di Ascanio Bernardeschi
L’8-9 giugno si vota su cinque referendum per invertire decenni di politiche che hanno reso il lavoro precario e impoverito. Abrogare il Jobs Act, estendere tutele a piccole imprese, limitare i contratti precari e responsabilizzare gli appalti sono obiettivi parziali ma cruciali per riaprire il conflitto sociale. Il voto, oltre il quorum, è un primo passo per ricostruire una classe lavoratrice unita e riaffermare l’articolo 1 della Costituzione: un’Italia fondata sul lavoro, non sullo sfruttamento.
In un’Italia dove il 10% degli occupati vive in povertà e i salari hanno perso il 30% del potere d’acquisto dal 1990, i referendum del prossimo 8-9 giugno rappresentano un tentativo di riportare al centro i diritti costituzionali del lavoro. Non è una battaglia isolata, ma un importante momento di una resistenza contro decenni di politiche che hanno smantellato tutele, compresso i salari e trasformato il lavoro in merce precaria.
La crisi sistemica del capitalismo e la guerra al lavoro
Il deterioramento delle condizioni dei lavoratori non è un incidente di percorso, ma l’esito di una logica strutturale. Come aveva previsto Marx e come ha rilevato Thomas Piketty nel suo World Inequality Database, il capitalismo dagli anni ‘70 affronta un crollo del saggio di profitto (-40%) e le politiche liberiste hanno consentito di contrastare questa caduta comprimendo il costo del lavoro, vale a dire salari diretti, indiretti (welfare) e differiti (pensioni).
Le riforme degli ultimi trent’anni – dal pacchetto Treu (1997) al Jobs Act (2014) e alla devastazione del sistema pensionistico – hanno tradotto questa logica in norme. Hanno reso i licenziamenti più facili, moltiplicato i contratti precari, svuotato le pensioni pubbliche, demolendone il loro precedente carattere solidaristico. Persino la Costituzione è stata modificata: il pareggio di bilancio (2012) ha legittimato l’austerity e delegittimato le politiche espansive, mentre l’autonomia differenziata rischia di frammentare ulteriormente i diritti.
I referendum CGIL: cosa chiedono e cosa manca
I cinque referendum promossi dalla Cgil puntano a correggere alcune distorsioni:
- Abrogazione del Jobs Act: eliminare il risarcimento in denaro per i licenziamenti illegittimi, ripristinando (parzialmente) il ruolo deterrente del reintegro.
- Tutele per le piccole imprese: impedire ai datori di lavoro di calcolare in anticipo i costi dei licenziamenti, lasciando ai giudici la valutazione caso per caso, senza un limite massimo prestabilito per legge.
- Contratti precari: reintrodurre l’obbligo di specificare le causali per i contratti a termine, limitandone l’abuso.
- Responsabilità negli appalti: rendere le imprese appaltanti corresponsabili per gli infortuni, colpendo il sistema degli appalti low-cost.
- Cittadinanza: ridurre da 10 a 5 anni il requisito di residenza, favorendo l’integrazione dei migranti e l’unità della classe lavoratrice. Infatti, senza cittadinanza, i migranti sono esposti al ricatto del mancato rinnovo del permesso di soggiorno e, essendo costretti ad accettare condizioni lavorative peggiori, premono sul mercato del lavoro.
Raggiungere il quorum sarà un percorso in salita, percorso che sarebbe stato un po’ più agevole se non vi fossero due mancanze grandi come montagne: i ripristini della scala mobile e del sistema pensionistico retributivo. Una scelta non casuale, legata agli interessi dei sindacati confederali (Cisl, Uil), che preferiscono gestire fondi pensione privati e mantenere il ruolo di interlocutori privilegiati nella concertazione, inaugurata proprio con l’accoglimento della soppressione della scala mobile.
Perché votare (anche se non basta)
Raggiungere il quorum sarà difficile: l’astensionismo cronico, che si avvicina alla metà, e l’ostilità del fronte padronale creano un muro difficile da scavalcare. Ma il voto ha un valore simbolico cruciale. Una vittoria, o anche solo un risultato dignitoso, manderebbe un segnale contrario alla narrazione dominante, secondo cui i diritti del lavoro sono un ostacolo alla “competitività”. Una sconfitta, invece, legittimerebbe ulteriori attacchi.
Non hanno ragione gli economisti che vedono un legame fra approfondimento della subordinazione del lavoro e crescita economica. Nello stesso periodo in cui venivano colpiti i diritti del lavoro, la produttività e le retribuzioni registravano un netto peggioramento. Dall’inizio del secolo, in Italia, la produttività per ora lavorata è cresciuta di appena 2,7 punti e il potere d’acquisto delle retribuzioni è caduto di 5,4 punti.
Il dumping sociale, la corsa al ribasso del tenore di vita dei lavoratori aveva una sua, sia pur perversa, logica. In una situazione di globalizzazione la produzione guardava prioritariamente ai mercati internazionali nei quali occorreva essere competitivi e, quindi, doveva essere abbassato il costo del lavoro.
La situazione è cambiata nettamente. Gli Usa, fortemente indebitati con l’estero non possono più continuare a essere la spugna che assorbe la sovrapproduzione mondiale, lo dimostra il marcato ricorso ai dazi e alle sanzioni. Quindi, per promuovere il rilancio produttivo bisogna pensare ad altri sbocchi, a una crescita della domanda interna per la quale è necessario un lavoro dignitosamente retribuito e non salari da fame.
Il vero obiettivo, però, è riaprire un conflitto sociale sopito. I referendum sono un trampolino, non una soluzione. Servono per riportare nelle piazze temi come la scala mobile, e pensioni, la sanità pubblica, la sicurezza e la democrazia nei luoghi di lavoro – questioni rimosse dal dibattito politico.
La posta in gioco: ricostruire una classe
Dietro ai referendum c’è una sfida più grande: ricomporre una classe lavoratrice frammentata da contratti e status giuridici estremamente diversificati. I migranti irregolari, i rider, le false partita Iva, i precari della scuola sono altrettanti tasselli di un esercito industriale di riserva, strumentalizzato per comprimere i salari di tutti.
La battaglia per i referendum incrocia così un tema costituzionale: l’articolo 1, che definisce l’Italia “una Repubblica fondata sul lavoro”, non può essere un’icona retorica. Esso implica un modello opposto a quello attuale: meno finanza, meno privatizzazioni, più investimenti in servizi pubblici e salari dignitosi.
Conclusioni: oltre l’8 giugno
Votare non basta, ma non votare significa consegnare il futuro a chi vorrebbe cancellare quel che resta delle tutele. La vera partita si gioca dopo: solo mobilitazioni di massa, scioperi e alleanze trasversali potranno invertire una tendenza trentennale. I referendum sono l’inizio di un percorso che deve riconquistare spazio, parola e potere a chi lavora. Perché, come scriveva Marx, “l’emancipazione della classe lavoratrice dev’essere opera dei lavoratori stessi”.
Immagine: foto tratta dalla sezione Referendum del sito della Cgil (Marco Merlini)
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