimento teatrale. E mi pare che quest’opera sia in qualche modo la summa e almeno “un” punto di arrivo nella produzione artistica di De Simone. È chiaro che anche una semplice disanima di questo lavoro non può essere in nessun modo condensato in poche righe. Il consiglio è ancora una volta di andare ad ascoltare e vedere La gatta Cenerentola.
Non è possibile, e probabilmente non sarebbe neanche corretto proporre una conclusione o una risposta, per quanto provvisoria, alle questioni che qui ho cercato di sollecitare. I temi in discussione sono lontani dall’essere stati esaminati fino in fondo e i cambiamenti, in campo sociale, creano una situazione per cui pare necessario aggiornare continuamente analisi che sembravano avere una loro consistenza e che invece devono confrontarsi, ancora una volta, con parametri variabili in maniera perfino inquietante.
Un piccolo esempio mi pare il modo migliore per inquadrare il lavoro di un gruppo musicale che è stato, a suo tempo, una sorpresa nel panorama musicale, e nel tempo un punto di riferimento per quanti non si accontentano di adeguarsi ad uno streaming musicale sempre più sordo alle diversità, sempre più ripetitivo e banale.
Tra i tanti “pezzi” che compongono lo sterminato repertorio della Nccp, c’è anche lo spazio per una ripresa della “Carmagnola”, il canto dei Sanfedisti, non esattamente l’espressione di una parte politica progressista.
Mera filologia? Recupero del passato a tutti i costi?
Piuttosto, mi pare, la consapevolezza, che in questo momento storico tende ad essere sottovalutata quando non a svanire, che l’”arte”, in ogni sua dimensione ed estensione, è parte e determina per quello che è possibile quanto al suo ruolo, il quadro di ogni società.
Immagine: foto di pubblico dominio da Wikimedia Commons – Un’esibizione della Nuova Compagnia di Canto Popolare nel 1976 – Il libro dell’anno 1976, ed. De Agostini
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