Weather Report: il jazz incontra il rock

di Sergio Leoni

Il percorso di un gruppo musicale che negli anni Settanta ha aperto una nuova strada.

Intorno alla metà degli anni Settanta del secolo scorso si è posta, con un’insistenza non del tutto spiegabile, una questione che sicuramente ha riguardato soprattutto l’ambito dei cosiddetti o sedicenti addetti ai lavori, ma ha coinvolto una buona parte degli ascoltatori e, in particolare, come era ovvio, quella parte di essi che avevano un certo grado di conoscenza di stili e forme musicali. Emergeva, in sostanza, un problema che non ha potuto, fin dal tempo in cui si è posto, mettere d’accordo le diverse prese di posizioni. E che, peraltro, non senza una discreta dose di ironia, adesso che questa questione appare ormai irrilevante, sembra ancora oggi tutt’altro che risolta. Non si trattava, è bene sottolinearlo per non dare un’importanza eccessiva a questioni, dopo tutto, molto marginali rispetto ai grandi temi del periodo, di un tema che poteva togliere il sonno a qualcuno ma che, considerato nella sua giusta dimensione, era un tassello di una discussione più ampia che riguardava una cultura che usciva in quegli anni da ambiti molto ristretti ed elitari nell’accezione più negativa da dare a questo termine.

In breve, e quindi solo accennando in prima battuta ad argomenti che occorrerà riprendere, la questione si poteva ridurre a una semplice domanda: è possibile una qualche forma, non tanto di contaminazione (ché quella è inevitabile), quanto di incontro tra due realtà musicali che avevano alle spalle percorsi del tutto diversi?

Qui non è il momento, nemmeno per sommi capi, di fare una sorta di prontuario della storia della musica ormai non più recente, intendendo quella degli anni ’70 e forse ’80 del secolo scorso, cresciuta in ambienti alternativi (o, a volte, sedicenti tali), se non altro perché una tradizione in questo senso non si è consolidata che per sommi capi, ed è, dunque, incompleta e incapace di fornire parametri accettabili.

Ma il quesito era ben chiaro, e chiaro è rimasto, nonché irrisolto nel corso di tutti questi anni.

Sarebbe stato possibile fondere il jazz e il rock? Farne una nuova formula (se non proprio una forma) musicale, con un suo stile e contorni abbastanza definiti da essere riconosciuta in quanto tale da un pubblico più vasto e dunque non di élite?

Occorreva mettere un argine a questo possibile incontro, o era più opportuno, laddove inevitabile, assecondare e magari orientare questa specie di passaggio che a un certo punto apparve addirittura “esistenziale”, nel senso, va da sé, della capacità o meno di resistere sulla scena musicale e, in definitiva, di esistere? Una sorta di bivio storico, in più sensi, in cui ogni scelta avrebbe evidentemente segnato un percorso determinato. Con esiti e risultati tutt’altro che scontati.

Certo, mentre il jazz poteva vantare una storia pluridecennale (per rimanere alle sue espressioni più recenti e sorvolando sulle sue radici più concrete fatte di canti ancestrali africani filtrati e riproposti in forme necessariamente legate alla strumentazione data al momento), il rock, dal canto suo, alle spalle non poteva che proporre l’esito recente di una tradizione che, se in molti casi era perfino condivisa con il jazz, per lo più se ne discostava per un uso paradossalmente più codificato delle sue espressioni musicali. E per la quasi completa, almeno ai suoi esordi, mancanza del concetto di “improvvisazione”, se non quella abbastanza scontata basata sulle scale pentatoniche che, inoltre, non ne prevedeva l’“uso” se non alla chitarra solista.

Detto in un altro modo e in maniera più semplice.

Nel jazz l’improvvisazione, concetto peraltro piuttosto vago e “aperto” a più di una interpretazione, è in qualche modo il fulcro e l’idea di fondo su cui determinati musicisti condividono un “minimo” di stilemi, e su quelli sono “autorizzati” a improvvisare note e temi che essi ritengano espressioni del loro “sentimento”. Ma tutto ciò, voglio dire questa apparente “libertà” senza limiti, in realtà si sviluppa necessariamente entro “canoni” molto ampi ma non indefiniti

Non dico niente che qualunque studente di musica ai primi anni del suo percorso già non sappia.

Quella che “appare” come improvvisazione non si sviluppa, sostanzialmente, se non come la possibilità, in un contesto determinato, di giocare “entro” ambiti ben definiti. E questo vale, dopo tutto, anche e forse di più, per il rock.

È solo con la musica che sbrigativamente definiamo, in apparente contrapposizione con la cosiddetta musica classica, “moderna o contemporanea” che realmente questi “limiti”, o questi parametri entro cui muoversi, sono completamente scardinati. (Luigi Nono, Charlemagne Palestine, Edgar Varèse… sono solo alcuni esempi possibili tra moltissimi).

I Sing the Body Eletric è il titolo di una poesia di quel talento non facilmente definibile, e forse fuori da ogni schema, che è stato il poeta americano Walt Withman (1819-1892).

I Sing the Body Eletric è anche il titolo del primo Lp (pubblicato nel 1972) di un gruppo musicale, uno dei cardini di una possibile via nuova, sia detto senza alcuna enfasi ma nella consapevolezza che anche un Lp poteva creare una “svolta” nella storia musicale occidentale: i Weather Report.

Questa band, che lascerà un segno importante quando non decisivo nell’ambito della musica contemporanea per un periodo di tempo non lunghissimo, ma non breve e soprattutto molto intenso, era nato dall’intuizione dei due fondatori che saranno, nel tempo, gli unici elementi sempre presenti di un gruppo costantemente aperto a nuovi apporti: Joe Zawinul, musicista austriaco alle tastiere, Wayne Shorter, un americano al sax.

Gli altri elementi della formazione originaria che poi saranno, volta per volta, sostituiti, scambiati in un gioco in cui la composizione delle formazioni è, in fondo, l’ultima cosa cui bisogna guardare perché, a ben vedere, sono solo il risultato di incontri e confronti tra musicisti tutti inseriti in un contesto musicale completamente in divenire, tutti indiscutibilmente musicisti di primo piano e di grande esperienza.

E, in ogni modo, per questo primo disco: Eric Gravatt alla batteria, Dom Um Romão alle percussioni, Miroslaw Vitouš al basso.

Figure importanti, questi tre musicisti, e, anzi, per molti aspetti essenziali, in quanto costitutive di quella “sezione ritmica” che è stata allora ed è sempre alla base di qualunque gruppo jazzistico, rock, e forse costituisce l’elemento che queste diverse espressioni musicali accomuna.

I Sing the Body Electric si apre con un brano in cui diversi piani musicali si incrociano delineando un quadro musicale complessivo in cui ogni strumento è valorizzato e ha un ruolo mai secondario.

Unknown Soldier è, infatti, una specie di suite, nel senso che una linea melodica, se pure se ne può individuare una, è solo “una” parte di più linee in cui si sviluppa il pezzo. E, in effetti, è difficile dire, quantomeno per un ascoltatore non avvezzo al modo di scrivere musica divenuto oggi usuale (il cambio della scansione del tempo nell’ambito di uno stesso pezzo, per cui si può passare tranquillamente da un tre quarti a un due quarti, o addirittura a un tre quarti, cosa che dovrebbe risultare un po’ più complicata), stabilire quale sia un possibile spartito (della cui esistenza non dubitiamo). Ogni linea musicale, insomma, segue un suo percorso che porta, poi, a una coralità che si risolve, secondo gli insegnamenti e i suggerimenti della lezione barocca, in un “concerto”, inteso nel suo vero significato di unione e condivisione.

E, quindi, si sviluppa con un sottofondo (che con ancora qualche forzatura potremmo paragonare al “basso continuo” di ancora barocca memoria) su cui si inseriscono una serie di suoni che sembrano piuttosto “eventi” più che contributi allineati al solco musicale principale.

Il pezzo, voglio dire, è estremamente evocativo e mi pare rappresenti uno dei pochi casi in cui il titolo di un brano senza parole, in cui solo la musica esprime eventuali “concetti”, esprime ma soprattutto “descrive” una situazione, una fotografia tanto chiara quanto inequivocabile. E sembra discostarsi in ogni modo dalla retorica che ha attraversato anche il secolo in cui viviamo, per dirla in maniera cruda, come solo la musica in certi casi sa fare, ma “racconta” il dramma senza speranza e senza “rimembranze” del “milite ignoto”.

Il secondo brano vede come “ospite” il chitarrista Ralph Towner (un’autorità musicale, a suo tempo, nell’uso di questo solo apparente facile strumento) che occupa tutta la prima parte del pezzo fino a quella che è davvero un’esplosione rappresentata dall’ingresso degli altri strumenti.

Ma qui non è possibile, come sempre quando si pretende, anche con le migliori intenzioni, di descrivere un oggetto tanto forte quanto sfuggente come la musica, proporre un’analisi dei vari brani proposti.

Di Crystal si potrebbe dire che contiene sonorità che rimandano a certe musiche contemporanee dei già citati, qualche riga più su, compositori contemporanei.

Del lato B del disco, del resto, che rappresenta uno spaccato reale del gruppo in quanto è costituito dalla registrazione di un concerto dal vivo a Tokio, bisognerebbe aggiungere, ma in parte è scontato, come sa qualunque musicista che si propone a un pubblico, che la musica tende ad accentuare certi passaggi, sottolinea quelli che comportano un coinvolgimento emotivo da parte del pubblico (operazione difficile e quanto mai aleatoria), e tende in ogni caso a comporre un idem sentire con chi ascolta. Niente di scontato, in realtà.

Ma un concerto dei Weather Report, così come è registrato e fissato in una facciata di un vecchio long playing, costituisce un’esperienza musicale il cui spessore non può essere minimizzato.

La questione da cui ho creduto di poter partire per una disanima che qui ha riguardato, in effetti, solo un gruppo, i Weather Report, che considero tra i più significativi quanto alle domande poste ma che certamente sono in buona compagnia nell’ambito di un “clima” musicale che ha visto la nascita (tralasciando ogni periodizzazione) di gruppi entrati di diritto nel patrimonio musicale di una generazione che, detto in maniera sbrigativa e forse in qualche modo superficiale, voltava le spalle al festival di Sanremo, e guardava a tutt’altri orizzonti. La questione, voglio dire, quando e se è stata risolta, lo è stata, come normalmente avviene, per accumulazione. Tanti elementi, tante opzioni spingevano in quella direzione. Molte formazioni musicali si sono create in quegli anni. Segno, mi pare, di un’esigenza di fondo che cercava un qualche tipo di soluzione. Altri gruppi potrebbero essere citati. E ognuno potrebbe costituire un altro punto di vista, un’altra versione di quello che, alla fin fine, non ha potuto essere liquidata come una moda passeggera.

I Weather Report hanno fatto il primo passo su un percorso di cui pochi conoscevano la direzione e gli esiti.

E il coraggio che hanno dimostrato è una lezione per tutti quelli che usano uno strumento che non è, evidentemente, solo “musicale”.

Immagine: nella foto dell’11 giugno 1981, i Weather Report in concerto alla Shinjuku Kosei Nenkin Hall di Tokio (Giappone) – Jun Tendo, Public domain, via Wikimedia Commons

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